Julius Evola, filosofo controcorrente e dadaista, Leopardi, Nietzsche, Šestov e l’equivoco della trascendenza senza riferimento teologico

La passione di Julius Evola (Rivolta contro il mondo moderno, Cavalcare la tigre, Teoria dell’individuo assoluto, La dottrina del risveglio, Gli uomini e le rovine, La metafisica del sesso, Lo Stato organico) per Nietzsche e Guénon, i suoi due pilastri, lo condurrà a un’inevitabile epilogo: a interpretare e perdere il primo alla luce del pensiero del secondo, con colui che Cioran definirà un maniaco dell’intelligenza, l’alfiere dell’Intellettualità pura. Evola guénonizzerà Nietzsche. I suoi commentatori lo riterranno uno dei suoi maggiori meriti: quello di aver liberato Nietzsche dal suo soggettivismo, e da ogni forma di naturalismo. In realtà è la gramigna di Evola, l’origine di uno dei suoi limiti fondamentali, il suo peccato originale, che farà da sfondo variamente sfumato a tutto il suo opus magnum: alla sua sterile nozione di trascendenza, ch’egli chiamerà auto-trascendimento ascendente, contrapposto a quello discendente, inferiore di stampo naturalistico; tutte definizioni che furono significativamente dedotte da A. Huxley e Jean Wahl, a loro volta gravati da un saldo impianto dialettico di fondo.

In particolare, Wahl, massimo studioso e specialista accademico di Kierkegaard, dava chiaramente una lettura dialettizzante di quest’ultimo, o una lettura sfumata in dialettica negativa e, ciò che è peggio, viziata dal drappo grigio della probità critica tipico dell’Accademia – Lev Šestov, molto significativamente, stigmatizzava questo aspetto deteriore di Wahl, la sua lettura universitaria del filosofo danese, che si rivelava una mera razionalizzazione dell’Autore; una particolare ristrettezza critica di cui Wahl darà prova, tra l’altro, nel momento in cui sbeffeggerà il tragico delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, che definiva semplici bambinate.

La trascendenza secondo Evola: l’empiria ha un ruolo fondamentale

Il concetto di trascendenza, in Evola pensatore poliedrico di nobili origini siciliane (scrittore, poeta, pittore, esoterista, filosofo), malgrado le mille sottigliezze teoriche, non differisce mai, per ciò che più conta, da un sovrannaturalismo di natura speculativa, da una qualsiasi ascesi dalla vita, aliena da quella autentica forma di trascendenza che contempla una profonda osmosi tra fisiologia, psicologia e il metafisico, dove l’empiria ha un ruolo fondante. Evola perde la vivificante alleanza tra biologia e gnosi, l’unica in grado di cogliere adeguatamente la fisiologia dei fenomeni del mondo e della vita umana – l’elemento irrazionale, la vita –, sottraendo la fisiologia all’equazione. Da questo punto di vista, il suo neo-idealismo non si distingue in niente da ogni forma d’idealismo a buon mercato. Il suo concetto di trascendenza è sterile, poiché si rivela solo una difesa contro quella vita non sublimata a priori dalla lunga catena degli eroi della mente, contro tutto ciò che è pre-umano, commettendo così lo stesso paradossale errore che l’esistenzialista Heidegger commetterà con la sua Ontologia anti-biologistica: è la contraddizione, tutta intellettualistica, di chi tematizza e ricerca un’autentica nozione di esistenza e, allo stesso tempo, la pastorizza dal suo fondo naturalistico. Non è forse stato Bataille a sostenere, con una nota negativa, che l’animale è il nostro più intimo rimosso?

Evola rigetta l’idea naturalistica dal suo schema filosofico (notate bene, perché è un errore fondamentale: un naturalismo ch’egli sembra appiattire in un biologismo razionalista di stampo scientista e materialista), la Natura, l’empiria, rimanendo impigliato nello speculativo di stampo idealistico, ipotecando il neo-idealismo contro la superstizione della vita meramente animale, istintiva, pre-personale, mero corpo e natura; in una fondamentale circoscrizione idealistica, Spiritualista, di ogni evento. Alla natura mancherebbe la luce dello Spirito, e se lo Spirito non è la Vita, e la Vita non è lo Spirito, è comunque lo Spirito a dare forma alla Vita!

L’individuo secondo Evola si emancipa dalla natura

Il suo concetto d’individuo, di persona definisce semplicemente colui che si emancipa dalla natura, dalla biologia, dal naturalismo, dagli aspetti inferiori della natura umana; l’individualità è sempre epurata dalla sua fonte impura, materiale, e ricondotta in qualcosa di superiore alla mera vita del caso evolutivo. La trascendenza confinerà con il mondo solo idealmente, spiritualmente, per contemplare ciò che si proietta oltre la psicologia depurata dal bios. Il superamento dei limiti cognitivi, delle categorie meramente filosofiche (moderne) dell’esperienza, attraverso la magia, si rivelerà un idealismo magico in cui l’individuo è una sorta di monarca ermetico a carattere eminentemente gnoseologico, e dunque intellettuale; è un nonsense intellettualistico, un circolo vizioso. Non si comunica mai realmente con il non conoscitivo, con l’intransitivo. L’unica differenza reale che Evola instaura, è il passaggio da un materialismo razionalista, immanentista, tipico della modernità, a uno spiritualismo che, se ripudia l’immanentismo scientista-razionalista-materialista, è però sempre debitore di una fondamentale circoscrizione dei fenomeni del mondo e della vita umana da parte della ragione, una ragione magica, questa volta: l’idealismo magico.

Il filosofo e il suo “nichilismo attivo”

Il nichilismo attivo di Evola, il suo esistenzialismo positivo, la sua etica post-nihilistica, al fine di superare il moderno nichilismo europeo, collocherà Nietzsche in un quadro di riferimento che trascende l’idea naturalistica della vita – la vita come immanenza – dello stesso filosofo tedesco; oltre ciò che Evola considerava l’aspetto deteriore e inconsistente di Nietzsche, il suo limite più evidente. Nietzsche, al pari di Leopardi, nell’evocare la trascendenza, la collegava intimamente all’immanenza, al naturalismo, alla vita e non a un principio superiore ad essa. Quella di Evola è ancora una volta trascendenza = ascesi dalla vita; egli non auspica la vita, ma un più che vita, qualcosa di superiore, contro Nietzsche. Il problema fondamentale di Nietzsche, secondo Evola, è infatti che in lui vita e trascendenza sono continuamente intrecciate. Per superarlo, Evola postulerà il passaggio dal piano di Dioniso a quello di una spiritualità superiore, apollinea, olimpica, in cui il vero senso misterico di Dioniso si riduce a un paradossale e sterile apollineo-dionisiaco, a una sorta di Spiritualismo stoico, eroico e virile:
il coesistere di un distacco con l’esistenza pienamente vissuto… un genere intellettualizzato e magnetico di ebbrezza, completamente opposto [sic!] a quella che deriva dall’apertura estatica al mondo delle forze elementari, dell’istinto e della natura.
(J. Evola, Cavalcare la tigre, p. 67)

L’oggettività del reale è negata e risolta, paradossalmente, in una coscienza che viene concretizzata in un’individualità idealizzata, eroica e virile. È il particolare senso deteriore conferito da Evola al metafisico, che in realtà, se inteso correttamente, non abbandona la materia: il metafisico contempla l’irrazionale, l’empiria, e vi attinge, come per osmosi, mentre la metafisica di stampo speculativo, fugge dalla materia, per vegetare nell’uomo (lo “Spirito”) come sola riposta all’uomo – non l’uomo prosaico, urbano, moderno, bensì l’uomo dell’idealismo magico: sono due forme diverse di profilassi, ma sempre di profilassi trattasi.

L’idealismo magico, la razionalizzazione e la soggettività

All’istanza posta dall’idealismo – assorbire tutto l’essere nel pensiero, in modo tale che il reale non sussista indipendente ma solo nella coscienza – si aggiunge volontaristicamente la magia, una sorta di concessione anagogica, per superare la sostanza astratta, intellettualistica di questo stesso idealismo, che lo rendeva solo un’entità di conoscenza razionale, qualcosa di ancora troppo prosaico, moderno, immanente: solo “Lettere, Filosofia e Pensiero”. È un guazzabuglio intellettualistico tra esoterismo e filosofia: il primo amplierebbe gli orizzonti della Filosofia, mentre questa, a sua volta, si imporrebbe al fine di sistematizzare e razionalizzare i contenuti dell’esoterismo!

Il pensiero sulla magia sembra ridursi a rendere magica la Filosofia mantenendo salda l’essenza, e il dominio, di quest’ultima. L’autentica soggettività, la singolarità – quella che Evola in alcuni occasioni stigmatizzerà come un: dogmatico, quanto arbitrario, divagare soggettivo – va perduta. Tutto sembrerebbe assimilabile nella rappresentazione dell’idealismo magico: dalla coscienza che si proietta al di sopra della laida materia. Questo nonostante Evola critichi l’intero idealismo svoltosi da Kant in poi, la sua fuga dal mondo, la sua catarsi dal reale nel vuoto universale di un concetto, l’idealismo di un immaginario Soggetto trascendentale, contrapponendogli un particolarissimo personalismo che ci spingerebbe oltre l’idealismo attraverso la concretezza esistenziale del tantrismo indù:
Vedendo nella forza l’essenza di ogni realtà, i Tantra rigettano i metodi puramente intellettuali, conoscitivi e devozionali propri ad altre scuole, tendono ad incentrarsi nel principio più profondo, partendo dal quale vogliono dominare sia la vita che la realtà fisica.
(in L’uomo come potenza).
È una fiction gnoseologica, quella di Evola, un brainfart intellettuale, che può sedurre unicamente personalità affini o ricercatori e accademici che riflettono sulla vita più che viverla. Metanoia per personalità infatuate dall’esoterismo.

La critica all’idealismo kantiano

È una critica essenziale all’idealismo, che rimane comunque immanente all’idealismo – a un idealismo trascendentale post-kantiano – che pretende di conservare, tuttavia, a differenza dei post-kantiani, un fondo non-filosofico, prerazionale; benché questi sia, in ultima istanza, un fondo irrazionale posticcio, spirituale, astratto, un irrazionalismo neo-idealistico controllato, un ambito eroico-magico appannaggio di una élite dominatrice della Scienza Sacra, l’Io magico etc. Sotto questo aspetto, è una realtà non molto dissimile dal surrealismo, dal suo sfruttamento razionale dell’irrazionale, benché trasfigurato da Evola su un piano spirituale. È, tra l’altro, il passaggio da un idealismo oggettivo a una sorta d’idealismo soggettivo (vi sono alcuni punti in comune con lo schema dell’idealismo del romanticismo tedesco), epurato, tuttavia, dal soggettivo empirico, inferiore, e dunque, paradossalmente, della singolarità più autentica, effettiva: la soggettività è promossa ma allo stesso tempo neutralizzata nell’idealismo magico.
Evola, da qualche parte:
là dove dalla ganga dei semplici lirismi, si liberano illuminativamente brividi di sensazioni oggettive, soprannaturali e irriducibili a meri parti poetici.

Il paradosso è qui: è una falsa soggettività che si impone come compito quello di annientare la vera soggettività, di pastorizzarla. L’individuo di Evola trascende l’immanenza per approdare una libertà da quel se stessi determinato dalla biologia e dalla psicologia che, sotto forma di carattere personale o di inclinazioni, non rappresenterebbero altro che ancora mera natura! È un extra-filosofico che non va in direzione della vita, ma, al contrario, in direzione dell’ascesi, dello Spiritualismo, anche se di natura virile. È a questa ipoteca che la volontà viene legata, a un paradosso razionale artificialmente circonfuso di anagogico e di esoterismo.

Se vengono effettivamente superate alcune delle rigidità dello spiritualismo classico, come anche dell’idealismo classico (egli spinge infatti l’idealismo a radicalizzare il principio astratto dell’Io come atto puro e a trasformarlo in “individuo assoluto”, in volontà effettiva di dominare l’essere e risolverlo in sé, in un principio concreto di autodeterminazione – forse una delle vere discriminanti tra l’idealismo classico e il neo-idealismo di Evola), contrariamente a quanto si crede, l’apparato Filosofico (l’uomo come sola risposta all’uomo), qui, non è semplicemente accessorio, parallelo o simultaneo alla vocazione magica, malgrado le stesse parole di Evola al riguardo (quando sostiene la superiorità del mito, della leggenda, della saga su ogni materiale giudicato meramente dal punto di vista “storico” e “scientifico”).
La trascendenza, il sovrannaturale, in questo quadro, mancano dell’alleanza tra biologia e gnosi. Il sovrarazionale è solo un inveramento spiritualistico, magico, del razionale, dall’alto. E non è un caso che Evola parli di sovra, poiché rifiuta apertamente di confrontarsi realmente con le forze “selvagge” del reale, quelle “basse”, “sub-razionali”, “pre-personali”. Lo stesso errore lo commetterà Papini in altro ambito (ricordo ai lettori che il suo Il crepuscolo dei filosofi fu solo un exploit giovanile, che ben presto egli rinnegò), quando, pur amando Leopardi, si allontanerà dal suo radicalismo irrazionale, dal suo radicale materialismo che non manca di affondare le sue radici nel metafisico (non ho detto metafisica), proponendo una “meta-filosofia”, innestando sull’ultra-filosofia del recanatese il fondo speculativo del suo cattolicesimo (di Papini) – il prefisso “meta” nel nuovo conio non è casuale.

Papini, Leopardi ed Evola

Giovanni Papini nell’illustrazione di Domenico Di Francia per “Il Bestiario degli italiani” numero 0
Leopardi, al contrario, parlava significativamente di ultra–filosofia, di qualcosa che si proietta oltre, non sopra, di una empiria parallela al metafisico, e non di una “meta-filosofia”, dove l’estrema concretezza del tragico è silenziata e sublimata, come accade nella filosofia cattolica di stampo speculativo. Si possono fare mille distinzioni, ma ciò che indica la strategia di Papini, come quella di Evola e tanti altri, è una sofisticata fuga dal reale, per rinchiudersi nel grande colombario dei concetti – il cimitero dell’intuizioni, come scriverà Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale.

Evola è sempre concettuale, cambia solo il territorio di applicazione – egli spinge semplicemente lo schematismo del concetto oltre la modernità razionale del materialismo scientista e immanentista; ma la sua pars construens non è migliore di ciò che combatte. Le sue tesi sono in buona parte condivisibili in ciò che nega, ma non in ciò che afferma. Questo genere di posizione supera indubbiamente quell’antropologia umanista che indugia in una conquista materiale (scientista, immanentista) del mondo, tipica di quel mondo moderno che Evola critica, per superarla con un’altra antropologia, che supera questo stesso umanismo deteriore dall’alto, con una prospettiva anti-biologistica; esattamente come accade con l’Ontologia heideggeriana, che paradossalmente si risolve in una trascendenza antiumana – in una trascendenza estranea alle cristallizzazioni passionali o di esperienza volgare, direbbe Evola che, su questo punto, coincide con la posizione del filosofo tedesco.

È significativo che questi siano gli anni in cui Evola rifiuta il concetto d’ispirazione, in quanto, secondo lui, una passione vissuta e non agita, governata a piacimento, in una pura autoreferenzialità della forma (formalismo), sarebbe un male. Ci viene giustamente detto che l’uomo non è un semplice mezzo cui manca ogni creatività, eppure, accanto a una concezione attiva e non meramente passiva della figura dell’artista, non gli viene mai affiancata anche la concezione del genio come ispirazione, medium e riflesso di forze estranee che lo avvolgono, il spiritus ubi vult spirat. Semplicemente, si esclude quest’ultima opzione.

Lo Spiritualismo di Evola, il suo idealismo magico legato a una visione non-naturalistica e non umana (contrapposta alle bassezze dell’umano), è una volontà che non sembra mai coincidere con la spontaneità, ma con un certo intellettualismo spiritualista, che lo stesso Evola vede come un aspetto positivo dell’arte; anzi, è questa volontà intellettualistica a prevalere sulla spontaneità. Intelligenza e volontà versus istinto e intuizione. Evola parteggia sempre per la prima coppia, e se critica la scienza positiva (materialista ed empirista) e la morale autonoma (borghese) nata dalla moderna Zivilisation come sintomi di décadence (in sostanza, la falsa conquista materiale del mondo da parte del mondo moderno – ecco l’unica vera distinzione), ciò accade per sostituirla con la concreta conquista Spiritualista del mondo, in cui la libertà assoluta nega il reale a favore di un Io superiore all’empiria, pura coscenzialità. Il concepito, il pensato, l’intelligibile – il regno del concetto – che vengono inclusi, trasfusi ed elevati, con una sterile e fredda ingegneria metallica, nello Spiritualismo magico del particolarissimo idealismo di Evola.

La libertà assoluta

Quando Evola parla di libertà assoluta, persona assoluta, del libero arbitrio, del magico, del peccato originale, dell’Albero della Vita, della volontà, della potenza, dell’al di là del bene e del male – queste categorie vanno sempre inserite nel suo impianto idealistico, sebbene riformato sia rispetto all’idealismo classico sia rispetto allo spiritualismo classico. La sua è un’alchemica trasmutazione, un’ascesi, non più di segno passivo per l’individuo, come accade in gran parte le filosofie e le religioni dell’ascesi, ma un’ascesi virile, individuale e attiva: una volontà di potenza ascetica o, se vogliamo, una volontà di conoscenza potente, virile. È in questo contesto che si inserisce la vocazione esistenzialistica.

La trascendenza è sempre in funzione dell’alto e dall’alto – da qui anche il concetto di Tradizione, dove il tragico non ha davvero posto nell’avventura spirituale. È un’intelligenza del reale storbidata (Evola dixit) dalle passioni della soggettività empirica e transitoria, liberata dai veli della sua morale umanistica secondo un principio non patetico o polemico e quasi eidetico (questa parola è significativa, poiché rinvia a un chiaro processo di astrazione, che sia definito – e distinto in – “intellettuale” o “spirituale”, poco importa). La verità non è interpretata in funzione della vita, in quanto il pregiudizio della vita (come accade in Nietzsche) sarebbe solo il limite di idee naturalistiche ed evoluzionistiche o biologistiche, una semplice immanenza, secondo le parole dello stesso Evola. La trascendenza non è interpretata in funzione della vita, al contrario, si guarda alla vita in funzione della trascendenza, dell’ascesi. L’Essere sarebbe cosi reazione alla vita, l’Essere che “non può procedere dalla vita stessa” (Evola).

Il neo-umanesimo ricorretto di Evola

Quello di Evola è un neo-umanesimo ricorretto. Se nell’umanesimo moderno – dove dominano le scienze positive o naturali, la tecnica, l’industrialismo e il materialismo, l’appiattimento sulla standardizzazione, il prevalere della quantità sulla qualità, del collettivismo e dell’egualitarismo etc. – gli aspetti sacri, metafisici, i contenuti simbolici evocatori non-umani vengono per lo più ignorati, Evola, al contrario, li evoca, ma per trasfigurarli, paradossalmente, in mera dialettica alchemica (quale sia la “sintesi”, lo si intuisce in tutto ciò che egli propone con la sua pars construens, con il suo lato “positivo” e “spirituale”); e benché il suo neo-umanesimo Spiritualista, aristocratico superi il neo-umanesimo della sua epoca, in quanto quest’ultimo reagiva alla deriva scientifica e tecnica della modernità contrapponendogli semplicemente “le Lettere, la Filosofia e il Pensiero”, come lo stesso Evola noterà, quest’ultimo non esce dalla contraddizione che qui, in lungo e in largo, andiamo chiarendo; egli dà semplicemente luogo a una sostituzione epistemica che passa dalle semplici e prosaiche (ancora troppo inferiori, moderne, urbane, umane troppo umane, un “intellettualismo” troppo immanente) “Lettere, Filosofia e Pensiero”, a un ambito che privilegi lo spirituale, il magico, il sacro etc. Evola vuole semplicemente trasfigurare l’intellettualismo moderno in spiritualismo, in un’atletica spirituale virile (notate bene: questa è l’unica vera distinzione tra l’idealismo classico e il neo-idealismo magico di Evola). Ma il senso dell’astrazione non cambia.

Come ha giustamente notato Marcello Veneziani, Evola è stato, da filosofo, il teorico che forse più ha interpretato i fondali della società contemporanea: il suo Individuo Assoluto è in fondo la gigantografia della condizione contemporanea, dei giovani soprattutto. La solitudine, l’anarchia e l’autarchia di fondo del suo pensiero sono insieme la più forte rappresentazione dell’individuo occidentale d’oggi e insieme la più grande smentita del suo stesso tradizionalismo. Anche i ragazzi incomunicanti e solitari, barricati in un altro Mondo onirico e irreale, come Second Life, sono piccoli individui assoluti connessi a virtuali tradizioni.

«Ho dovuto aprirmi da solo la via… Quasi come un disperso ho dovuto cercare di riconnettermi con i miei propri mezzi ad un esercito allontanatosi, spesso attraversando terre infide e perigliose» (J. Evola)

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

A Lost Lady di Willa Cather, un viaggio nel passato

 

A Lost Lady è un romanzo della scrittrice Willa Cather, pubblicato nei primi del Novecento, nel momento in cui la scrittrice manifesta il suo risentimento nei confronti della standardizzazione che caratterizza la vita dei figli dei pionieri. La Cather scruta preoccupata sulla linea d’ombra i segni dei tempi, la corsa all’esteriorità e alla ricchezza. Quest’ultima diviene l’emblema degli anni Venti americani prima della crisi. La Cather avverte la sua disillusione nei confronti della vita moderna e del mondo che la circonda, al punto da sentirne la crisi. I suoi valori divergono da quelli del consumismo e del materialismo, propri della machine-age. La nuova cultura priva di ideali è animata da arrivismo, arroganza e da una darwiniana selezione naturale. Ciò che deriva dal passato è inevitabilmente modificato e limitato alle apparenze. In A Lost Lady, esponenti di queste due differenti culture sono Captain Forrester e Ivy Peters. Il primo, fedele ad un’economia locale fondata su rapporti di amicizia e lealtà; il secondo proiettato verso un’economia nazionale. Lo scontro tra ideale e reale, presente e passato, maschile e femminile, il difficile rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda costituiscono il filo conduttore di tutto il romanzo.

Willa Cather per data di nascita e appartenenza spirituale è scrittrice di quella generazione collocata tra la guerra civile americana e l’età del jazz: in quella linea d’ombra di cui è simbolo l’espansione della strada ferrata nella prateria, che unisce e separa l’età della società rurale dei farmers buoni e uguali dall’esplodere successivo della ricchezza e della potenza protese sul mondo intero. Questa generazione va verso Est e verso l’Europa (sulle orme di James, Edith Wharton, Gertrude Stein e gli altri «espatriati») a cercare nelle più remote radici le ragioni dell’oggi; oppure si volge verso l’Ovest, il cuore rassicurante dell’America, la piccola comunità dai toni minori, dai colori tenui del crepuscolo, ma con dentro la forza della vera grandezza. Willa Cather va verso l’Ovest, cercando di cogliere la vera beltà degli anni migliori, oramai spazzati via dal presente che porta dentro di sé un’ombra tremula fatta di incertezza.
Filo conduttore della sua produzione letteraria è la lotta dell’uomo sensibile e creativo contro l’ambiente naturale o sociale che lo circonda. La figura del pioniere, dell’artista e del santo assolvono la medesima funzione. La Cather descrive la lotta per la sopravvivenza fisica ma anche intellettuale in una natura selvaggia ed ostile. Ciò determina una serie di conflitti e opposizioni che la romanziera delinea mediante un approccio narrativo che, pur risentendo della tendenza realistica e regionalistica, non può essere relegato nell’ambito del provincialismo, né tanto meno nei limiti estetici del realismo. L’interesse della Cather per la produzione letteraria di Sarah Orne Jewett e di Flaubert rivela la doppia natura della sua arte. L’idea di un mondo fondato su valori semplici, di stampo jeffersoniano, è distrutta dal progresso e quei sogni, scontrandosi con la realtà, divengono amare delusioni. La caducità dei sogni e degli ideali è uno dei temi narrativi che attraversa opere quali My Ántonia, O Pioneers, A Lost Lady.

L’autrice, pur utilizzando un narratore onnisciente (sul modello del romanzo ottocentesco) evita che il suo sguardo miri alla descrizione minuziosa ed imparziale. La voce narrante riporta il lettore quaranta anni prima, in una cittadina del Nebraska chiamata Sweet Water. Sweet Water è un nome parlante dal valore simbolico e suggerisce una duplice connotazione. Una idilliaca, determinata dallo scenario naturale che circonda casa Forrester; l’altra meno sognante. Infatti, al concludersi di un’epoca, tale idillio diviene apparente e la dolcezza evocata è ormai perduta per sempre. Basti pensare all’incedere della ferrovia (simbolo del progresso) che minaccia la prateria.

A Lost Lady è un viaggio nel passato, animato dai ricordi che ruotano intorno a casa Forrester. La Cather ritiene che la gioventù coincida con il tempo delle aspirazioni, del desiderio e delle passioni e che sia l’origine di ogni impulso creativo. Ritorna spesso nei luoghi dell’infanzia, in modo da creare visioni romantiche di ciò che è oramai perduto. Il passato rappresenta per lei una miniera letteraria e un mezzo per ritornare a se stessa. Il passato rappresenta per l’autrice una fonte d’ispirazione ma è attraverso la scrittura che se ne appropria e ne prende pienamente coscienza, poiché per la Cather nulla è realmente perduto o inutile. Il flashback è la tecnica narrativa che permette all’autrice di mostrare la funzione del passato sul presente, diventando in alcuni casi più importante dell’azione stessa.

Il romanzo comincia con la distinzione tra due classi sociali: gli agricoltori, che sono a Sweet Water per guadagnarsi da vivere, e i proprietari terrieri, che investono del denaro ma che sancirà il declino di un mondo. La ricchezza dell’aristocrazia locale non è evocata attraverso il denaro, bensì per mezzo della natura selvaggia, che potrebbe diventare una risorsa economica e che il Capitano si ostina a tutelare per il suo valore estetico. La distruzione dello scenario naturalistico coincide con la transizione del potere da un’epoca culturale ad un’altra.
Mrs Forrester è uno dei pochi personaggi all’interno del romanzo ad aver compreso in quale modo sia mutata la società. La Cather ha dotato di pragmatismo una figura femminile e ciò costituisce una scelta da non trascurare. Mrs Forrester non cede a facili imbarazzi in compagnia maschile, è disinvolta e di ottima compagnia. Nel suo agire è agli antipodi di Madame Bovary. Quest’ultima si è educata alla vita e all’amore attraverso le letture sbagliate, perdendo di vista la linea di demarcazione tra reale e finzione letteraria. Non disdegna la vita mondana, l’essere corteggiata e l’amare perdutamente come nelle tragedie, sino a morirne. Mrs Forrester è più realista, non rincorre l’amore ma conquista uomini ricchi in grado di garantirle quel che desidera. Interpreta il ruolo di moglie premurosa, ma la Cather, esaltandone i gesti, gli angoli del viso, gli sguardi e gli occhi, fa intuire che il suo animo cela una verità che il lettore è in grado di apprendere solo in parte. Mrs Forrester è forse uno dei personaggi più complessi del romanzo e intensificarne il mistero contribuiscono le sfumature che la Cather aggiunge in ogni capitolo. È possibile percepire la crisi dei valori nella società moderna attraverso questa singolare eroina e non attraverso Neil o il Capitano. Infatti, nei personaggi maschili non esiste una maturazione o una reazione al progresso e ai suoi valori antidemocratici. Neil appartiene per data di nascita e per educazione alla nuova generazione, anche se non ne condivide i valori; il Capitano è talmente ancorato ai valori jeffersoniani e al passato da non avvertire quanto i tempi siano mutati. Le contraddizioni e la crisi d’identità sono da ricercare in Mrs Forrester e l’aver reso una donna la depositaria di un disagio, rende più complessa e difficile la sua realizzazione sociale.

L’autrice si oppone agli stereotipi letterari e ne mostra i pericoli, anche se in modo meno critico rispetto a Virginia Woolf e Katherine Mansfield, le quali affrontano la critica agli stereotipi da una prospettiva femminile (e femminista). Non c’è progresso, cambiamento e sviluppo laddove si riscontri un idealismo nutrito da sentimentalismo. La Cather mostra che ogni forma di idealismo fa perdere il contatto conoscitivo con il presente e non permette di cogliere la vera essenza delle cose.
In A Lost Lady un ulteriore nucleo tematico è costituito dal rapporto tra l’uomo e la natura. Si riscontra che non è possibile alcuna relazione costruttiva poiché l’uomo distrugge le lande selvagge in nome del progresso e si arricchisce per mezzo di tale distruzione. L’importanza che la Cather attribuisce alla natura è rintracciabile nel suo interesse per Emerson ed il trascendentalismo. Emerson propone un abbandono emotivo dell’uomo alla natura per conquistare la libertà e prendere coscienza del proprio esistere. L’uomo diviene incapace di valori positivi quando perde ogni rapporto con la Natura e la distruzione dell’ambiente naturale che lo circonda coincide con l’inaridimento del proprio animo, con l’incapacità di amare e con il rendersi fautore di nefandezze e crudeltà.
La seconda parte del romanzo coincide con il senso di decadenza poiché le illusioni che caratterizzano la prima parte sono qui inevitabilmente perdute. La giovinezza, gli ideali, la speranza, l’amicizia, il piacere di inebriarsi della natura appartengono al passato, il presente coincide con la perdita e la presa di coscienza da parte di Neil dell’ineluttabilità degli eventi (e del destino umano). Il gusto estetico che tutelava l’ambiente naturale è ora sostituito dalla distruzione e da un utilitarismo nutrito da una spregiudicatezza che annienta ogni idealismo. Tutto sommato, i pionieri hanno distrutto per primi le foreste per costruire delle fabbriche di fiammiferi, si sono sostituiti ad una cultura preesistente con violenza ed arroganza; la nuova generazione è figlia di quella precedente, ne ha ereditato i valori ma, a differenza dei progenitori, evita ogni idealismo e ipocrisia. Gli ideali si rivelano inutili se il fine è il medesimo: la sopravvivenza del più forte.

Il personaggio di Mrs Forrester è ben lontano dalle eroine che tentano di affermarsi socialmente attraverso la propria indipendenza economica e la coltivazione del proprio intelletto, come il personaggio di Olive in The Bostonians di H. James. Non si può cogliere in Mrs Forrester nessuna emancipazione ma una trasgressione alle convenzioni. Per esempio, non approva che le donne fumino, poiché secondo lei il fascino femminile risiede nella diversità dagli uomini. Si può cogliere una nota polemica dell’autrice nei confronti del movimento femminista, che, proponendo pari opportunità per le donne, più che rappresentare un incentivo per l’innovazione sociale mediante una profonda adesione ideologica, è stato da molti limitato ad un atteggiamento superficiale. La Cather prende le distanze da ogni scelta suggerita da una tendenza comune e dimostra che la vera libertà comincia dall’essere. Inoltre, Mrs Forrester è consapevole dell’importanza del denaro, ma non lo usa per raggiungere una propria autonomia, come propone la Woolf in Una Stanza Tutta per Sé, ma per una felicità materiale comunque raggiunta attraverso un uomo.

La realizzazione personale di Mrs Forrester è determinata sempre da un uomo e di volta in volta ne eredita i valori. Mrs Forrester ha un’unica ansia: il tempo. Tenta di fermarlo vivendo intensamente e non accettando di invecchiare, in seguito truccandosi in modo eccessivo apparirà grottesca, simile ad una donna da saloon. In lei è assente ogni tentativo di emancipazione, poiché il suo agire si rivela frivolo e limitato alla mondanità.
Attraverso un’attenta forma di costruzione, la Cather conferisce al romanzo una grande intensità narrativa. La conclusione aperta, la mancanza dell’happy end e di precetti da seguire riproducono la condizione dell’uomo moderno che mutando «si è fatto frammentario ed elusivo». L’autrice non prende una posizione predeterminata verso i personaggi e le vicende che descrive; ma cerca una sintesi ed unità attraverso di essi.

La Cather riproduce abilmente il colore locale e i dettagli della vita di frontiera nel Midwest, che in parte conosce per esperienza personale, senza rinunciare al ricorso alla propria immaginazione. A tale proposito non si può ignorare la teoria del romanzo da lei sostenuta e l’importanza che attribuisce all’immaginazione. Quest’ultima contribuisce a rendere il processo artistico qualcosa di misterioso che non può essere misurato dal ragionamento. Facendo tesoro della lezione di Poe, Willa Cather riesce a materializzare un tono o un’atmosfera in immagini precise, inserendole in una scenografia. La «magical memory» rappresenta per la scrittrice una fonte d’immaginazione, poiché senza il potere creativo di quest’ultima, la memoria non potrebbe produrre opere d’Arte. La romanziera ricorre alla semplificazione, alla riduzione della storia a favore della scena e all’immaginazione per occuparsi del campo riflesso della vita, del mondo dell’interiorità, de «l’umana fragilità e sofferenza».
All’interno del romanzo si possono riscontrare numerose opposizioni tra: la campagna e la città, il genio artistico e la mediocrità, la natura e l’artificio, l’ordine e il caos, il maschile e il femminile. Ma il conflitto più grande resta quello tra la mediocrità e l’eccellenza, tra il pretenzioso e la mente colta, tra l’imprigionamento dello spirito umano in preoccupazioni grette e ridicole e il suo appagamento attraverso la liberazione di forze creative mediante l’Arte, la natura e le relazioni umane.

Nemici dell’Arte sono la cupidigia, il conformismo, la passività e la mediocrità, che caratterizzano i personaggi in A Lost Lady. La Cather indaga le conseguenze di questi nemici dell’energia creativa in molteplici aree tra loro differenti quali le relazioni umane e gli eventi sociali. C’è spesso nei racconti di Willa Cather, un’immagine di delicata bellezza che ci viene presentata al principio della narrazione, tratteggiata per mezzo di successive pennellate brevi e precise, che insistono sullo splendore e l’intensità di uno sguardo o sui chiaroscuri di uno spazio interiore. Ma man mano che quell’immagine diviene nitida nella mente del lettore, si avverte l’aleggiare di qualcosa d’ignoto e grigio, come il progredire di un’ombra.

Willa Cather riserva grande attenzione allo stile, riuscendo a misurarsi con immagini di povertà e di squallore materiale. La convinta riproposta del mito americano del self-made men è corredata dalla postilla per cui la vita da liberi pionieri dev’essere concreta, essenziale, persino frugale. Così su un isolotto sperduto del Nord Atlantico o nelle praterie del Nebraska o nel caos di New York, il passo attento e leggero dello stile della scrittrice ci accompagna mostrandoci la trama e l’ordito delle esistenze, il farsi e disfarsi dei destini. Ed è bello regolare la nostra andatura di lettori sulla melodia del suo stile.

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