Nel giornalismo letterario bisogna distinguere tra “articoli di giornale” e “articoli che escono sul giornale”; in Italia abbiamo avuto dei bellissimi esempi come quelli di Cecchi e Baldini: lavori di artisti che hanno trovato il loro modulo nel taglio dell’elzeviro. Gli articoli di giornale hanno l’aria di obbedire alle necessità dei lettori prima che a quelli che li ha scritti; in questo senso, quelli di Ugo Ojetti sono sia articoli sul giornale che articoli che escono sul giornale e fanno letteratura. In altri paesi tutto questo è rappresentato da diari, epistolari, libri di memorie, mentre in Italia, eccezione fatta per Ferdinando Martini, lo scrittore che è riuscito a fare letteratura francese nel più italiano dei modi, è stato proprio Ojetti, rimediando con il corpus dei suoi articoli che tiene il posto dei diari e delle memorie, in Italia mancanti.
Lo scrittore romano in origine è uscito dal clima estetico e mondano di D’Annunzio, ma mentre il poeta-vate ha spiccato la parabola lanciata verso il “vivere inimitabile”, Ojetti ha percorso la strada del “vivere imitabile” che è il saper scrivere. Il libro di aforismi Sessanta (Milano 1937) prende le cose dal di fuori, occupando un posto vuoto nel panorama letterario italiano. Si tratta di 352 massime e pensieri che l’autore ha raccolto quando ha varcato la soglia dei sessant’anni. Tale posizione dei “sessanta” è stata indicata dall’intelligenza e poi la ragione l’ha esplorata a parte a parte, allineando le massime e i pensieri come una sorta di reportage dal paese dei sessanta, scritto dall’inviato speciale Ugo Ojetti giornalista.
Le Muse inconfessate di Ojetti sono le sovracitate intelligenza e ragione come dimostra il seguente passo:
<<Separa la tua intelligenza dalla tua sensibilità; è una slogatura difficile ti occorrerà un lungo esercizio. Il compito dell’intelligenza è sempre stato d’intendere, di distinguere, di ordinare. L’intelligenza cioè senza la ragione è un motore in folle>>.
Se non brillassero in quasi tutte le massime, l’intelligenza e il gusto di Ojetti, con quanto comportano di imprevedibile, si direbbe che spunti, pretesti, argomenti, siano altrettante rime obbligate con il ritornello, vecchio di sessant’anni. Si parla della morte, del medico che sentenzia: “Lei ha un cuore di vent’anni”, e si constata nella vecchiaia una forza più precisa, ossia una diminuzione; e si polemizza con i giovani riprendendo alcune alcune delle idee permanenti contro il Novecento, l’architettura razionale e la pittura di puro paesaggio.
<<Che è questa pace in cui l’uomo crede di entrare, varcando le soglie delle vecchiezza? Vedo generali, professori, capi di grandi aziende raggiungere quelli che si chiamano i limiti di età e non trovar pace, ma sopravvivere umiliati, agiati, ansiosi, tra la tavola da gioco e il tavolino del caffé. E quelli che hanno professioni libere come la mia, affannarsi nel difendere la propria fama, la propria donna, il proprio denaro, con la forza e con l’astuzia che si chiama esperienza […]>>.
Lo scrittore ha lavorato con tanta alacrità intorno al vecchio, a farlo confessarsi e parlare che si pensa piuttosto ad ungiovane elastico e pensoso dal timbro giovanile e limpido. Della civiltà dannunziana che Ojetti certamente supera, dal punto di vista narrativo, egli non ha creato figure, ma gesti. In Sessanta c’è tutto Ugo Ojetti, quello felice che si è proposto di scrivere aforismi risolvendoli in qualcosa che desse piano risalto alla sue doti migliori. La forza di epigrammista, la sapienza di alludere, di tenere d’occhio il lettore e al contempo parlare all’avversario, rappresentano le consumate arti di Ojetti che in Sessanta superano se stesse.