Considerazioni di un umarell sulla vita e la morte

Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell’ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l’Ecclesiaste.

Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere.

Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell’io.

Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l’amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posterità.

Dall’altra parte come scrisse Totò nella sua celebre ‘A livella “Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!”. Dall’altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L’amore sembra vincere la morte, ma anch’esso è destinato a finire.

Scrive in una sua poesia Sanguineti:Ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati”.

Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, e altre illustri personalità. Leggevo dalla Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni ’70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai.

Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista “Prato Pagano” negli anni ’80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l’oblio è tiranno.

L’oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C’è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni “io l’ho conosciuto”, “a me una volta confessò”, “quando collaborammo assieme”, scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt’altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa.

Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell’oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani?

Quando l’italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora  in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l’editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime  pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero.

Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una “legittimazione culturale”, ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea.

Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Naturalmente quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C’è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone “La stazione di Zima” (ricordando il poeta russo  Evtusenko) scrive che “ci facciamo del male perché non ci capiamo niente”. Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell’amore, della morte.

Come scrive in un suo aforisma Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”. La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli “stati molteplici dell’essere”.

Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza. La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l’opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita.

Sorgono spontanee dal basso  delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c’è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi soprattutto riguardo l’amore.

L’amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio….Così sarà per quel poco che ci rimane….forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le  nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande.

Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:

Recitiamo un copione o un canovaccio?

Si recita a soggetto? Si naviga a vista?

Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali

di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato

e neanche quali mani supreme ci muovono

e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee

che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,

talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?

Dal punto di una linea non si può comprendere tutto

questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:

ecco perché forse non si può capire

mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.

Forse non c’è alcuna logica nei nostri istanti.

Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.

In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.

Anche se fossimo linee

(regolari, frastagliate o curve chissà?).

il disegno non è lineare e ci trascende.

 

Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato.

Il teatro in Italia dal fascismo al dopoguerra (Parte 2)

Il teatro, già oggetto di fermenti innovatori nei primi decenni Novecento, si ritrova con l’avvento del fascismo ad essere investito di nuove importanti trasformazioni. L’intervento del regime riguarda principalmente gli aspetti organizzativi della produzione di spettacoli.

Nel 1929 vengono inaugurati i Carri di Tespi, teatri mobili, incaricati di portare nelle città di provincia degli spettacoli popolari allestiti in collaborazione con i Dopolavoro fascisti. La scelta di far esibire questa compagnia girovaga non è di certo casuale: il regime, infatti, intende regolamentare la vita teatrale in ogni suo aspetto, scoraggiando in ogni modo qualsivoglia iniziativa estranea alla loro politica totalitaria.

L’anno successivo vengono istituite le Corporazioni dello Spettacolo, con l’intento di regolare i vari settori della produzione teatrale. All’utopia pirandelliana di un teatro di Stato, che garantisse democraticamente ai teatranti, i finanziamenti necessari per l’allestimento delle proprie opere, il regime preferisce adottare la politica dei premi e delle sovvenzioni.

Le compagnie teatrali

A tutte le produzioni che riscuotevano maggiore successo venivano elargiti incentivi economi. Il sistema delle sovvenzioni condiziona profondamente la vita teatrale, svilendo sia la figura dell’attore che della forma d’arte in sé.

Le compagnie, infatti, per incentivare gli incassi, iniziano a puntare su repertori diversi e più accessibile ridurre i periodi di prove e moltiplicare le repliche.

Il frenetico inseguimento del successo e la necessità di cambiare di continuo il repertorio spingono gli impresari ad ingaggiare gli attori per una sola stagione.

La compagnia cessa di essere la palestra privilegiata per l’allenamento e l’apprendimento dell’attore. L’attore si ritrova isolato, deve semplicemente funzionare bene all’interno dell’ingranaggio di una compagnia.

Le personalità di spicco in teatro: da Ugo Betti a Luigi Squarzina fino a Luchino Visconti

Il teatro, nel periodo fascismo, tranne Luigi Pirandello non conta grandi figure di autori teatrali. Sul piano della produzione drammaturgica l’unico autore di rilievo è Ugo Betti( 1892-1953), un magistrato cattolico che approfondisce nei suoi scritti il motivo della colpa e della responsabilità attraverso lo schema dell’inchiesta giuridica.

Betti eleva il dramma borghese alla tragedia, ponendo i suoi personaggi in condizioni estreme. Sono degli anni Trenta le suo opere migliori: Frana allo scalo Nord (1932), I nostri sogni (1936) e Notte in casa del ricco (1938).

Negli anni della guerra scrisse Ispezione e Corruzione al Palazzo di Giustizia, uno dei suoi lavori più tipici, incentrato su un’indagine di corruzione di alcuni magistrati; nel dopo guerra Acque turbate (1948) e la Fuggitiva (1952-53)

Gli stessi temi del processo morale, della colpa e delle responsabilità, tornano nell’immediato dopoguerra nelle opere di un altro autore cattolico, Diego Fabbri (1911-1980): Inquisizione (1946) e Processo a Gesù (1955)

Nell’immediato dopo guerra inizia a farsi forte il fervore del Neorealismo postbellico. A renderne meglio il clima è un autore, anche notevolissimo regista, Luigi Squarzina.

Nella sua prima opera, L’esposizione universale (1948), si rifà al modulo della cronaca tipico del nascente clima culturale e letterario. Anche Tre quarti di luna (1952), La sua parte di storia (1955) e la Romagnola rientrano nel clima morale e politico dell’antifascismo e della lotta di Resistenza.

Iniziano a diffondersi in quegli anni, sul modello del Piccolo Teatro di Milano, i Teatri stabili, sovvenzionati dallo Stato. Nel contempo si istituzionalizza la figura del regista, nata a cavallo tra le due guerre. Si afferma un tipo di spettacolo che prevede la presenta di un nuovo “autore” della scena, che controlla e dirige gli attori nella realizzazione di un prodotto replicabile.

In questo panorama operano nomi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti che contribuiscono in maniera decisiva a fare del regista il creatore unico dello spettacolo teatrale.

 

Il teatro e la tradizione dialettale napoletana: Da Eduardo Scarpetta ai fratelli De Filippo

Nel teatro napoletano, accanto all’estro del macchiettista Raffaele Viviani, spunta un’altra figura di spicco, che documenta e incarna il passaggio dal teatro di varietà al dramma in dialetto è Eduardo Scarpetta anch’egli attore-autore di commedie in dialetto napoletano.

Scarpetta muore nel 1925 lasciando in eredità ai figli naturali (avuti con Luisa De Filippo) una scuola di teatro, in cui si formarono i suoi tre figli i  Peppino, Titina e Eduardo De Filippo. Della stessa scuola napoletana è il famoso attore comico Antonio De Curtis, in arte Totò.

I tre fratelli De Filippo istituiscono nel 1929 la Compagnia del teatro umoristico che si prolunga sino al 1944, quando Peppino se ne dissocia. Sino a quel momento i testi sono scritti dai due fratelli, Eduardo e Peppino.

Mentre Peppino si rivela soprattutto grande attore comico, il primo unisce alle abilità attoriali anche quelle di un notevole scrittore. Capacità che emergono, in particolare, dopo il 1944, quando Eduardo insieme alla sorella Titina danno vita al Teatro di Eduardo fino al 1953. L’anno successivo lo stesso Eduardo inizia a dirigere la Compagnia Scarpettiana

Sino al 1944 Eduardo è autore di commedie farsesche, dove riprende la figura di Pulcinella, personaggio maltrattato e deriso che però alla fine riesce a prendersi gioco degli altri con la sua amara saggezza.

In questo primo periodo- le cui opere sono riunite in Cantata dei giorni pari– la più riuscita è Natale in casa Cupiello (1931) costruita sul contrasto tra l’illusione della festa e l’amara consapevolezza della dolora realtà della vita.

Dopo il 1944 Eduardo si concentra, invece, su produzioni più realistiche, complesse e ricche di sfumature tipiche del genio pirandelliano. Questa nuova stagione- raccolta in Cantata dei giorni dispari– comincia con Napoli Milionara (1945), una commedia ambientata a Napoli negli anni della guerra, in cui si avverte un forte ecco dei Malavoglia di Verga. Altre grandi opere di Eduardo sono Filomena Marturano(1946) scritta per la sorella Titina, attrice nella stessa commedia; Questi Fantasmi (1946) e Le voci di dentro (1948)

 

Clicca https://www.900letterario.it/focus-letteratura/il-teatro-in-italia-nella-prima-e-nella-seconda-meta-del-900/ per leggere la prima parte dell’articolo

 

 

Croccolo addio, Napoli ti saluta!

Si è spento oggi all’eta di 92 anni Carlo Croccolo, artista napoletano con un curriculum di tutto rispetto nel grande schermo. Attore, doppiatore, regista e sceneggiatore, conosciuto ai più per il suo ruolo nella popolare serie televisiva “Capri” in cui vestiva i panni dell’amabile marinaio Totonno. Non meno per le sue notissime apparizioni accanto ai grandi del cinema napoletano; in primis Totò e i fratelli De Filippo.

Biografia

Carlo Croccolo nasce a Napoli il 9 aprile del 1927. Esordisce in radio, all’età di circa 23 anni, con la commedia “Don Ciccillo si gode il sole”. Successivamente calca il palcoscenico teatrale ne “L’Anfiparnaso” diretto dal regista torinese Mario Soldati. Nel 1950 l’attore napoletano recita nel film comico del tolentino Mario Mattoli, “I cadetti di Guascogna”, nelle vesti di Pinozzo. Ma è nell’89 che arriva la prima gratificazione: il David di Donatello per il film “O Re” diretto da Luigi Magni.

Alla fama, quella vera, Croccolo giunge accanto agli illustri comici napoletani Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, in film come “Totò lascia o raddoppia?”,”47 morto che parla”, “Signori si nasce” (diretto nuovamente da Mattoli), “Miseria e nobiltà”, e ancora “Ragazze da marito” e “Non è vero..ma ci credo” (tratto dall’omonima commedia in tre atti scritta proprio da Peppino).

Croccolo e il doppiaggio

Il poliedrico artista napoletano vanta una carriera eccelsa composta da numerose perfomance teatrali e che sfiora la vetta di oltre 100 film. Risulta fervente e intensa inoltre la sua attività di doppiaggio. Croccolo presta infatti la sua voce al notissimo duetto comico Stanlio e Ollio (interpretati dall’inglese Stan Laurel e dallo statunitense Oliver Hardy), nei film “L’eredità”, “Tempo di pic-nic”, “Un marito servizievole”, etc. Nei primi anni ’50 doppia, con grande orgoglio, proprio lo stesso Totò (si dice addirittura che fosse stato l’unico ad avere questo privilegio), e altri celebri personaggi come Vittorio De Sica ne “I due marescialli”, Renato Carosone in “Caravan petrol”, Nino Taranto in “Stasera mi butto” e molti altri.

Napoli probabilmente darà l’ultimo saluto a suo figlio domani presso la Chiesa di San Ferdinando. “Addio, Carlo, la tua arte resterà eterna.”

 

Il Circolo letterario romano Bel-Ami presenta il volume ‘Totò, il principe-poeta’

Per la prima volta raccolte in un unico progetto editoriale multimediale tutte le poesie e i testi delle canzoni di Antonio De Curtis, il leggendario Totò: il libro è curato dalla nipote del ‘principe poeta’, Elena Anticoli de Curtis, e da Virginia Falconetti.

Il Circolo Letterario Bel-Ami organizza, domenica 24 febbraio, 2019 alle ore 19.00 – la prima presentazione pubblica a Roma del volume “Il principe poeta. Tutte le poesie e le liriche di Totò” (Colonnese Editore) di Antonio De Curtis, a cura di Elena Anticoli De Curtis e di Virginia Falconetti.

L’evento, ospitato dalla Libreria Teatro Tlon di via Nansen, vedrà protagonista il prezioso volume: per la prima volta, condensata in un unico volume, tutta la produzione letteraria di Antonio De Curtis – con cinque inediti – che raccontano l’uomo dietro la ‘maschera’ Totò. Alla presentazione del 24 febbraio 2019 saranno presenti le due curatrici del volume, che racconteranno la genesi di questo progetto editoriale. Modererà l’incontro il giornalista e scrittore Michelangelo Iossa.

Nelle poesie di Totò non ci sono le battute e le movenze che lo hanno reso celebre, ma c’è il mondo visto da dietro quella maschera. C’è la vita difficile degli esordi (e non solo), il successo, gli amori, le delusioni, la nostalgia. C’è Napoli, con la sua “lingua-madre”, che non è però l’abusato “paese del sole”, ma in un certo senso è il mondo. Perché quella di Antonio De Curtis è soprattutto una “poesia morale” – non moralistica – che nasce e parla al cuore degli uomini. Che crede nel bene e non sopporta la prepotenza. Che crede alla bellezza, e non rinuncia ad amare, seppure tra le amarezze inevitabili che la vita riserva ad ognuno. Il libro ci consegna anche un Totò romantico, malinconico e pensieroso.

L’introduzione di Totò, il principe poeta è arricchita da uno scritto di Vincenzo Mollica. “Per Totò la parola era teatro, cinema, poesia, canzone, vita. Tutte le sue espressioni artistiche e tutti i suoi sentimenti erano tessuti con le parole. La sua genialità si esprimeva principalmente sotto questo segno.”, sostiene il giornalista.

Una serata per conoscere un nuovo e affascinante aspetto del ‘principe’, accompagnati dalle letture delle poesie da parte del regista e attore Giuseppe Schirrillo e dalle canzoni scritte da Totò, eseguite dal ‘cant-attore’ Marco Francini in una elegante versione per voce e chitarra acustica.

Bellezza, disincanto, nostalgia e, naturalmente, la sua amata Napoli: questo volume rilancia e riscopre le poesie di Totò, riprese dalle “carte originali” da sua nipote, Elena Anticoli de Curtis, insieme a Virginia Falconetti.
“Il Principe Poeta” è anche un libro multimediale che consente – grazie al lavoro condotto da Activart – di ascoltare, mentre si scorrono le pagine, la voce originale di Totò.

In memoria di Totò: la serata omaggio del Mattino di Napoli

Tra le migliaia di aggettivi che il povero Totò si sta vedendo accollare in questi mesi, non dovrebbe mai mancare “indistruttibile”. Nessun altro artista, infatti, sarebbe potuto sopravvivere all’inesausto coro dei celebratori né continuare a opporre le proprie qualità alla bulimia interpretativa che prolifera di pari passo con la maniacalità dei fan e dei collezionisti. La serata-omaggio, che “Il Mattino” ha allestito come prologo alla pubblicazione di un nutrito inserto monografico, prevede però un passaggio che potrebbe svincolarsi dal forse inevitabile blob: la proiezione di un conciso florilegio dei tagli operati a suo tempo dalla censura su alcuni film interpretati dal più grande attore comico del cinema e del teatro italiani.

Un contributo davvero incisivo e originale che il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale ha voluto offrire al pubblico napoletano e in particolare ai lettori del suo quotidiano grazie all’illuminata presidenza di Felice Laudadio e alla generosa disponibilità di collaboratori e funzionari, in primis dello studioso e saggista Domenico Monetti della sezione Comunicazione, stampa ed editoria.

I titoli dei film che hanno fornito (involontariamente) questo jolly filologico sono in ordine di apparizione “Totò cerca casa” (’49, Steno e Monicelli), il trailer di “Arrangiatevi!” (’59, Bolognini), “Dov’è la libertà…?” (‘54, Rossellini), “Sua eccellenza si fermò a mangiare” (’61, Mattoli), “Totò e le donne” (’52, Steno e Monicelli), “I due marescialli” (’61, Corbucci) e “Totò sexy” (’63, Amendola) e “Totò e Carolina”(’55, Monicelli), quest’ultimi privi del sonoro.
Al di là della curiosità epidermica, ne deriverà dunque la possibilità d’abbozzare una riflessione sulle influenze ideologiche che negli anni condizionati dal clima della guerra fredda si contrapposero utilizzando anche la sponda delle pratiche censorie. Diciamo subito che quest’indagine, non solo doverosa ma anche avvincente, può prendere due direzioni alquanto divergenti: quella secondo noi mirata ad aiutare non solo i cinefili a vederci più chiaro sui rapporti tra autori e mercato, recuperare l’uso imparziale delle testimonianze e dei documenti e delineare con la necessaria lucidità l’avanzamento spesso conquistato con la lotta del costume nazionale e quella più in voga e sbandierata a casaccio che tende a servirsene per ritrarre il nostro paese come una sorta di dittatura in grado di soffocare qualsiasi conato di dissidenza culturale.

Per quanto oggi possa sembrare assurdo, innanzitutto, non è clamoroso il fatto che la censura si dedicasse con zelo all’esame dei film di serie B e C (dalle farse al peplum), perché era proprio nel settore destinato al tripudio delle sale popolari che le produzioni si concedevano licenze soprattutto sul piano del voyeurismo. Certo, tra decine di pellicole di questo genere che la facevano franca, si stagliano casi davvero incredibili come quello, appunto, di “Totò e Carolina”, da qualcuno definito con notevole enfasi il film più censurato della storia del nostro cinema: nel contesto di un apologo smielato ed edificante, per noi tra i peggiori girati dall’attore, la commissione dipendente dal ministero dell’interno allora occupato dal falco Mario Scelba ravvisò addirittura 35 punti da eliminare perché offensivi nei confronti dell’arma dei carabinieri e della religione cattolica. Circostanza che si ripete nel plot di “Guardie e ladri” in cui il brigadiere Fabrizi, secondo quei signori più realisti del re, quando rinuncia a consegnare per pietà il truffatore alla legge sarebbe apparso espropriato d’autorità e messo sullo stesso piano del personaggio antisociale.

Puntualmente nemico delle figure di potere di volta in volta incarnate da caporali, capiufficio, deputati, direttori, comandanti, alti ecclesiastici il principe De Curtis rischiava di diventare un elemento pericoloso per la stabilità delle istituzioni consolidatesi nel dopoguerra a partire da quella cruciale della famiglia: tesi nient’affatto peregrina perché quel personaggio anarcoide e sfrontato sullo schermo non aveva rispetto per niente e nessuno, senza peraltro potersi giovare di padrini antagonistici considerato che i suoi filmetti erano invisi agli intellettuali vicini al neorealismo e la sua visione della donna e del sesso non coincideva certo con quella “onesta e pulita” promossa dalle militanti social-catto-comuniste dell’UDI. Grazie anche al nostro mini scoop, insomma, molti appassionati potranno rivolgersi con maggiore cognizione di causa ai lavori di Tatti Sanguineti che con le sue inchieste scritte e filmate ha fatto luce sulle motivazioni dei tagli di censura subiti da lungometraggi, cortometraggi e pubblicità distribuiti in Italia dal 1913 al 1965 (“Volete conoscere un film? Dai tagli fatti scoprirete quasi tutto. La censura aveva diversi livelli, basta saperli leggere”).

Proprio lo storico, ricercatore e organizzatore definito da Aldo Grasso il “retroscenista” del cinema italiano che nel documentario “Giulio Andreotti – Visto da vicino” propose un’attentissima rilettura del rapporto col cinema tra il ’47 e il ‘53 del giovane sottosegretario del governo De Gasperi al di là della celebre battuta “i panni sporchi si lavano in famiglia” la cui alternativa epigrafe recita così: “mentre lavoravo a un libro su di lui, lo sceneggiatore ex comandante partigiano e comunista Rodolfo Sonego mi disse: Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti nascere cinquemila”.

Fonte:

Totò “tagliato”

Ricordando Totò, il principe metafisico, a 50 anni dalla sua morte

A 50 anni dalla scomparsa del grande e inimitabile Antonio De Curtis, in arte Totò, proponiamo parte della lunga intervista realizzata dalla giornalista e scrittrice Oriana Fallaci al principe della risata, nel 1963 e riportata nel libro Intervista con il mito. La Fallaci considerava Totò l’unico autentico artista tra tanti cialtroni, l’unico vero signore tra tanti cafoni, l’unica altezza imperiale dinanzi alla quale lei si toglieva non uno ma cento cappelli.

Totò è stato un innovatore, in quanto ha allargato il linguaggio napoletano, adottando nuove espressioni e abbracciando tutti i dialetti italiani. L’arte di Totò, come ha evidenziato Mario Soldati, ha un persistente còte funebre. La stessa suprema qualità comica di Totò, si affidava alla rigidità della mimica alla Keaton e delle mosse: il suo corpo, più che un burattino, diventava un cadavere elettrizzato. E la sua intima esuberanza e vitalità diventavano poetiche proprio per questo suggerimento, questo beffardo presagio di morte. Totò danzava e recitava ricordandoci con semplicità il nostro destino, come se dicesse di continuo, in sottofondo: «Mi agito tanto e anche voi vi agitate tanto: ma fa lo stesso: siamo già scheletri dentro di noi, e finiremo, tutti stecchiti».

Smascheratore di ipocrisie contemporanee e nemico del potere e del conformismo, Totò è stato regista di se stesso, dotato di quella grandezza propria degli afflitti, degli umili; e sebbene avesse avuto un successo internazionale se fosse stato diretto da registi di lusso, probabilmente avrebbe dato meno, perché sarebbe stato congelato dal talento di qualcun altro.

 

Le altre altezze imperiali come la trattano, principe?

All’inizio mi snobbavano, si capisce. Poiché lavoro, poiché faccio il pagliaccio, mi guardavano con la puzza sotto al naso. Ad ogni modo, sa, io me ne infischio di come mi trattano poiché il mio titolo è più forte del loro. E poi su queste cose la penso come lo spazzino della mia poesia ‘A livella: quella del marchese che è seppellito accanto allo spazzino e vuole mandarlo via. <<Marché, me so scucciato/Te vuo’ mettere ‘n capo alle cervella/ che stai malato ancora ‘e fantasia?/ La morte sai cos’è?/ E’ na livella/Lu re. lu magistratu, lu grand’omme/traversa ‘stu canciello fatto a punte/ e ha perso tutto: ‘a vita e pure ‘o nomme./ Perciò stamme a senti’, nun fa ‘o restivo: /sopportami vicino, che t’importa?/ Ste’ pagliacciate ‘e fanno solo ‘e vive/ Nui simmo serie, appartenimmo ‘a morte>>. Dico bene?

Lei dice sempre bene. E poi lei è un Divo, un artista.

Macché artista: venditore di chiacchiere. Un falegname vale di più di noi artisti, almeno fabbrica un tavolino che rimane nei secoli. Ma noi, dica, che facciamo? Quanto duriamo? Al massimo, se abbiamo molto successo, una generazione. Lo scritto rimane, il quadro rimane, il lavandino rimane, ma di ciò che facciamo noi non rimane un bel nulla. Dico bene?

Principe, la Sua modestia mi lascia smarrita. Principe, Lei sta recitando.

Io le giuro sulla tomba di mia madre, l’unica cosa cara che ho al mondo, che sono sincero: non recito. Sto per confessarmi, anzi come non ho mai fatto con nessuno. Io sono un misantropo, un timido, pensi che quando entro in un ristorante, abbasso gli occhi perché mi vergogno che la gente mi guardi, e non ho mai amato rivelare chi sono. Stavolta ci provo, però deve credermi: sennò tanto vale andarci a bere un caffè. Signorina, io recito solo nei miei brutti film.

E allora mi dica: perché recita in quei brutti film?

Signorina mia: io non prendo i cento, i settanta, i cinquanta che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la quale hanno preso seicento milioni per la parte di un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare, col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più i film. E se un po’ alla volta falliscono tutti, io che faccio? I film dove recito io, di conseguenza, sono commerciali, sono filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco. Quando sono là, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va…Sarebbe scorretto, scortese…senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e sono morto.

Lei non ha, vero?, una grande stima degli uomini, una buona opinione del suo prossimo. E forse non ha nemmeno molti amici tra gli uomini.

No. No. No! Io mangio più volentieri con un cane che con un uomo. Di amici ne avrò due, forse. Il conte Paolo Gaetani e il conte Fabrizio Sarazani. A parte il titolo, due che lavorano come me: umili operai. Perché vede, quella mia battuta <<Siamo uomini o caporali?>> Non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido in questo modo, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne sono tanti, di uomini che ne sono pochissimi.

E quando nacque questo Suo odio per i caporali, Principe?

Sotto le armi, con un caporale di Alessandria che nella vita faceva lo spazzino. Caporali, vede, sono quelli che vogliono esser capi. C’è un partito e sono capi. Cambia il partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti…

Principe, io non l’ho mai vista ridere. A parte il fatto che esser tristi è la legge dei comici, io temo che Lei abbia sempre riso pochissimo: che non conosca il sapore di una bella risata.

Pochissimo, niente. Io non rido. Sorrido. E anche quello, raramente. Sorrido a lei, per esempio, perché è una donna, non si può mica parlare ad una donna con il musone. Però vede, non è esatto nemmeno dire che io sia triste: sono calmo, privo di ansia. Io l’ansia non la conosco. Deve influire, in questo, il mio residuo di sangue orientale, bizantino. Non so..Starei ore a guardare il cielo, la luna. Io amo la luna assai più del sole. Amo la notte, le strade vuote, la campagna buia, con le ombre, i fruscii, l’eleganza tetra della notte: bella quanto il giorno è volgare. Il giorno..che schifo! Le automobili, i camion, la luce, la gente..che schifo! Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore. La risata fa rumore, come il giorno.

Lei è un animale notturno, lo so: non va a letto prima dell’alba e si sveglia quando il sole è già alto. Ma come passa la notte in questa veglia. Che fa?

Nulla e tante cose. Ora le spiego. La servitù va a dormire alle undici. Franca, mia moglie, resta con me fino alle due, mi parla, mi legge i giornali perché come lei sa io sono mezzo cieco… Poi anche lei va a dormire e io resto solo. Giro per la casa, sto seduto, penso molto, mi affaccio alla finestra, vado in cucina a controllare che il gas sia chiuso, vuoto i portacenere.. E poi, siccome ho una radio che prende tutte le stazioni, e in più la radio marina, mi ascolto tutti i discorsi che si fanno le navi, i telegrammi dei pescherecci, e ci trovo l’alba. Ridicolo, eh? Una scena da uomo ridicolo.

No una scena da uomo solo. Lei deve essere un uomo terribilmente solo, principe. Solitario e solo.

Molto solo, non terribilmente. Perché io amo esser solo, ne ho bisogno: per contemplare, per pensare. A volte mi danno noia persino le persone che amo. E quando accade, zitto zitto, mi alzo e vado in camera mia; […] è difficile vivere con me. La base della mia vita è la casa. Io adoro la casa, per me è una fortezza, una difesa, quasi una persona.

Ma quando recita, le capita di essere un pochino felice?

Quella non è felicità, è un’altra cosa, che non so spiegare. Recitare per me è come una droga, o meglio:  un ossigeno. E se lei tenta di intervistarmi su questo, non ne ricava risposta. Per esempio se lei mi chiede: come faccio a far ridere, a essere tanto snodabile? Io le rispondo: non lo so. […]. Non è una disciplina, uno studio, è istinto, una roba che succede da se, quasi indipendentemente dalla mia volontà. Sicché è inutile che i critici mi rimproverino perché faccio sempre le medesime cose da decine di anni, perché sono sempre lo stesso. […] Sono passato con disinvoltura dalla commedia dell’arte alla prosa, all’operetta, al varietà, al cinema, alle canzoni, e ora giro un film, Il comandante che è un film serio. Ma che io sia quello e non altro, non vi è dubbio. Perché non sono io che comando la mia faccia, è la mia faccia che comanda me.

Lei non ama i critici, vero? I critici non sono stati spesso generosi con Lei.

Li rispetto. Ma i critici devono consigliare, non distruggere. […] Io rispetto ma voglio anche essere rispettato.

Ma a Lei…a Lei piace Totò?

Le rispondo con una cosa che non ho mai detto a nessuno, una cosa a cui non crederà […]. Non mi piace neanche un po’. Anzitutto come uomo, fisicamente. Signorina ma l’ha visto quanto è brutto? La faccia…tutta torta, asimmetrica..[…] Poi non mi piace come personaggio, non lo so, mi sta antipatico. […] E non mi piace come attore, come recita. Perché non mi fa ridere. E badi che a me i film umoristici piacciono, divertono. Mi divertono Sordi, Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola mia d’onore, non mi diverte per niente.

Per questo principe, quando lavora, chiede sempre “Va bene?”, “Sono stato bravo”?. Per questo è tanto modesto?

Per questo. Io, signorina mia, sono afflitto da un gran brutto complesso: il complesso d’inferiorità. Inferiorità fisica, intellettuale, culturale. Per esempio: non sono un uomo colto, e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, letto di più guardato di più. Vorrei essere stato più curioso. E ora che sono mezzo cieco e non posso curiosare più, studiar più, legger più….

Si consoli principe: al vocabolario c’è arrivato lo stesso. Guardi… Dice che è uscito un libro, Storia linguistica dell’Italia, dove Lei viene citato come esempio di efficacia linguistica e dove le sue espressioni fa “d’uopo”, “quisquiglie”, “pinzillacchere”, sono riportate come espressioni ormai entrate nell’uso comune, quindi nel vocabolario.

Oh, oh oh!!!! Che bello! Che bello! Che onore, che gioia. (Afferra il giornale, tenta inutilmente di leggerlo, e i suoi occhi sono lucidi)

 

 

 

 

Exit mobile version