Metodo Ruffini, una cura rivoluzionaria?

Il Metodo Ruffini è un trattamento dermatologico a uso topico per la cura di patologie di pelle e mucose attraverso l’applicazione di ipoclorito di sodio (NaOCl), diluito in acqua in concentrazione compresa tra il 6 e il 12 per cento. Tale metodo promette di curare oltre cento malattie e disturbi di pelle e mucose spesso insidiosi e resistenti alle cure tradizionali: dermatiti, micosi di pelle e unghie, candida al papilloma virus, ferite a infiammazioni, herpes labiale, fuoco di Sant’Antonio, piede diabetico infetto, infezioni di Mrsa, punture di vespe fino a ustioni di meduse e scottature domestiche.

Gilberto Ruffini è un uomo che da semplice garzone di dentista diventa odontotecnico, quindi medico chirurgo e, infine, ematologo, nonché libero ricercatore. Dopo essersi laureato in Medicina e chirurgia a Milano, il dottor Ruffini esercita come dentista (all’epoca i due percorsi di laurea non erano separati) e contemporaneamente prosegue gli studi a Pavia specializzandosi col massimo dei voti in Ematologia clinica e di laboratorio, sotto la guida di quello che è considerato il padre storico dell’ematologia, Edoardo Storti. Nonostante la specializzazione conseguita, Ruffini continua la sua attività di dentista nel centro di Varese per 42 anni, prestando anche servizio in ospedale e insegnando all’università. Contemporaneamente, però, coltiva anche un’altra passione, la libera ricerca, e lo fa con un approccio estremamente pragmatico, concependo la medicina a 360 gradi e mai a compartimenti stagni. Ed è così che, un po’ per caso, ‘scopre’ un metodo risolutivo per tutta una serie di problemi dermatologici: chiede e ottiene il brevetto nel 1996 dandogli il suo nome e, da allora continua instancabilmente l’attività di ricercatore, provando al tempo stesso, grazie soprattutto all’aiuto del figlio Paolo e di altri amici e collaboratori, a diffondere il più possibile questo trattamento perché sempre più persone (soprattutto coloro che non possono accedere a farmaci costosi) possano venirne a conoscenza e trarne giovamento per la propria salute.

logo metodo ruffini

Riportiamo alcuni stralci di un interessante articolo tratto dal manuale pratico Curarsi con la candeggina?, della naturopata e blogger di The Cancer Magazine Patrizia Marini, che spiega nel dettaglio come funziona il Metodo Ruffini.

Metodo Ruffini: delucidazioni di Patrizia Marini

L’ipoclorito di sodio, secondo le modalità del Metodo Ruffini, può trovare applicazione, naturalmente, anche come disinfettante negli ospedali. Se per evitare la diffusione di batteri multiresistenti, i cosiddetti superbatteri o batteri killer, come abbiamo visto, è raccomandato di evitare la somministrazione di antibiotici a largo spettro in modo preventivo rafforzando invece l’igiene, il nostro ipoclorito può essere un ottimo alleato “nelle mani”, è il caso di dire, degli operatori sanitari. Nulla di nuovo se già nell’Ottocento il medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis scoprì che bastava lavarsi le mani con un composto di cloro per prevenire la setticemia ovvero la febbre puerperale.

Come si legge in un testo sulla sanificazione nell’industria alimentare, “è probabile che la resistenza batterica nei confronti dei disinfettanti, in particolare quelli dell’ammonio quaternario, si sviluppi con modalità analoghe a quelle delle resistenze antibiotiche. L’impiego di trattamenti più blandi con acidi organici rappresenta una scelta più sicura per il personale e anche efficace nell’ambito di alcune applicazioni; tali trattamenti possono però favorire la selezione di ceppi resistenti capaci di adattarsi e di diventare tolleranti agli acidi. Tuttavia, un biocida ad ampio spettro come il cloro è sufficientemente potente da impedire tale selezione”. Al contrario di alcuni altri disinfettanti, l’ipoclorito di sodio non crea resistenze batteriche, ovvero la formazione di ceppi patogeni resistenti, perché non elimina quelli più deboli ma tutti: non c’è batterio, virus, fungo, protozoo o parassita che vi possa fisicamente resistere! Se sopravvive qualche agente patogeno all’applicazione è perché l’ipoclorito non l’ha incontrato sul suo cammino, perché applicato in dosi minime o in percentuale non sufficiente. Se il problema quasi non si pone nel caso delle mucose, dove infatti in genere è sufficiente in concentrazione del 6%, ad esempio nel caso dell’onicomicosi l’unghia stessa diventa un ostacolo difficile ma non impossibile da superare per l’ipoclorito, offrendo riparo al fungo parassita. Anche nel caso in cui sopravviva qualche agente patogeno, dunque, non sarà quello geneticamente più forte, quindi non può contribuire in alcun modo all’evoluzione della specie patogena.

Senz’altro è difficile credere che una sola terapia possa debellare letteralmente moltissime forme di infezioni dermatologiche (batterica, fungina, parassitaria, virale). Qui in Italia, e non soltanto, sono veramente poche le persone che conoscono l’effetto benefico di questa sostanza. Non c’è da stupirsi, perché i concetti e le soluzioni più semplici sono spesso quelli più veritieri ed efficaci, ma, nello stesso tempo, quelli più ignorati, e questo è particolarmente vero quando si tratta di argomenti che riguardano la salute. Siamo stati educati a credere che la soluzione dei nostri problemi fisici sia necessariamente monopolio di pochi, eppure la cura per una malattia non deve essere per forza costosa o complessa per essere veramente efficace.

La storia dell’umanità non è fatta soltanto di conquista progressiva di scienza-conoscenza che, man mano che viene acquisita nel patrimonio culturale, elimina automaticamente quella inutile; l’evoluzione procede per sovrapposizione su basi precedenti, senza eliminare mai ciò che possa eventualmente tornare utile in futuro. Alcuni medici si rifugiano nel tecnicismo per paura: paura dell’ignoto e paura di fronte all’angoscia dei malati. Il tecnicismo per certi versi protegge il dottore e gli dà la sensazione di sapere e di potere (poter fare), rischiando di divenire un comodo rifugio per deresponsabilizzarsi, per non assumersi cioè direttamente la responsabilità dello stato di salute del proprio paziente. Spesso la pigrizia mentale e la mancanza di strumenti culturali e cognitivi impedisce al professionista di accedere a una mentalità di confronto con una diversa realtà. Non tutte le cure mediche creano salute, e credere di migliorarla moltiplicandole è soltanto un’illusione. Molti dei farmaci in commercio, per esempio, non risultano efficaci o risolutivi per la cura di un disturbo o patologia. In non pochi casi, piuttosto che di “terapia farmacologica” sarebbe opportuno parlare di “trattamento farmacologico”, giacché molti tipi di medicinali non hanno alcuna utilità nel rimuovere le cause che hanno generato la malattia ma si limitano a gestirne i sintomi.

La medicina nel corso degli ultimi anni ha fatto passi da gigante, se pensiamo all’epoca in cui si  moriva per un banale ascesso, oggi curabile con una comune terapia antibiotica. La moderna farmacologia, oggi supportata dalla tecnologia più avanzata, vanta un arsenale sempre più ampio di nuove molecole per la cura della maggioranza di patologie, sfornando ogni anno nuovi farmaci di sintesi, clinicamente testati e sempre più evoluti. Ma allora come mai c’è ancora un gran numero di persone sofferenti a questo mondo? Il rovescio della medaglia di questo sviluppo delle società farmaceutiche è che siamo diventati una società sempre più ipermedicalizzata e, come ha scritto il farmacologo Silvio Garattini, “tra i farmaci si nascondono tanti falsi amici che non portano alcun beneficio ma sono solo rischi. Ma tanti pericoli per la salute si nascondono anche dietro all’uso inappropriato di medicinali”, infatti un’eccessiva protezione terapeutica può determinare dipendenza, vulnerabilità, carenze immunitarie e quindi, presto o tardi, indirettamente, anche uno stato di malattia. Troppa protezione sanitaria statale diminuisce forse l’ansia ma può anche ridurre l’essenziale diritto del paziente all’autonomia, ad autogestire cioè la propria salute.

Nonostante gli oggettivi progressi nella ricerca, vi sono patologie contro cui la scienza è ancora impotente e altre per le quali rischia ben presto di diventarlo: basti pensare al fenomeno delle resistenze antibiotiche, divenute una vera e propria emergenza sanitaria in tutto il mondo. Morire a seguito di un piccolo intervento chirurgico o per una banale ferita che si infetta non è più un’eventualità remota perfino nei Paesi occidentali. La resistenza agli antimicrobici, cioè la capacità dei microrganismi di alcune specie di sopravvivere e moltiplicarsi in presenza di concentrazioni di antibiotici di regola sufficienti a inibirli o ucciderli, è in costante aumento in tutta Europa. Questo problema, di cui si parla sempre più spesso ma forse mai abbastanza, ha assunto negli ultimi anni grande rilevanza: l’Ecdc (il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) ritiene che la resistenza agli antibiotici rappresenti “la più grande minaccia nell’ambito delle malattie infettive”. Perché, se gli antibiotici non funzionano, molte malattie finora facilmente curabili si trasformano in patologie mortali. E, come ha dichiarato a marzo 2012 Margaret Chan, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (che nel 2011 aveva dedicato la Giornata mondiale della salute proprio a questo problema), “un’era post-antibiotici significa di fatto la fine della medicina moderna così come la conosciamo”.

 

Gilberto Ruffini, medico ematologo e dentista

Gli esperti di tutto il mondo, da anni ormai lanciano un allarme che oggi si sta presentando in tutta la sua gravità. I germi responsabili di infezioni anche assai gravi e pericolose per la vita, quali pseudomonas, klebsiella, acinobacter baumanii e altri gram-negativi, enterococchi, stafilococchi e pneumococchi, hanno ormai raggiunto in diversi ambienti un tale grado di resistenza multipla da diventare intrattabili anche con i più recenti antimicrobici, mentre problemi di primo piano sono posti dagli enterococchi resistenti alla vancomicina (Vre), dagli stafilococchi meticillino-resistenti (Mrsa), dai bacilli gram-negativi che elaborano ß-lattamasi ad ampio spettro, da pneumococchi penicillino ed eritromicino resistenti, per non citare le serie preoccupazioni connesse alla multiresistenza del mycobacterium tuberculosis, responsabile della tubercolosi.

Metodo Ruffini: uno strumento efficace di ampia gamma di patologie dermatologiche

Il Metodo Ruffini si è dimostrato sempre di più uno strumento efficace in un’ampia gamma di patologie dermatologiche, di pratico utilizzo, privo di effetti collaterali e a basso costo, derivandone quindi diversi vantaggi sociali. Innanzitutto, può rivelarsi una freccia in più nella faretra terapeutica del medico, importante sia da solo che come coadiuvante di una qualsiasi altra cura. È dovere e compito di ogni medico adoperarsi e attivarsi per utilizzare il sistema di cura più efficace con i propri pazienti e tengo a precisare che il Metodo Ruffini non può essere giudicato senza prima essere provato, perché i risultati che si possono ottenere sono eccezionali quanto eccezionale è la sua semplicità di utilizzo. In ambito ospedaliero e ambulatoriale si potrebbero ottenere enormi soddisfazioni sul piano professionale e offrire un servizio di qualità terapeutica davvero unico.

Un altro vantaggio del Metodo Ruffini consiste nella riduzione del rischio di dover troppo frequentemente far ricorso ad antibiotici di sintesi, per esempio limitandone l’uso ai casi più gravi o a infezioni interne, al fine di arginare il fenomeno delle resistenze di cui si è ampiamente trattato. Ultimo, ma non da meno, il vantaggio economico.

Facciamo i conti dell’oste:

Produrre 1 litro di ipoclorito (su grandi quantità, per uso comunitario) costa 70 centesimi di euro. Un litro equivale a 1.000 millilitri e una singola applicazione mediamente è di 5 ml/10ml, quindi, se la matematica non è un’opinione:

1.000 ml diviso  5 ml  = 200 applicazioni

e

1.000 ml diviso 10 ml = 100 applicazioni

 

ovvero

dalle 100 alle 200 applicazioni al costo di produzione di 70 centesimi di euro.

Considerando, inoltre, che in molti casi una sola applicazione è risolutiva, si può arrivare a curare fino a 200 patologie (e relativi pazienti) con soli 70 centesimi.

Ogni ospedale, clinica, farmacia, comunità, società di ambulanze, pronto soccorso, organizzazione umanitaria ecc. può risparmiare maggiormente sui costi acquistando lo strumento per l’autoproduzione di ipoclorito, che ha un costo di circa 5.000 euro, facilmente ammortizzabile. Con la macchina per l’elettrolisi è possibile produrre ipoclorito al momento dell’uso nella giusta percentuale e quantità, senza sprechi. Nel medio tempo, infatti, l’ipoclorito decade dal proprio titolo in quanto, essendo una molecola fortemente volatile e instabile, evapora lasciando al suo interno solo acqua e sale, con insignificanti tracce di cloro.

Tuttavia, il costo modesto ha reso questo rimedio poco appetibile per le case farmaceutiche, non potendone fare un farmaco vendibile (i noti problemi di durata ne impediscono lo stoccaggio nei magazzini e nelle farmacie, come previsto dalla legge), quindi fuori commercio come farmaco. Questo è il motivo principale per cui il Metodo Ruffini non è di dominio pubblico e  poco conosciuto al di fuori dei canali alternativi (Facebook, Youtube, Twitter, blog e forum vari), grazie ai quali, tuttavia, migliaia di persone si sono avvicinate ad esso, il tutto nel più assordante silenzio del mondo scientifico.

Tutto ciò è davvero inconcepibile, visto che il denaro risparmiato dal sistema sanitario nazionale sarebbe notevole (considerata la vasta quantità di patologie trattabili e la riduzione delle degenze dovute alle infezioni ospedaliere) e potrebbe essere dirottato verso la ricerca medico-scientifica o in un fondo da destinare, per esempio, ai servizi socio-sanitari e socio-assistenziali.

 

Per maggiori info, visitare il sito http://www.metodoruffini.it/index.php

per leggere l’intero articolo di Patrizia Marini: Articolo-Patrizia-Marini-finale

 

 

 

 

 

 

Exit mobile version