Totò Riina e il diritto di morire con dignità

Giorni fa la Cassazione ha chiesto che sia valutata attentamente la legittima richiesta di esser scarcerato avanzata dall’86enne boss mafioso Salvatore Riina, in carcere dal 1994 e condannato a vari ergastoli. Riina è malato e vuole morire a casa sua. Inevitabili e giuste le polemiche.

Partiamo da un semplice concetto: uno Stato civile non può fare a meno della giustizia e la giustizia si applica anche con pene detentive che prevedono anche l’ergastolo, ovvero il cosiddetto “fine pena mai”. Uno Stato civile può, per motivi di clemenza giustificati da pentimento, ravvedimento, manifestazioni di perdono ai familiari delle vittime, collaborazioni e buona condotta, ridurre o alleviare la pena inflitta. Uno Stato civile altrimenti applica la sentenza definitiva e, assicurando le cure e l’assistenza dovute oltre che all’assenza di maltrattamenti, tiene detenuto l’ergastolano fino alla sua dipartita da questo mondo come prescritto dal codice di procedura penale. Uno Stato civile e laico non deve dimostrare nient’altro.

Se il criminale stragista Riina avesse mostrato pentimento, per spirito di carità umana, probabilmente tale diritto gli andava concesso. Ma nel suo caso, non merita questo tipo di trattamento. I lunghi anni di solitudine passati in carcere, sono riusciti a cambiare la sua anima. Riina è la dimostrazione che il male è insito nell’uomo. Offrire un fine vita dignitoso a chi non ha mai condotto una vita dignitosa? Ma cosa intendiamo davvero per “morte dignitosa”? Solo se un condannato (e Riina non è un detenuto qualsiasi, altrimenti non lo avrebbero punito con il 41bis), muore a casa propria è rispettato? Immaginiamo se Riina tornasse davvero a casa, la sua dimora diventerebbe un “santuario” con tante processioni con baciamani e genuflessioni. Che segnale si darebbe ai mafiosi che vivono di simboli? Provenzano è morto in ospedale piantonato, ridotto ad un vegetale, perché a Riina dovrebbe essere riservato un trattamento speciale?

Se a casa Riina potrebbe essere ancora pericoloso, avendo modo attraverso pizzini inviati tramite terze persone di dare disposizioni alla cupola. Lo ha già fatto disponendo la morte del magistrato Di Matteo e di don Ciotti. C’è una guerra in corso che lo Stato non sta vincendo, la mafia non è ancora stata sconfitta. Ai domiciliari il capo dei capi sarebbe l’ennesimo segnale di debolezza. Riina va curato in carcere o in ospedale. Cosa c’è di non dignitoso in questo? Proprio perché lo Stato tutela i diritti di un popolo attraverso le sue leggi, garantisce un processo equo a chi è sospettato di un reato e la certezza della pena alle vittime. Il resto è beneficienza o la grazia esplicitamente chiesta e concessa straordinariamente dal presidente della Repubblica. In Italia non esiste la pena di morte, ma Riina ha decretato la morte ai difensori della Legge dello Stato e di tante altre persone, perbene e non.

La civiltà non si dimostra scarcerando Riina, ammesso che stia davvero male, ma facendolo morire dignitosamente in carcere, curato in maniera appropriata e negli ultimi momenti di vita con i propri familiari accanto. L’impressione è quella che siamo di fronte ad un’incivile discriminazione basata sul reddito: se posso permettermi un team di avvocati che segua la pratica per la scarcerazione vengo scarcerato; altrimenti muoio in carcere.

Parte dell’opinione pubblica che invoca civiltà e umanità a proposito del caso Riina dovrebbe fare affidamento alle parole del Procuratore Antimafia Roberti che si è espresso contro la Cassazione: “Riina è ancora il capo di “Cosa Nostra”, abbiamo le prove per dirlo. Il suo stato di salute può essere adeguatamente trattato in carcere o con ricoveri mirati. Provenzano era in condizioni addirittura peggiori”.

 

 

 

 

Exit mobile version