‘La svastica sul sole’: il romanzo ucronico di Philip K. Dick

La svastica sul sole (L’uomo nell’alto castello) è un classico di un genere di nicchia: il celebre romanzo ucronico, o fantastorico di Philip K. Dick, il quale immagina come sarebbe il mondo se l’Asse avesse vinto la seconda guerra mondiale, con gli USA divisi in sfere d’influenza tedesca (costa atlantica) e giapponese (costa pacifica) e una zona centrale più autonoma ma politicamente ininfluente denominata “Stati delle Montagne Rocciose”, la Russia ridotta ad un’area ancor più marginale e subalterna, devastata dalle deportazioni naziste e sfruttata per la manodopera a basso costo, un’Asia (Cina, India, Indocina) e un’Oceania dominate dal Sol Levante.

La Svastica sul sole: trama

Sul resto del mondo incombe una realtà da incubo: il credo della superiorità razziale ariana è dilagato a tal punto da togliere ogni volontà o possibilità di riscatto. L’Africa è ridotta a un deserto, vittima di una soluzione radicale di sterminio, mentre in Europa l’Italia ha preso le briciole e i Nazisti dalle loro rampe di lancio si preparano a inviare razzi su Marte e bombe atomiche sul Giappone. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti i Giapponesi sono ossessionati dagli oggetti del folklore e della cultura americana, mentre gli sconfitti sono protagonisti di piccoli e grandi eventi. E l’intera situazione è orchestrata da due libri: il millenario I Ching, l’oracolo della saggezza cinese, e il best-seller
del momento, vietato in tutti i paesi del Reich, un testo secondo il quale l’Asse sarebbe stato sconfitto dagli Alleati.

Pubblicato nel 1962 dalla Putnam, il libro approdò nello stesso anno al Science Fiction Book Club e fu premiato l’anno successivo con il premio Hugo. Sebbene con maggiore umiltà rispetto ad alcuni contemporanei più fortunati come Vonnegut, anche Dick si colloca pienamente nell’area del postmoderno, approfondendo un discorso che non riguarda solo il rapporto ambiguo che si istituisce tra la realtà e l’illusione, ma ancora di più la relazione che intercorre tra la realtà e quel sistema codificato di menzogne che è una qualunque forma di comunicazione, in primis l’arte, ovvero la scrittura, nel momento in cui la verità diviene processo immaginativo, la cronaca ricostruzione fantastica, il Verbo divino un sistema di segni arbitrari, sempre e comunque soggettivamente interpretabili. Dick è sempre consapevole di essere parte e testimone del fenomeno di disintegrazione delle categoria conoscitive del reale di fronte all’avanzate degli strumenti della comunicazione di massa, sia come individuo che come scrittore.

Nella Svastica sul sole Dick trasferisce tutta la sua carica di scrittore sovversivo, sviluppando un modo di narrare in cui lo spazio caotico della realtà, che parte dall’autobiografia dello scrittore e si allarga ad abbracciare una serie di eventi storici dalle proporzioni immense; ne viene fuori un romanzo fantascientifico anomalo che non si risolve in un banale gioco di oziose fantasticherie pseudo-storiche. L’atto di fede compiuto da Dick riguarda il potere della scrittura che trasforma in una favola terribile, avvalendosi di un linguaggio lucido e tagliente , i processi e le mitologie attraverso cui si è istituita l’identità contemporanea americana. Infatti l’autore mette alla prova una serie di ricostruzioni storiche degli Stati Uniti legate alle vicende della seconda guerra mondiale che vanno dall’aggressione a Pearl Harbor del 1941 all’intervento alleato in Europa, con lo sbarco in Normandia fino al periodo post-bellico del confronto con l’Unione Sovietica, e le rovescia come un calzino. Adesso è la fiera America ad essere sottomessa a due nemici in disaccordo tra di loro: la Germania hitleriana e il Giappone imperiale.

Stile, linguaggio e l’arte come metafora

Con un procedimento terapeutico per cui il passaggio attraverso la follia della Storia è condizione ineludibile per recuperare una sanità sconvolgente, il lettore della Svastica sul sole, scopre non quello che già conosce, ma che l’America degli anni sessanta è inquinata dalla violenza, dall’autoritarismo e dall’ipocrisia delle istituzioni.

Dick non offre al lettore un’interpretazione celebrativa e conformista della realtà: l’artista può tranquillamente trasformarsi in una ridicola pedina del potere costituito, come accade al giovane tedesco Lotze in viaggio per San Francisco, pomposo sostenitore di un ‘arte spirituale che dovrebbe sconfiggere ogni traccia di materialismo, per mettersi al servizio degli ideale nazisti, con una forma di falsificazione ancora peggiore di quella attuata dai trafficanti americani di reliquie. L’unica risposta a tale infamia è quella che Dick fa pronunciare a Baynes, maestro di travestimenti che recita la parte del neutrale scandinavo, pur di rifiutare ogni affinità con la razza eletta, cui pure appartiene e che, di fronte all’antisemitismo di Lotze, si proclama ebreo, rivendicando simbolicamente la sua appartenenza a quell’universo alternativo che fa capolino tra le pagine di Abendsen, La cavalletta non si alzerà più (in cui il mondo immaginario è quello reale, dove gli sconfitti sono Germania e Giappone). In questo caso la menzogna fi Baynes acquista una sostanza etica è che la stessa di un genuino prodotto estetico.

L’America di Dick

Nell’America germanizzata di Dick la persecuzione antisemita avviene alla luce del sole anche se viene ostacolata dall’atteggiamento tollerante dei giapponesi. Nazismo storico e nazismo immaginario possono differire per alcuni dettagli ma la ferocia dell’Olocausto resta la stessa, a scanso di equivoci e di chi magari pensa che lo scrittore sia negazionista.

La grandezza di Dick sta proprio nel suo modo di utilizzare l’idea base del romanzo. Non ha l’ambizione di dare al lettore un quadro onnicomprensivo di un mondo ucronico dominato dai nazisti e dai loro alleati giapponesi. Nelle pagine iniziali viene rovesciato in modo geniale, lo stereotipo del turista americano, forte del suo dollaro, ma ignorante, che visita paesi stranieri acquistando souvenir e oggetti d’arte che spesso sono volgari patacche, Nella Svastica sul sole sono i giapponesi a collezionare oggetti americani per i quali, guarda caso, è nata un’industria del falso. Non si tratta solo di un appunto sarcastico, ma di una questione di identità culturale, ed è proprio riscoprendola che uno dei protagonisti, il mercante d’arte Robert Childan ritrova dignità umana e speranza di riscatto:

[…] L’ammiraglio è un collezionista? chiese Childan, con la mente che lavorava a tutta velocità.
Da un amante delle opere d’arte. E’ intenditore ma non è un collezionista. Ciò che desidera è acquistare qualcosa per fare un dono: vuole donare a ciascuno degli ufficiali della sua nave un prezioso cimelio storico, una pistola dell’epica guerra Civile americana. E L’uomo fece una pausa. In tutto ci sono dodici ufficiali. Dodici pistole della guerra civile, pensò Childan. Prezzo al cliente: quasi diecimila dollari. Fu scosso da un tremito. E’ risaputo, continuò l’uomo, che il suo negozio vende questi inestimabili oggetti d’arte della storia americana. Oggetti che, ahimè, scompaiono troppo rapidamente nel limbo del tempo.

L’autore si fa influenzare dal suo amore per la cultura orientale e al contempo dalla sua repulsione per il Nazismo, dando un’immagine dei giapponesi che contrasta con tutta la politica bellica del Giappone a partire dagli anni trenta e in particolare con il trattamento riservato ai cinesi durante l’occupazione, distinguendo però il militarismo nipponico dal nazismo, senza trascurare i rapporti tra l’America e L’Unione Sovietica in riferimento alla Germania nazista.

 

Fonte: prefazione al romanzo a cura di C. Pagetti, La svastica sul sole, Fanucci narrativa

Riflessioni sull’utilità dell’invenzione storica: contemplare il passato per riflettere sul futuro tra ucronia e utopia

Cosa sarebbe successo se i Patti Lateranensi non fossero stati sottoscritti? E se la morte prematura di Benito Mussolini avesse portato alla guida del governo un Dino Grandi? E se invece fosse toccato a Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce? E se quest’ultimo avesse dato avvio a una politica filo-americana, magari sposando una Rockefeller, pilotando il Paese verso un’economica liberal-capitalista? E se Filippo Tommaso Marinetti avesse scritto un fantasioso romanzo storico, consegnato direttamente al Duce, influenzando la sua politica?
Nell’epoca in cui la nostra attenzione è incatenata all’attimo presente, osserviamo incoscienti le inebrianti fluttuazioni cui sono soggette le storie e gli eventi, a volte in modo del tutto fittizio ed irreale, nel tentativo – quasi sempre riuscito – di confondere lo spettatore ed impedirgli di maturare una propria, salda convinzione. E se iniziassimo ad inventare le narrazioni che più desideriamo, a scapito dei fatti genuini, stanchi del circo mediatico – facendoci beffe di giornali, TV e del sistema scolastico? Contemplare il passato porta inevitabilmente a riflettere sul futuro – un tempo che contiene le nostre speranze e le paure di ciò che potrebbe accadere; infatti, mentre non abbiamo alcun controllo sugli eventi trascorsi, il futuro sembra terreno fertile per congetture di ogni tipo. Le speculazioni sull’avvenire ci consentono di correggere le storture e di esaminare i disastri che non riusciamo a superare nel presente: la finzione funge da rifugio finale e ideale. Il filosofo Charles Renouvier scelse la parola ucronia come titolo del suo romanzo del 1876, dalla radice greca, avente come significato senza tempo; stava seguendo il modello stabilito qualche secolo prima da sir Thomas More, la cui Utopia, termine di uguale derivazione, significa non-luogo. Se l’utopia, dunque, è un luogo che non esiste in questo mondo, l’ucronia è un tempo – inteso come concatenazione di eventi – mai accaduto; se l’utopia è posta nell’oltre-mondo, l’ucronia sviluppa una trama alternativa, considerando cosa sarebbe successo al mutare di determinati eventi-chiave. Tale speculazione, tuttavia, non deve ridursi a pura frivolezza, poiché il contrasto con ciò che realmente è accaduto può approfondire la nostra comprensione del momento attuale. Non si tratta di esercizi per intellettuali perditempo, è da rilevarne il notevole contenuto filosofico e pedagogico: nell’utopia, da Platone al Rinascimento, si disegna una città ideale come modello per la condotta virtuosa del cittadino nella sua vita concreta; nell’ucronia, si ricorda che la storia è il teatro del sempre possibile, a scapito di ogni “storicismo” paralizzante.

La storia alternativa è un campo estremamente vasto. Alcuni tra giornalisti, studiosi e romanzieri, hanno provato a raccontare, in un volume intitolato Fantafascismi, curato da Gianfranco de Turris, appena pubblicato per Bietti, le differenti svolte che la storia d’Italia, fra il 1921 e il 1945, avrebbe potuto intraprendere se alcuni episodi (non) si fossero verificati ovvero se gli accadimenti avessero seguito un indirizzo diverso. Giacinto Reale, ad esempio, prova a rimescolare le carte in quel fatidico 28 ottobre 1922: mentre le colonne fasciste muovono alla volta della Capitale, per dare inizio alla storica “marcia”, Benito Mussolini attende a distanza, negli uffici del Popolo d’Italia a Milano, assieme al fratello Arnaldo, pronto a partire non appena la situazione volgerà in favore del movimento.
Ad un certo punto, si vede costretto a scendere in strada per sedare un dissidio tra i suoi uomini e le guardie reali; ed è qui che la cronaca imbocca un’altra via: egli rimane coinvolto in una sparatoria, ferito gravemente; si decide, in segreto, dopo aver riportato il corpo all’interno dell’edificio, di trasportarlo in Svizzera, per operare la rimozione del proiettile; ma proprio mentre costeggia il lago di Como, nei pressi di Dongo, l’ambulanza si ribalta e Mussolini viene scaraventato fuori, morendo sul colpo. Allora, diffusasi la notizia, il re decide di firmare lo stato d’assedio e incaricare l’anziano Giovanni Giolitti per la formazione di un nuovo governo cui faranno parte anche esponenti fascisti, mentre – per ironia della sorte – la celebrazione del funerale di colui che sarebbe dovuto diventare il Duce del Fascismo avrà luogo in Milano a Piazzale Loreto.

Suggestivo e visionario il racconto di Dalmazio Frau, con protagonista Armando Brasini, immaginato come architetto ufficiale del regime in luogo di Marcello Piacentini; la nuova Roma da lui disegnata, invece del freddo e monumentale stile del Piacentini, appare così fascinosa da far esclamare ad un giornalista venuto dall’America:

Intuisco in un solo istante che ogni edificio, ogni piazza, ogni chiesa, ogni monumento, obelisco voluto da Armando Brasini altro non è se non uno dei magici punti sulla terra che servono a convogliare le influenze sottili che permeano il cosmo. Un’immensa, grandiosa magia che fa di Roma il Centro dell’Universo.

E ancora: quale svolta avrebbe avuto la politica italiana se il 9 giugno 1936, al posto di Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce, fosse divenuto ministro degli affari esteri il conte Giovanni Capasso Torre di Caprara?

Realizzato da Vito Tripi come favolosa raccolta di appunti tratti dal diario dello stesso ministro, di note provenienti dal Ministero della Cultura Popolare e di articoli pubblicati su giornali italiani ed esteri, il racconto delinea l’azione della nuova politica italiana la quale, dopo aver sostenuto lo sforzo dei franchisti nella guerra civile spagnola, riesce a portare un governo amico in Francia, poiché il presidente della Repubblica Albert Lebrun, nel timore che si potesse verificare una crisi come quella spagnola, scioglie le camere senza indire nuove elezioni, nominando un Comitato di Salute Pubblica con a capo l’eroe di Verdun, il maresciallo Philippe Petain. Assieme a queste due nazioni, e con il Portogallo, il Principato di Monaco, la Repubblica di San Marino, la Romania e la Bulgaria, la Grecia e l’Ungheria, il Duce si porrà a capo di una “Lega Latina” (poi “Lega Europea”) – alleanza sia difensiva che offensiva – la quale, con l’appoggio del Regno Unito di Gran Bretagna, affronterà la Germania nazionalsocialista, l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, uscendo vincitrice dalla seconda guerra mondiale, con il regime fascista in trionfo per i decenni a venire.

Scrivere storie alternative è come camminare sopra un filo sottile, mentre si è bendati, attraversando un uragano. Si tende a credere, a questo punto, che gran parte della storia sia contingente, che gli eventi e le narrazioni siano inclini a divergere, ma che – in ogni caso – un destino non manifesto farà da raccordo alla molteplicità delle ipotesi; perché ciò che rende buona la fantasia storica è quel senso di autenticità, la percezione che gli avvenimenti, dopotutto, siano radicati nella realtà e dunque, se le cose fossero andate diversamente in un punto critico, ciò che ne sarebbe conseguito avrebbe assunto il carattere di inevitabilità. Certo, la storia ha i suoi aspetti deterministici; ma le possibilità insite in molti frangenti screditano l’enfasi sul meccanicismo e sottolineano l’elemento del caso e la rivendicazione della libertà individuale, compromessa dai sistemi sia idealistici che positivistici.

 

Gabriele Sabetta- L’intellettuale dissidente

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