‘La notte del B(r)uco’: il thriller esistenziale della coppia Menzella-Cirigliano

La notte del B(r)uco, edito da Eretica Edizioni è un avvincente thriller “esistenziale”, o lo si potrebbe definire anche “mentale” della coppia formata da Carmen Cirigliano e Carmine Menzella (classe 1984 e 1978), autori di questo secondo romanzo che vivono a Ferrandina, compagni nella vita come nell’arte. Laureati rispettivamente in Lettere e in Filosofia collaborano a svariati progetti che ruotano intorno alla scrittura nera, dalle sceneggiature alla regia per teatro e cortometraggi. Fondatori dell’associazione culturale Laboratorio Inchiostro Nero, volta alla promozione della cultura di genere horror, fantastica e thriller-noir attraverso vari linguaggi che spaziano dal teatro sperimentale e di figura, al cinema alla narrativa.

Il loro libro di esordio è “Ombre”, una raccolta di racconti neri, edito L’Erudita/Gruppo Giulio Perrone Editore, uscito a marzo 2017, mentre alcuni racconti brevi sono comparsi su riviste e raccolte di genere come Letteratura Horror.

In una notte senza fine, scossa dal vento ed avvolta dai vapori acidi delle strade, un gruppo di amici si mette alla ricerca di qualcuno. Intrappolati nel cemento di una città consumata dal vizio e dalla droga, che sfuma tra le note cupe di un arpeggio e i lamenti della notte, scendono nell’abisso, come Orfeo alla ricerca di Euridice. La città di notte, con le sue stradine che si intersecano nel buio, è la stessa della loro interiorità, smarrita nel groviglio delle possibilità incerte. L’assassinio misterioso di un amico, a cui ne seguono altri, il ritrovamento di lettere che annunciano l’arrivo della morte, li spingono a cercare una meta, a fuggire dalla morte, ma allo stesso tempo a trovarla e guardarla negli occhi, nei due buchi neri sulla maschera del malinconico Pierrot, o dietro le lenti scure dell’uomo che si fa chiamare il Bruco. Trafitti da un’apatia bianca che ha il sapore di una noia amara, di un eterno e irrisolto conflitto con la vita, cercano se stessi nel vuoto, progettando un futuro che gli sfugge.

Il buio metropolitano sembra riflettere il buio che pervade l’animo dei protagonisti del romanzo, privi di certezze. Ma non si può scoprire la verità senza guardare in faccia alla morte, scavalcarla per sperare in un futuro. Lo stile adottato dai due autori è scorrevole e cinematografico, il quale mostra in maniera raffinata e angosciante come sia la natura a seguire lo stato d’anima dei protagonisti, a supporto della tesi schopenhaueriano il mondo come mia rappresentazione, rendendo La notte del B(r)uco un viaggio nei meandri della mente umana e nelle atmosfere tipiche dei migliori film noir.

Non so se le mie ore sono vuote, oppure così piene da scoppiare. Non capisco se il mio tempo va via così veloce da lasciarmi solo attimi che non riesco a vivere e sentire, oppure è sempre fermo, come me. Oggi tutto è legge-ro, non riesco a stringere niente, come fermare il getto d’acqua con una ma-no, non sento quasi le mie mani, anche adesso mentre scrivo, sono lontano, la mia mente è da un’altra parte. Ho ascoltato un po’ di musica alle cuf-fiette senza parlare. Ho sperato che Deb facesse passare alla radio Man in the Box, ma niente… attendo ancora, tanto fuori c’è vento.

‘I segreti di Wind River’ di Taylor Sheridan : un mondo senza concessioni, spogliato di ogni eroismo

A pochi giorni dall’uscita di Hostiles (un bel film zavorrato da lentezze e pretensioni iper-autoriali), Hollywood raddoppia con I segreti di Wind River, western contemporaneo di ben maggiori sostanza e ritmo. Per la precisione si tratterebbe di un thriller, ma la mitologia del Far West acquista un ruolo decisivo nell’impianto costruito su misura dei gusti e le propensioni del regista texano Sheridan, già sceneggiatore di grandiosi duelli all’ultimo sangue ambientati nei moderni territori di frontiera (Sicario e Hell or High Water). Il taglio netto e concentrato dei vecchi e nuovi maestri del genere ci trasporta, infatti, nella riserva pellerossa del Wyoming flagellata dalla neve per molti mesi all’anno dove si staglia la figura eastwoodiana del protagonista Cory (Renner, grande attore non abbastanza promozionato) di professione cacciatore dei lupi e i leoni di montagna micidiali per il bestiame. Gravato da un atroce trauma familiare, il neocowboy è rispettato e benvoluto dagli allevatori e dagli Arapaho e Shoshone superstiti che se la passano assai male per colpa di disoccupazione, droga e alcolismo: così, quando una ragazza di Wind River viene trovata senza vita, Cory viene ingaggiato dalla polizia locale per scoprire la verità e dare la caccia all’assassino, mentre l’Fbi decide d’affiancargli l’affascinante quanto spaesata collega Jane (Olsen). Si capisce subito, in effetti, quanto il climax investigativo e il piglio antropologico con acclusa denuncia progressista sulle condizioni dei nativi risultino tradizionali e prevedibili; però la brutalità darwiniana messa in scena senza sosta tra i candidi bagliori di una landa pour cause “animalesca” ha tutta la forza necessaria per avvincere gli spettatori e riconsegnargli il fascino perduto di quello che continuiamo a definire il cinema americano per eccellenza.

Con Sicario e Hell or High Water, di cui Taylor Sheridan ha firmato le sceneggiature ma lasciato la regia a terzi (Denis Villeneuve e David Mackenzie), I segreti di Wind River forma una trilogia ideale agita nei territori di frontiera. Tre poliziotti, tre indagini e una conoscenza acuta della geografia americana. Dopo il confine col Messico e le lande desolate del Texas, Sheridan trasloca in Wyoming e realizza un film solenne ispirato ai problemi endemici che avvelenano le riserve indiane. Su tutti l’abuso sessuale e la scomparsa di troppe donne amerinde in un territorio che la polizia locale, esigua e sprovveduta, non riesce a controllare. Neve e silenzio al debutto stabiliscono tono e décor del film, inserito in un universo implacabile dove la rabbia di vivere convive con la rassegnazione.

Un mondo senza concessioni, dove l’uomo è lupo per l’uomo, una riserva di indiani e di bianchi, vestigia di una conquista spogliata di ogni eroismo. Avversari ieri e compagni oggi per non sentirsi abbandonati. Fedele agli script precedenti, Taylor Sheridan cortocircuita thriller classico e western contemporaneo, prediligendo una drammaturgia laconica che si prende il suo tempo, che raziona le informazioni e lascia che lo spettatore faccia il suo lavoro. Film di grande spessore, sia nella scrittura che nei personaggi che nell’ottima colonna sonora (di Nick Cave e Warren Ellis), che descrive un’umanità sofferente che sogna un mondo migliore, ma che scopre di essere sempre (come recita la poesia con cui inizia il film) “far from your loving eyes in a place where winter never comes”. 

 

Fonti: Mymovies.it

 

I segreti di Wind River

The exception-L’amore oltre la guerra: un inno alla lotta contro il male

The exception- L’amore oltre la guerra è un film del 2016 di David Leveaux, un regista teatrale inglese al suo debutto nel mondo del cinema. Il cast della pellicola vanta Lily James nel ruolo di Mieke (già conosciuta per la versione di Cenerentola del 2015 e per il suo ruolo nella serie tv Downton Abbey), Jay Courtney nei panni del soldato Brandt (famoso per la saga di Divergent), Christopher Plummer (il capitano Von Trapp di Tutti insieme appassionatamente) e Janet McTeer (Insurgent, Io prima di te).

La trama comincia all’inizio della seconda guerra mondiale in Olanda. Il Kaiser Guglielmo II vive esiliato insieme alla moglie, Erminia di Reuss-Greisz, e va avanti grazie alla rendita concessagli dal Fuhrer. Il suo rapporto con il Terzo Reich è contraddittorio, deve appoggiarlo in pubblico, incentivato soprattutto dalla moglie, ma appena può esprime il suo sconcerto per ciò che la Germania è diventata sotto il potere di Hitler. Incaricato della sua protezione, ma ufficiosamente alla ricerca di spie inglesi infiltrate nel palazzo del Kaiser, è il soldato Stefan Brandt. L’uomo è reduce da una brutta ferita di guerra e da uno scontro in Polonia con un suo superiore che gli ha valso questo esilio forzato in Olanda, visto che Brandt non comprende le azioni delle SS, che non coincidono con l’etica militare che ha sempre seguito.

Mieke De Jong, una giovane ebrea olandese, cova in sé un odio profondo verso l’esercito nazista, che ha ucciso suo padre e suo marito, e accetta così un impiego da domestica a casa del Kaiser Guglielmo solo per poter avere contatti con i vertici e inviare informazioni in Inghilterra. La sua attività di spia non passa del tutto inosservata e dei sospetti cominciano ad arrivare al comando tedesco. Stefan Brandt nel frattempo inizia una relazione con Mieke senza sapere chi sia in realtà, ma anche scoperta la sua identità farà di tutto per aiutarla a fuggire e a mettersi in salvo. Stefan non è l’unico a subire il fascino della giovane ebrea, il Kaiser la prende così sotto la sua ala protettiva e aiuterà il soldato a nascondere Mieke e a farla passare indenne al posto di blocco tedesco.

The exception: un prodotto ibrido tra il dramma e il thriller

Il film The exception – L’amore oltre la guerra è tratto dal romanzo del 2003 The Kaiser’s Last Kiss, di Alan Judd, e si configura come un prodotto ibrido tra il dramma e il genere thriller. Getta uno sguardo sul passaggio di potere dalla monarchia al nazionalsocialismo, un addio ai governi del passato, alla vecchia aristocrazia e alla ricchezza per nascita, passaggio qui rappresentato da un’umiliante adulazione da parte dell’imperatrice Erminia nei confronti di Heinrich Himmler, considerato il braccio destro del Fuhrer. Il focus dell’azione è il rapporto tra il soldato tedesco Brandt e la giovane ebrea, emblema del potere dei sentimenti oltre la nazionalità, le convenzioni e gli ordini superiori. Alcune scene di nudo integrale possono risultare gratuite e inutili ai fini della storia, una crudezza eccessiva che nella trama è già rappresentata dall’alone di male che circonda i vertici nazisti. Il finale lascia uno spiraglio aperto, ma ha una sua spiegazione nell’incertezza della vita in tempo di guerra, una sequenza schizofrenica di variabili avrebbero reso poco credibile un epilogo diverso.

The exception-L’amore oltre la guerra rientra a pieno titolo nella serie di drammi di guerra ad alto tasso d’azione come The imitation game (2014) e Allied (2016).

‘Visti dalla meta siamo tutti ultimi’, il thriller di Francesca Picone

Visti dalla meta siamo tutti ultimi (Lettere Animate Editore, 2017) è un romanzo di Francesca Picone, educatrice di strada presso numerose cooperative sociali del napoletano e laureata in Scienze Religiose. L’autrice napoletana ha già scritto un altro romanzo, Pimmicella e la Comunità, edito da Navarra Edizioni, vincitore del concorso “Giri di Parole” nel 2010. Visti dalla meta siamo tutti ultimi è un thriller, anche se per l’analisi psicologica dei personaggi e per l’ambientazione malfamata sarebbe classificabile più precisamente come un noir.

La protagonista è Sally, una giovane donna che vive al Paradisiello, un vicolo di Napoli composto di 150 gradini, una fenditura di un’altra via che si scorge all’improvviso, come se volesse restare nascosta al resto della città. Sally è allergica alle etichette e alle giornate già programmate, preferisce sfuggire ai lavori d’ufficio e alle storie sentimentali durature. Ama invece il suo libero vagabondare per le strade di Napoli, la sua scrittura frammentata e introspettiva e l’erba che fuma per evadere dalla realtà. La narrazione è pregna del suo malessere esistenziale, un vuoto che Sally non riesce a indagare a fondo neppure con la sorella gemella , con la quale non ha più da anni lo stesso rapporto simbiotico di un tempo. Così la protagonista spiega il suo disagio:

La solitudine non è nel non comunicare, ma nel non poter essere compresi.

L’ angoscia esistenziale di Sally è evidenziata anche dalla scelta delle persone delle quali si circonda: i pazzi psicotici del Giano (Salvatore, Mimmo, Enzo, Stefano e gli altri), persi nel loro percorso di vita anche più di lei; Alessandra, psicologa milanese che prova a capirla ma che poi si allontana da lei bruscamente; Angelo Biondo, ragazzo all’apparenza affine a lei, ma che si rivelerà violento, e infine Loki e la sua compagnia, rifugiati che la trascineranno nel mirino della Digos.

Visti dalla meta siamo tutti ultimi: filone narrativo e tematiche

Il romanzo di Francesca Picone è diviso in tre capitoli: la cura, la relazione d’aiuto e la sicurezza dei cittadini. Ognuno di questi blocchi tratta personaggi e temi diversi e ha come collante la protagonista Sally, che viene sballottata da una situazione all’altra senza riuscire a opporsi.

Sally si mostra all’apparenza come una ragazza ribelle, contraria al sistema e in cerca del suo posto nel mondo, ma in realtà ha una fragilità che le impedisce di affrontare con durezza qualsivoglia situazione (ad esempio non prova in alcun modo a recuperare il rapporto con l’amica Alessandra, né prende provvedimenti in seguito alla violenza di Angelo Biondo, né indaga a fondo sui traffici di Loki e della sua compagnia, nei quali in qualche modo rimane invischiata anche lei). Sembra che non volendo essere “come tutti gli altri”, alla fine Sally non riesca a essere proprio nessuno, neppure se stessa.

Le tematiche di Visti dalla meta siamo tutti ultimi sono molteplici, forse troppe, dato che alcune vengono solo presentate e non approfondite: la differenza sottile tra follia e sanità, la questione dei rifugiati politici, la Camorra, la situazione palestinese, le religioni cosiddette “alternative”, la legalizzazione di alcune sostanze, e via dicendo. Purtroppo l’effetto è quello di un volo pindarico da un argomento all’altro, da un flashback all’altro, da un’immagine all’altra, provocando nel lettore un senso di straniamento, un desiderio di sapere di più. Questo lo porta a perdere il filo della narrazione, spesso frammentaria, quasi come se Sally vivesse e presentasse la sua storia sempre sotto l’effetto dell’erba che ama fumare, a lei piacerà pure quel senso di ottundimento, ma il lettore si ritrova confuso e attonito. Meno “carne sul fuoco” e maggiore attenzione alle vere motivazioni del disagio esistenziale di Sally avrebbero reso più chiara e fluida la narrazione, magari puntando più attenzione sul rapporto fra le due gemelle, che sembra si sfiorino senza mai toccarsi davvero. Lo stile di scrittura di Francesca Picone è lirico e profondo, sia nelle parti descrittive sia nei dialoghi, dove spesso una semplice conversazione diventa dibattito filosofico.

Surclassando anche Sally, la vera protagonista del romanzo si dimostra Napoli (grazie anche a un uso sapiente del dialetto), un organismo presentato quasi come “malato”, ma dal quale è impossibile fuggire, la tela di un ragno che attira con fascino e lusinghe per poi cibarsi di te. Così Sally ne parla nel primo capitolo, spiegando il suo rapporto con Alessandra, una citazione nella quale è racchiuso il sentimento di odio-amore nei confronti della città partenopea:

E cosa abbiamo in comune? Abbiamo in comune l’ostinazione a vivere nell’invadenza napoletana e il disprezzo dell’anonimato milanese, pare, ma se io mi ostino è solo per pigrizia, se critico Milano è solo perché non si è mai offerta alla mia conoscenza. Ogni dettaglio napoletano di cui lei si è innamorata è la zecca che per abitudine o per amore non riesco a scacciare.

Alessandro Petrelli, autore di “Oltre la finestra”

Alessandro Petrelli, 25enne di Lecce è appassionato di libri e film horror, passione che lo ha portato a scrivere un romanzo proprio di questo genere: Oltre la finestra, edito da Lettere Animate, ambientato in un paesino sulla costa Salentina e che ha come protagonista Davide, un ragazzo rimasto orfano, che comincia a ricevere delle minacce da uno sconosciuto il quale gli lascia però dei piccoli indizi. Gli scrittori preferiti da Alessandro Petrelli, che si nutre di soli horror e thriller, sono King, Dan Brown e Dorn.

 

Alessandro Petrelli è l’autore del libro Oltre la finestra

 1. Oltre la finestra è un romanzo che parla di morte e che sfiora il genere horror-thriller…sei d’accordo con questa definizione?

Per quanto sia schietta sì, sono d’accordo. Per essere più precisi, è un thriller che in alcuni tratti sfiora l’horror.

2. A un certo punto, nella storia, si instaura una scena, quella della riunione attorno al tavolo di Laura, Davide e i due amici, che più o meno fa pensare alla riunione di Jumanji (1995) in cui Robin Williams, apparso dopo 30 anni di assenza, intrappolato in un lungo futuro della giungla, torna e convince i ragazzi a proseguire il loro percorso e terminare il gioco. Il tuo libro risente di questa suggestione o presenta altre influenze cinematografiche nascoste? Cosa torna dal passato, o meglio, dalla finestra?

Non ne risente. Non ci sono collegamenti al film Jumanji. Se qualcosa torna dal passato? Certo, riemerge una storia terrificante e mai risolta. Una vicenda che implica dei tragici avvenimenti manifestatisi a distanza di anni l’un l’altro. Il vecchio irrompe dalla finestra, è esatto.

3. Le location sono ben precise: San Foca, Manfredonia, Lecce… Come è nata l’idea di un’ambientazione pugliese?

Sono nato e cresciuto nel Salento quindi non potevo che rendere omaggio con il mio libro a questa splendida terra, approfittandone per descrivere, tra un capitolo e l’altro, alcuni di questi paesaggi meravigliosi.

4. E il maresciallo distratto? Potremmo definirlo un personaggio “tipizzato”,che troviamo spesso in fiction e serie tv come il Cecchini di Don Matteo.

Il maresciallo più che distratto, è incredulo. Nessuno si aspetta che storie del genere, avvolte da mistero e antiche credenze, si manifestino. Soprattutto un maresciallo dei Carabinieri con un’esperienza degna di nota alle spalle. Tuttavia, in un secondo momento, verrà distratto ulteriormente da un avvenimento personale che lo farà allontanare del tutto dalla storia del protagonista.

5.Non riuscivo più a percepire e individuare le emozioni che mi assalivano. Per questo non sono sicuro che fosse proprio felicità”. A questo punto il protagonista è felice o no? Si tratta di una scelta mirata di depistare chi legge?

Il protagonista è un ragazzo semplice, nel quale in parte rivedo me stesso, che si trova però di fronte a un cambiamento drastico della propria vita. Immedesimandomi in alcune scene mi sono reso conto di quanto sarebbe difficile provare felicità di fronte a una bella notizia in un periodo buio caratterizzato da avvenimenti terribili. Per questo, Davide avverte un senso di “felicità” in alcune scene ma, allo stesso tempo, sa di non poterla equiparare alla felicità che provava prima di trovarsi in quella tragica storia.

6. Quali sono le letture che hanno fomentato ed alimentato (e che alimentano tuttora) la tua attività di scrittore?

Leggo solo ed esclusivamente thriller ed horror. Mi piacciono però, come si può notare, le storie misteriose che colpiscono ragazzi e che non vedono l’intervento del solito detective pronto a risolvere tutto… deve essere lo stereotipo di ragazzo che conosciamo ad affrontare e risolvere la storia. Solo così riesco ad immedesimarmi come dovere. I miei scrittori preferiti sono King, Dan Brown e Dorn.

7. Pirandello viene citato più volte nel testo. È curiosa questa presenza; a cosa è dovuta?

Si tratta di una coincidenza. Pirandello è autore della novella “Male di luna” e per questo ho deciso di citarlo nel mio romanzo.

8. Se il tuo libro fosse una frase?

<<Davide non sa che dovrà affrontare i fantasmi del passato che si infiltra nella sua vita come una linea sottile, irrompendo dalla finestra>>.

 

 

 

Due fari nella notte, di Cristina Vicino

Due fari nella notte è il romanzo d’esordio, un thriller dai contorni sentimentali e passionali, di Cristina Vicino, 40 anni, sposata, madre di due figli, infermiera professionale che vive ad Alba.

Marta e Nicolas sono i due protagonisti al centro delle vicende del romanzo Due fari nella notte, romanzo pervaso da un profondo desiderio di raccontare la forza della morte, sentimento che ha ispirato la scrittrice piemontese.

Attorno alle loro vite ingarbugliate e complicate ruotano quelle di altre persone, a loro modo protagoniste di un oscuro destino che sembra non risparmiare nessuno. Una grande ruota che gira, di azioni e conseguenze che somiglia a quella di tutti noi, quando lascia,o vincere a volte l’istinto, altre la ragione. A fare da sfondo la città di Nizza con i suoi colori, allo stesso tempo accogliente ed ostile. Ma cosa accade a Marta e Nicolas? In quale occasione s’innamorano e cosa li tiene uniti, nonostante tutto? Cosa farà precipitare il loro amore?

Due fari nella notte: trama e stile del romanzo

Nicolas Andolfi, uomo bellissimo e statuario, s’insinua all’improvviso nella vita caotica di Marta, già fidanzata con Alexander, un imprenditore che, un tempo, aveva saputo come conquistarla. Sin da subito il loro è un amore che sembrerebbe non realizzabile, ostacolato da un legame, anche se debole. L’amore nei confronti del suo Alex, si è ormai deteriorato. Un vincolo che le causerà non pochi problemi. E così anche Nicolas, ”nelle grinfie” di Lisa che ormai non ama più e che lo ricatta con i suoi tentativi di suicidio. Indagati entrambi per la morte di Lisa, assieme ad altri presunti colpevoli, vedranno continuamente minacciata la loro esistenza. Lo stile adottato da Cristina Vicino è molto scorrevole, chiaro, che sicuramente coinvolgerà soprattutto le donne. La narrazione è ricca di colpi di scena, avvenimenti, che raggiunge l’acme durante il drammatico dibattimento processuale finale. Tuttavia il linguaggio, a tratti, risulta essere troppo circoscritto alla soap opera, troppo semplicistico soprattutto per quanto riguarda il racconto della storia d’amore tra Nicolas e Marta:

<<No mamma, amo perdutamente un uomo che conosco a malapena e temo che tutta questa storia delle minacce sia legata proprio a lui. Nik è molto bello e pieno di doti, è la persona giusta che ogni donna vorrebbe al suo fianco. Penso di aver provocato la gelosia di qualche sua spasimante che, misteriosamente, è venuta a conoscenza della mia identità ed ha cominciato a perseguitarmi>>.

C’è poi Francine, altra carismatica figura che ad un certo punto smette di essere amica di Marta. Ci sono Alfred, Amelie e Michelle. Le vite di ognuno dei protagonisti di Due fari nella notte che, man mano compariranno nelle pagine, sono legate tra un loro dal sottile filo delle coincidenze. Conquiste, tradimenti, inganni e le tante verità taciute sono gli ingredienti di questo giallo che riserva non pochi colpi di scena e che mantiene viva l’attenzione del lettore, come se fosse partecipe del più grave delitto.

Il romanzo è aperto da un prologo che stimola ogni curiosità ed è diviso in capitoli come se una lente di ingrandimento focalizzasse le personalità che danno vita al romanzo, senza appesantirlo.

“Back In Black”: la rinascita degli AC/DC

Back In Black-Atco Records-1980

Nel luglio del 1979 gli AC/DC pubblicano Highway To Hell, l’album della raggiunta maturità e della definitiva consacrazione. Sei mesi dopo, nel febbraio del 1980, il cantante e leader carismatico Bon Scott muore sul sedile posteriore di un’auto ucciso dall’abuso di alcool dopo una notte di bagordi. La crisi è inevitabile. Che fare? Sciogliere definitivamente la band all’apice del successo, oppure continuare nonostante tutto? Dopo un periodo di comprensibile lutto i fratelli Angus e Malcom Young decidono di tirare dritto per la loro strada.

“Bè, vaffanculo, non ho intenzione di starmene seduto a frignare per un anno intero cazzo!” (Malcom Young-1980)

Avevano già pronto qualche brano scaturito dalle prolifiche session per Highway To Hell in cui c’era ancora Bon ed, insieme al nuovo vocalist Brian Johnson, si chiudono ai Compass Point Studios di Nassau (Bahamas) per completare il disco che avrebbe dovuto segnare il nuovo corso del gruppo. Nemmeno cinque mesi dopo, nel luglio dell’80, il nuovo lavoro è pronto e viene pubblicato col significativo titolo Back In Black.

Bon Scott (1946-1980)

La copertina, interamente nera, con la scritta grigia lascia trapelare due cose: il commosso omaggio al compagno da poco scomparso e la morte come tematica di fondo dell’opera. D’altronde il sinistro suono di campane a morto che apre la prima facciata ed introduce Hells Bells  non può essere frainteso. Nemmeno la poderosa Shoot To Thrill, la torrida Let Me Put My Love Into You, la furente Back In Black, la trascinante You Shook Me All Night Long e la blueseggiante Rock’N’Roll Ain’t Noise Pollution lasciano troppo spazio a ragionamenti. Il suono è semplice, grezzo, potente, diretto, come se i Led Zeppelin, in una serata di festa, avessero alzato al massimo il volume dei loro amplificatori. La stridula voce di Johnson snocciola luride storie d’amore e distruzione mentre l’indiavolato Angus Young produce iperbolici riff con la sua leggendaria Gibson “Diavoletto”. In poche parole rock allo stato puro. Il pubblico e la critica premiano unanimemente l’album che frantuma ogni record arrivando ad essere il secondo più venduto della storia dopo Thriller di Michael Jackson. Gli AC/DC passano dall’inferno dello scioglimento al paradiso del rock in un solo anno. Un miracolo, musicalmente parlando, anche considerando il fatto che lo scetticismo intorno a loro era grande. L’hard rock era un genere in calo all’inizio degli anni ’80 (John Bonham sarebbe morto di li a poco mettendo fine alla parabola degli Zeppelin), il punk imperversava, il defunto cantante era considerato una colonna portante e c’erano forti dubbi riguardo alla qualità del sostituto scelto.

Ogni incertezza viene fugata all’istante non appena la puntina tocca il vinile. La qualità dei brani è eccellente, il gruppo appare in forma strepitosa ed anche Johnson si integra alla perfezione con i nuovi compagni tanto da non far rimpiangere, nemmeno, per un minuto Bon Scott, facendosi accettare anche dai fan più irriducibili. Probabilmente la rabbia, il dolore, la paura della fine hanno fornito il carburante necessario a comporre questo capolavoro. Ogni canzone del disco è un distillato purissimo di emozioni primordiali in salsa overdrive e nello stesso tempo un urlo salvifico carico di dolore e liberazione. Difficile trovare un album altrettanto sincero, energico e godibile, un vero e proprio capolavoro la cui magia si ripete ogni volta che tornano a rintoccare le campane dell’inferno.

La verità sul caso Harry Quebert, di J. Dicker

 

“Marcus, gli scrittori sono esseri così fragili perché possono subire due tipi di dispiaceri sentimentali, ossia il doppio rispetto alle persone normali: le pene d’amore e quelle artistiche.  Scrivere un libro è come amare qualcuno: può diventare molto doloroso”.

La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani, 2012) di Joël Dicker è il classico romanzo adatto a chiunque desideri trascorrere delle ore di totale assenza dal mondo reale, intrappolato in quel camaleontico microcosmo di figure misteriose, spesso ahimè troppo stereotipate, che ruotano attorno alla piccola cittadina immaginaria di Aurora, nel New Hampshire, e alla vicenda della scomparsa della giovane Nola Kellergan. Verrebbe da pensare che si tratti di un giallo, un thriller che, con un ritmo incalzante e il susseguirsi di una moltitudine di piste investigative diverse, avvinca il lettore fino al tradizionale colpo di scena finale. Tutto questo è vero, ma solo in parte.Questo thriller deduttivo francese è una metanarrazione, una forma ibrida che narra di un libro all’interno di un libro. Il protagonista e voce narrante, Marcus Goldman, viene presentato come il nuovo talento della letteratura americana, un trentenne alle prese con un improvviso successo e un’accecante notorietà, una visione profetica in un certo senso dato il clamore riscosso dallo stesso Dicker a livello mondiale, anche lui trentenne.

La vicenda si snoda su due archi temporali diversi: il 2008, che vede Marcus Goldman all’apice del successo, oppresso dalla responsabilità verso il suo editore e i suoi lettori di scrivere un secondo romanzo che non sfiguri rispetto al primo, e pensa così di chiedere aiuto al suo vecchio professore, nonché mentore e migliore amico, Harry Quebert, scrittore pluripremiato; e l’estate del 1975, che mostra Quebert, prima del successo riscosso dal suo capolavoro Le origini del male, avere una relazione proibita con una quindicenne, Nola Kellergan, mentre lui aveva trentaquattro anni. Nola è la classica Lolita, da notare l’assonanza con il suo nome, che sembra all’apparenza aver fatto perdere la testa a tutti gli uomini di Aurora. Un giorno di fine estate scompare nel nulla, poco prima di scappare per sempre con Harry Quebert, per poi ricomparire  solo trentatré anni dopo sepolta nel suo giardino. Marcus Goldman accorre in aiuto del suo migliore amico, arrestato con l’accusa di omicidio, e si assume l’impegno di scoprire la verità e riabilitare la figura dell’uomo che lo ha formato sia come individuo che come scrittore. È così che,attraverso gli occhi di Marcus, rivediamo la realtà degli anni ‘70 nella classica provincia americana, con i suoi cliché e le sue consuetudini, fra balli di beneficenza e recite scolastiche, madri che cercano in ogni modo di accasare le proprie figlie e mariti che passano tutto il giorno fuori casa e tornano la sera per assistere soltanto alle scenate isteriche delle proprie mogli, casalinghe frustrate e represse/depresse. Quello che trova ad Aurora nell’estate del 2008 non è molto diverso da ciò che c’era più di trent’anni prima: Jenny Dawn, l’ avvenente cameriera di una tavola calda, innamoratissima di Harry Quebert, lavora ancora nella stessa tavola calda (di cui ora è proprietaria) e, nonostante sia sposata, ama ancora Quebert; sua madre, la signora Quinn, rimane, nonostante la vecchiaia, la stessa moglie isterica che sfoga i problemi sulla tempra calma e razionale del marito, figura ironica e accondiscendente al limite della santificazione; Trevis Dawn e il capitano Pratt rappresentano alla perfezione il luogo comune del poliziotto di una piccola cittadina di periferia americana, impegnato a far attraversare le vecchiette sulle strisce pedonali più che a risolvere casi di omicidio, zuccone e bruto, che usa il proprio distintivo come emblema di distinzione dalla massa di quel piccolo spaccato di mondoperbenista e pieno di pregiudizi. Ora come allora, nel 1975.

Marcus Goldman, insieme al sergente Gahalowood, incaricato ufficialmente delle indagini, scaverà nei segreti che ogni personaggio sembra nascondere, ma farà anche un percorso di ricerca nei meandri nella sua memoria,ricerca di tutto ciò che Harry Quebert gli ha insegnato. È così che Dicker scansiona la divisione dei capitoli, in tutto 31, come le 31 lezioni di scrittura (e di vita) che Harry Quebert gli impartisce al tempo del college. Le lezioni, ermetiche e poetiche, hanno un immediato riscontro nella realtà del protagonista, soprattutto la seguente:

“Harry, se dovessi salvare solo una delle tue lezioni, quale sceglieresti?” “Rigiro a te la domanda” “Io salverei l’importanza di saper cadere” .”Mi trovi pienamente d’accordo. La vita è una lunga caduta, Marcus. La cosa più importante è saper cadere”.

Le indagini, coordinate da un Marcus Goldman improvvisatosi detective (ennesimo cliché che non può non far sorridere), vaglieranno varie piste, tutte basate sui retroscena della quotidianità della piccola Nola, che sembra aver avuto nei suoi miseri quindici anni più vita della maggior parte delle persone. Quello che stride, a un certo punto della lettura, è l’impressione che inevitabilmente viene data della protagonista, che da vittima qual è passa all’occhio del lettore come carnefice, o comunque come un personaggio negativo, da condannare più di un Harry Quebert, già maturo, che cade nella trappola di una ragazzina che tutto sembra tranne che candida e innocente (come tutti ad Aurora la descrivono), quanto piuttosto una creatura precoce che conosce già alla perfezione il suo potere seduttivo e la reazione che questo provoca negli uomini.

La breve ma intensa storia d’amore fra Harry e Nola viene descritta come un fuoco abbagliante consumatosi improvvisamente e brutalmente, una storia romantica e stereotipata, ma agli occhi del lettore questa descrizione fa storcere il naso vedendo Nola e seguendo le sue vicende, e salta all’occhio la più grande delle evidenze: ha solo quindici anni. E come tale ama. È infantile e superficiale, tanto che al primo rifiuto di Harry prova a suicidarsi, e il suo attaccamento a lui più che amore sembra un’insana ossessione adolescenziale. Harry, invece, che dovrebbe essere disprezzato moralmente per il suo comportamento contro le regole sociali, appare assolto da tutti i punti di vista perché è davvero, innegabilmente, perso d’amore per la piccola Nola. Marcus, durante le indagini, arriva a dubitare del suo stesso mentore, per poi arrivare a una soluzione dell’omicidio che poco dopo, in un improvviso colpo di scena, risulta essere del tutto errata. È così che Marcus riesce a svelare l’enigma che, nella migliore tradizione gialla, suscita nel lettore un’espressione del tipo: “è vero! Perché non ci ho pensato prima?” E non solo salva Harry dalla pena di morte, ma scriverà anche il suo secondo romanzo di successo, basato proprio sulla vicenda di Nola Kellergan, e capirà inaspettatamente il motivo per cui Harry Quebert ha deciso di allontanarsi da lui, nonostante tutto, un segreto che ha a che fare con il significato del titolo del suo capolavoro Le origini del male, scritto proprio in nome del suo amore per Nola.

Dopo oltre ottocento pagine di lettura de La verità sul caso Harry Quebert si avverte quella strana sensazione di estraniamento che solo i libri ben fatti sanno dare, perché di questo si tratta, di un romanzo completo che ha al suo interno dramma e ironia, suspense e avventura, amore e amicizia, senza dimenticare una profonda riflessione sull’America di ieri e oggi, passando attraverso i suoi Presidenti da Gerald Ford a Barack Obama, così che anche gli inevitabili cliché passano sottobanco e non solo, servono a dare subito al lettore delle certezze, qualcosa di identificativo che crea una cornice narrativa che caratterizza la storia, senza farne una parodia. E sulla sua natura, anche Harry Quebert concorderebbe:

 Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito. 

 La verità sul caso Harry Quebert ha fatto vincere a Joël Dicker il Grand Prixdu Roman de l’Académie française, ed è stato tradotto in oltre 25 Paesi. I diritti cinematografici sono stati acquistati dalla Warner Bros per portare la vicenda di Nola Kellergan sul grande schermo per la regia di

 

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