James Joyce e Italo Svevo. Dello scrivere di sé

Si ricordi di me se in qualsiasi momento il mio aiuto potrà servire a mantenere vivo il ricordo di un mio vecchio amico per il quale ho sempre nutrito affetto e stima. A lei, cara Signora Schmitz, e a Sua figlia tutta la nostra solidarietà. Sono le ultime righe della lettera di James Joyce del 24 settembre 1928 spedita a Livia Veneziani, rimasta vedova dopo che, undici giorni prima, Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, era deceduto a seguito delle complicazioni di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.

All’epoca Joyce viveva da tempo a Parigi, era fra gli autori più famosi a livello internazionale a seguito della pubblicazione di Ulisse e da alcuni anni si stava dedicando alla scrittura di Finnegans Wake. Italo Svevo, rimasto per quasi tutta la vita in ombra come scrittore, ebbe solo pochi anni per godersi la tanto agognata fama infine riconosciutagli in Europa e soprattutto in Italia, a seguito dell’uscita nel del suo ultimo romanzo La Coscienza di Zeno, grazie agli interventi del suo amico James Joyce in primis e di Eugenio Montale poi.

Grazie del romanzo con la dedica. Ne ho due esemplari anzi, avendo già ordinato uno a Trieste. Sto leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il suo migliore libro.                                                        

(Lettera di James Joyce a Italo Svevo del 30/1/1924)

I due si conobbero presumibilmente fra il 1906 e il 1907 a Trieste, città nella quale Joyce, abbandonata l’Irlanda nel 1903, viveva assieme alla compagna Nora e al piccolo Giorgio. Galeotto fu l’inglese, la lingua che Svevo doveva perfezionare per i suoi viaggi di lavoro per conto della ditta di vernici del suocero, durante quel lungo periodo in cui si trovò a trascurare la sua passione letteraria, scottato dagli insuccessi dei suoi primi due romanzi, Una vita e Senilità, stampati a sue spese sul finire del secolo XIX. Anche Joyce era ancora distante dalla fama che otterrà negli anni ’20, avendo da poco pubblicato il suo primo libro, la silloge poetica Musica da Camera, con scarso riscontro di vendite e critica. A Trieste però era già un rinomato insegnante di inglese per la Berlitz School, cosicché Svevo, vent’anni più grande di lui, non se lo lasciò sfuggire e le lezioni cominciarono.

Ciò che dal loro incontro fece fiorire una vera amicizia non fu però tanto l’inglese, quanto la passione per la scrittura che li accomunava; fin dai primi incontri si confessarono le reciproche predilezioni letterarie e si scambiarono i propri scritti. Joyce lesse i due romanzi di Svevo e ne rimase colpito, Svevo ebbe la possibilità di trovarsi fra le mani i manoscritti dei primi capitoli del Ritratto dell’Artista da Giovane e di ascoltare dalla stessa voce di Joyce la lettura di alcuni dei racconti che sarebbero anni dopo confluiti nella raccolta I Dublinesi. L’amicizia era iniziata.

 

Caro Sig. Joyce, molte grazie per il Suo gentile regalo. Può immaginare con quanta attenzione leggerò il lavoro del mio maestro e amico. Sicuramente parlerò del nuovo libro con tutti coloro che credo possano essere interessati a un’opera in inglese di contenuto irlandese. […] Spero che presto mi offrirà l’opportunità di parlare con Lei delle tante Sue pagine che ho avuto modo di leggere.

(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 26/6/1914)

Già dalle lettere che si scambiarono è evidente come nel tempo il loro legame si fece duraturo e solidale. Svevo aiutò più volte economicamente Joyce, sempre a corto di denaro, e Joyce, quando divenne famoso con Ulisse, riuscì a rendere famoso anche il suo amico con La coscienza di Zeno, che uscirà nel 1923, un anno dopo Ulisse. Sono infatti proprio le pagine dei loro grandi romanzi a restituirci e confermarci ancora oggi le tracce delle loro intese.

Possiamo riconoscere molti aspetti tipici di Italo Svevo in Leopold Bloom, il protagonista di Ulisse, fra cui il fatto di essere entrambi ebrei ribattezzati di origini ungheresi, nati in una patria assoggettata (Dublino sotto l’impero britannico e Trieste sotto quello austro-ungarico). Così come fu lo stesso Joyce a informare l’amico di essersi ispirato a sua moglie, Livia Veneziani, per il personaggio di Anna Livia Plurabelle in Finnegans Wake: i suoi lunghi capelli biondo-rossastri gli ricordavano il fiume Liffey di Dublino, del quale la protagonista del libro diviene personificazione. Pochi mesi prima della sua improvvisa scomparsa, Svevo scrisse a Joyce di volergli fare dono di un ritratto della moglie dipinto da un noto amico e pittore triestino, Umberto Veruda:

 

Vorrebbe Lei averlo? Dica in una cartolina postale la sola parola sì ed io glielo invio. Senza il Suo consenso non oso inviarLe il ritratto di mia moglie. Di lavori di Veruda io ne ho molti, e in quanto al soggetto io mi tengo caro l’originale.

(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 27/3/1928)

 

Senza dubbio si trattava di un’amicizia sincera e fiduciosa, considerata la sfrenata gelosia che legava entrambi gli scrittori alle rispettive consorti. I loro libri sono pieni di riferimenti ai loro impeti possessivi. La gelosia di Joyce aveva un’azione persino “retroattiva”, coinvolgendo anche gli amanti che Nora aveva avuto prima di conoscere lui (fattore che ispirò il tragico racconto di Gretta Conroy ne I Morti).

 

Ho paura che mi venga mostrata anche solo un ritratto di te da ragazza perché penserò “allora né io conoscevo lei né lei me. Quando andava a messa la mattina, a volte lanciava lunghi sguardi a qualche ragazzo per la strada. Agli altri ma non a me”. Ti chiedo, mia cara, di essere paziente con me. Sono assurdamente geloso del passato.

(James Joyce > Nora Barnacle, 21/8/1909)

 

Mentre nella Coscienza, gli effetti della gelosia di Zeno gioca d’anticipo sul futuro, fin oltre la fine della propria vita:

 

Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.

In Senilità, il romanzo si Svevo a cui Joyce era più affezionato, si narra quella che oggi definiremmo una “relazione tossica”, fra la giovane Angiolina e l’assicuratore Emilio tormentato dai sospetti di tradimenti della ragazza, in cui è coinvolto anche l’amico artista Stefano Balli, che in spavalderia e virilità tanto somiglia a Buck Mulligan e Blazes Boylan, gli antagonisti di Stephen Dedalus e Leopold Bloom in Ulisse.

Anche Bloom sa che la moglie Molly lo tradisce con Boylan e questo pensiero lo rincorre e lo rattrista durante tutta la giornata del 16 giugno 1904 in cui si svolge il romanzo e durante il quale Bloom si ritrova a girovagare per tutta la città di Dublino, fra osterie, ospedali, farmacisti e persino un funerale, pur di ritardare il ritorno a casa, dove la moglie l’avrà tradito nel loro stesso letto. Ulisse in fondo è la storia di un funerale e di un tradimento, di amore e di morte – quest’ultimo altro argomento cruciale che lega le vite e le opere dei due scrittori.

 

Sede degli affetti. Cuore spezzato. Dopotutto una pompa, che pompa migliaia di litri di sangue ogni giorno. Un bel giorno si blocca ed eccoti lì. Ce ne sono molti qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite: al diavolo tutto il resto. La risurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto.                            

(Ulisse, episodio VI, Ade)

 

L’argomento era già esplicitato nel titolo citato I Morti, celebre racconto conclusivo della raccolta I Dublinesi, ma anche nell’ambientazione del primo che fra questi Joyce era riuscito a far pubblicare su rivista, Le Sorelle, che si apre con l’agonia e poi la morte di padre Flynn. Guido, il cognato-antagonista di Zeno, si suicida, così come Alfonso, il protagonista di Una vita, il primo romanzo di Svevo. Di suicidio morì in Ulisse anche il padre di Bloom, mentre di morte prematura suo figlio Rudy. Stephen Dedalus, già fin dalle prime pagine del medesimo romanzo, è ossessionato dalla tragica morte della madre, per cui indossa ancora l’abito a lutto, e il ricordo delle allucinazioni di lei ci riportano a quelle di Amalia, la “pallida sorella” malata di Emilio in Senilità. Laddove nella Coscienza è il mirabile racconto del padre che con uno schiaffo in punto di morte si imprime sulla mente, oltre che sulla guancia, del protagonista, Zeno, l’inetto e il malato ipocondriaco assillato dalla morte:

M’ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso o un riso altrettanto lieto.

Se però provassimo a seguire il filo delle ossessioni dei due autori, ne incontreremmo tante altre ancora e probabilmente le più celebri sarebbero anche quelle più meschine o meno elevate: l’alcol per Joyce e il fumo per Svevo. Del suo vizio l’autore irlandese non si esprimeva tanto nelle sue scritture private, quanto nelle sue opere; in particolare si ricorderanno gli episodi notturni di Ulisse, dalla conclusione del quattordicesimo al quindicesimo che devono il loro stile visionario e allucinato alle alterazioni etiliche dei personaggi, e quello successivo, il sedicesimo, scritto nella “prosa rilassata”, tipico dei postumi da sbornia.

Eccerto, sì. Che dire? Alla taverna. Sbronzi. Ti ho viscto, scignore. Bantam, due giorni sciobrio. Trincando nient’altro che chiaretto. Ma dai! Tiello d’occhio, eh. Mioddio, io sia dannato. E al barbiere se n’è andato. Troppo colmo per le parole. Con un tale delle ferrovie. Come mai stai così? L’opera gli andrebbe? Rosa di Castiglia. Cosa di Famiglia. Polizia Stradale! Un po’ di H2O per un uomo svenuto.

(Ulisse, episodio XIV, Armenti del Sole)

 

Mentre Svevo del suo vizio del fumo, oltre a intitolarne il primo famoso capitolo della Coscienza, ne tratta maniacalmente anche nei suoi scritti personali, specie quando si tratta di sconfessare ogni intento a smettere:

 

Fumo al solito come un turco e non vedo vicino il momento in cui saprò disfarmi di questa odiosa abitudine più gravosa ancora quando ho qualche sopracapo perché allora fumo il doppio.

(maggio 1898)

 

È chiaro che negli anni in cui stavano esordendo le prime teorie psicanalitiche e Svevo stesso, che padroneggiava la lingua tedesca, poté avvicinarsi direttamente ai primi scritti di Freud, la domanda non poteva che essere: può la psicanalisi guarire dalla nevrosi, dalla malattia, dall’ossessione, dal vizio? Svevo considerava Freud un grande uomo “più per i romanzieri che per gli ammalati”; c’era da capirlo, dato che l’affezionato cognato Bruno Veneziani, affetto di disagi psichici e dipendenze, fu giudicato inguaribile da Freud in persona, il quale tuttavia non si fece scrupoli a presentare la parcella a trattamento fallito. Così come nella Coscienza di Zeno, da sempre presentata scolasticamente come un romanzo psicanalitico, apprendiamo fin dall’inizio il disappunto dello psicologo per essere stato piantato in asso dal paziente e protagonista del libro.

E Joyce? Non la pensava tanto differentemente, se consideriamo che il suo più grande dolore fu quello di non essere riuscito a prendersi cura di una figlia schizofrenica, l’amatissima Lucia, la quale a seguito dell’infruttuosa terapia di Jung finì i suoi giorni lontano dalla famiglia in un ospedale psichiatrico; la psicoanalisi, secondo Joyce, è una forma di ricatto: “se ne abbiamo bisogno, teniamoci alla confessione”.

Fu con le loro opere che i due grandi scrittori riuscirono ad arrischiarsi nell’oceano delle ossessioni, delle gelosie, dei vizi, delle malattie. Si sarebbe dovuto attendere che la psicanalisi si evolvesse almeno fino agli sviluppi di Lacan, il quale decise di lasciare la mano di Freud come guida per prendere quella di Joyce: colui che attraverso le sua arte riuscì a permettere che dentro di sé il proprio processo di sintomi, ovvero il modo in cui l’inconscio funziona procurandosi godimento, lavorasse non più al costo della sofferenza del soggetto, bensì, incredibilmente senza alcuna seduta analitica, agganciandolo alla sua soddisfazione.

 

La salute non analizza se stessa e neppure si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi.

(La Coscienza di Zeno, La moglie e l’amante)

 

I due scrittori avevano compreso fin dalle prime giovanili esperienze con la penna fra le dita, che attraverso la loro arte non dovevano aspettarsi di guarire, ma di poter parlare di loro stessi, nella loro reale quotidianità, fra desideri e delusioni, propositi disattesi e riconoscimenti inaspettati: la creazione artistica non poteva prescindere dalla loro stessa autobiografia, dal consapevolezza di esistere, dal ritrovarsi al mondo fra cose visibili e invisibili, dal conoscerle e dal conoscersi, dall’incontrarsi e dall’essere amici.

 

 

[Per approfondimenti si consiglia l’intervista “Joyce + Svevo. Con Enrico Terrinoni, Andrea Pagani, Riccardo Cepach”, online su YouTube: https://youtu.be/cCoRJdXBwCM ]

Ricordando James Joyce a 131 anni dalla nascita attraverso il suo capolavoro ‘Ulisse’

Il 2/2 del ’22, il 2222, fu una specie di esplosione verbale di cui s’ode ancora l’impeto, imperiale: nessuno, da lì in poi, può prescindere dal “super-romanzo” di James Joyce, per sottomissione o ribellione. Una storia dell’influenza di Ulisse nella letteratura occidentale del Novecento finisce grosso modo per coincidere con la letteratura occidentale del Novecento: T.S. Eliot – pur usandolo per tirare il carro alla propria estetica – aveva capito tutto, “Usando il mito e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”; seguiva, per capirci, il paragone con “le scoperte di un Einstein”. Insomma, il ‘metodo’ di Joyce era equivalente alla teoria della relatività generale di Einstein (che nel 1921 aveva ricevuto il Nobel per la fisica).

Da allora, nulla sarebbe stato più come prima. Virginia Woolf legge Ulisse irritandosi – “Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario” –, Ezra Pound lo esalta esalando urla: “Tutti gli uomini dovrebbero «unirsi per elogiare Ulisse»; chi non lo farà potrà accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori; non voglio dire che tutti debbano elogiarlo a partire dallo stesso punto di vista, ma tutti i seri uomini di lettere, che ne scrivano o meno una critica, dovranno di certo concepirne una per loro uso e consumo”. William Faulkner, dopo una gita tra bordelli italiani vari, atterra a Parigi, nel ’25, e sogna di vedere Joyce dalla vetrata di un cafè, in Place de l’Odéon: la lezione di Ulisse gli è necessaria per giungere a L’urlo e il furore.

Nel 1932, per onorare i cinquant’anni di JJ, Hermann Broch, a Vienna, dà lettura del suo saggio, James Joyce und die Gegenwart (poi pubblicato nel 1936; in Italia è uscito come James Joyce nel 1983, da Editori Riuniti): lo stesso editore tedesco dell’Ulisse pubblicherà il capolavoro di Broch, La morte di Virgilio, che usa, a modo suo, il ‘metodo’ di Joyce. L’Ulisse è testo assoluto e seminale: inimitabile, ha mutato le geografie fino ad allora sperimentate dal genere romanzo; una specie di rivoluzione quantistica. Ne Il gioco degli occhi, Elias Canetti racconta quando ha incontrato Joyce, a Zurigo, nel 1935: fu una fuga nel frainteso. Canetti aveva letto, in pubblico, la sua Commedia della vanità, di cui Joyce aveva recepito solo alcuni frammenti. “Nell’intervallo fui presentato a Joyce”, scrive Canetti, “il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: ‘Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!’”. Nella Commedia si accennava agli specchi, al loro inesorabile enigma, ma quella di Joyce pare una frase che nasconda un cabbalista, dai sensi irritati e sovrapposti. Spesso i biografi ricordano che dopo aver pubblicato Ulisse, Joyce subì “nuovi disturbi agli occhi”, quasi che vi fosse una coincidenza tra scrittura e cecità.

“Leggere l’Ulisse,” opera realistica e burlesca al tempo stesso, come scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva, “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”. Solo immergendosi senza riserve nella scrittura il lettore potrà uscirne davvero, alla fine, inondato di tutta la luce che questo romanzo concentra in sé.

Ciò che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma si ha sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert si hanno banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non si hanno soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese.

“Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro” J. Joyce

Mr Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno.

Il tema principale del capolavoro di Joyce va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse.

 

https://www.pangea.news/joyce-ulisse-anniversario/

‘Gli occhi di Nausicaa’, la silloge junghiana di Marina Cherubini

Marina Cheubini è nata a Brescia il 6 agosto 1988. Dopo la maturità scientifica si è laureata in “scienze filosofiche”.  Nel 2013 ha  scritto la  prima raccolta di poesie: “Componiti, Mistero”,  vincitrice della XXXIV edizione del  Premio “Letteratura”, attribuitole dall’Istituto Italiano di Cultura di Napoli. Ecco ora  questa sua seconda silloge, “Gli occhi di Nausicaa”, edita da QuiEdit.

In questa sua ultima raccolta si possono trovare molti componimenti pregnanti e di ottima fattura. Estetica e mitologia vanno a braccetto con sobrietà e senso della misura. Una ricerca poetica di questo tipo sottende una lettura ben digerita ed assimilata di Jung: significa far parlare gli archetipi e l’inconscio collettivo, ricercare il proprio Sé, cercare di compiere il proprio percorso di individuazione.

Con ponderatezza sceglie la via del prerazionale, ma lo fa, per l’appunto, con circospezione e prudenza, senza gettarsi a capofitto nei meandri dell’ignoto: la sua coscienza è sempre vigile. L’autrice si situa poeticamente in una posizione intermedia tra interno ed esterno, anche se il suo viaggio deve intendersi innanzitutto come esistenziale ed interiore. In questa sua ricerca è tutta tesa all’essenziale, i suoi versi non tracimano né strabordano mai.

L’autrice Marina Cherubini

Va sottolineata ne Gli occhi di Nausicaa, anche l’ironia e il divertissement, che caratterizzano questa opera: se la mitologia ne è il pilastro, l’ironia ne è il substrato; in ogni modo sia le fondamenta che la struttura di questo libro sono benfatte e solide. Le basi, come si suol dire, ci sono. La poetessa non ricerca l’empatia e non esprime nella pagina il suo disagio.

La priorità dell’autrice non è assolutamente quella di persuadere, stupire il lettore. Non ammicca mai né c’è traccia nei suoi scritti di compiacimento. Il suo è un isolamento, che non conduce alla solitudine, ma al raccoglimento, alla contemplazione disinteressata. Il fine ultimo non è quello di impressionare né quello di fare in modo che il lettore si immedesimi. Non fa leva su una presunta sensibilità spiccata, come fanno in molti.

Ne Gli occhi di Nausicaa non si assumono pose. Non si parla della propria condizione psicologica, sociale, esistenziale. La soggettività della raccolta poetica trascende i puri dati biografici. L’autrice non vuole che il lettore si identifichi in quello che scrive, probabilmente. Vuole ascoltare la vera musica del mondo, togliendo i rumori assordanti che la disturbano. Vuole far riaffiorare la parte più atavica ed ancestrale di sé stessa, indipendentemente dalla partecipazione del lettore.

Per perseguire questo obiettivo non tratta dell’idea della morte, non fruga nei ricordi, non si cala nella dimensione del futuro. Ci sono essenzialmente l’eterno presente, sé stessa e gli archetipi. Tutto ciò è un atto di onestà intellettuale. La poetessa utilizza come filtro la mitologia, che si interpone e media tra lei ed il lettore, senza mai mettersi totalmente a nudo interiormente.

Le sue non sono effemeridi. Chi cerca una scrittura confessionale la trovi altrove. Infatti sconfina dall’io, scende nei più profondi scantinati, che non sono quelli dell’inconscio freudiano, ma quelli dell’inconscio collettivo. La poetessa trova in Nausicaa, principessa dei Feaci, il suo archetipo: in fondo è lei stessa ad aiutare Ulisse, l’ospite, lo straniero, in una parola sola l’Altro. Ma oltre al piano mitologico c’è quello più prettamente esperienziale perché la  poetessa cerca anche  il rispecchiamento tra realtà e mondo interiore.

Ne Gli occhi di Nausicaa il paesaggio non è mai definito. Ma cosa importa delineare con esattezza un luogo preciso? Un luogo o nessun luogo è l’identità stessa cosa ai fini del suo discorso.

Il luogo è un luogo dell’anima. Fondamentale piuttosto è la correlazione tra il mondo e le sensazioni, tra la realtà esterna e gli stati d’animo, anche se letterariamente il paesaggio non si concretizza e non è facilmente riconoscibile.

Fondamentale è l’ipostatizzazione della parte più profonda di sé, attraverso l’auscultazione dei moti del suo animo e lo scavo interiore. L’armonia col mondo, la completa conciliazione con esso è cosa ardua da trovare, anche per gli esseri più spirituali. La Cherubini si pone comunque ad un livello ulteriore di conoscenza e di approfondimento della realtà.

Gli occhi di Nausicaa, sebbene supportata da una poetica e da certi riferimenti culturali, è leggibile e comprensibile a tutti e questo a mio avviso è un pregio non di poco conto in un periodo in cui le citazioni colte, i richiami intertestuali e gli intellettualismi si sprecano.

Va detto, ad onor del vero, che spesso molti poeti contemporanei mischiano l’immischiabile, fanno delle misture improponibili, cercano nei modi più inverosimili di dare forma all’informe. È un poco come cercare di conciliare l’inconciliabile, come versare nello stesso bicchiere il latte con la birra.

Secondo un vecchio assunto della psicologia il tutto è superiore alla somma delle parti. Ma si potrebbe anche dire che il tutto è la sintesi delle parti.

Invece con Gli occhi di Nausicaa, la poetessa non si cimenta in arditi esperimenti poetici e trovo che sia meritevole per il fatto di non eccedere né strafare mai. Il componimento che mi è piaciuto di più, ma ciò dipende anche dal gusto personale naturalmente, è “Good morning” perché la Cherubini nella notte intravede l’Ombra e l’attraversa definitivamente:

Notte sbadiglio, notte schiamazzo, a

richiamarti fuori sul terrazzo,

guardando alla luna come alla

notte il sole; notte corazza,

coperta di stuole, notte profeta,

sarà ciò che vuole;

del nostro mattino nessuno ha certezze,

o forse un profumo e del sonno carezze.

Sentire la Notte desueta meschina,

sentirla covare e tornare mattina,

aprire la bocca per dire qualcosa,

e riporla in fretta, profumo di rosa.

La Pagina notte s’è aperta e s’è chiusa,

corazza di stelle e spada disusa;

ormai è finito il tuo canto incantato,

sottratto alle vesti del tuo muro innato;

la luce ci prende solenne

e risveglia: lo sguardo la sente e la luna farfuglia.

Giocano gli occhi a rispondere al cenno

e le finestre sbattono: si stanno aprendo.

 

L’autrice in estrema sintesi è ben consapevole che la letteratura europea non potrà più essere mitopoietica, ma questa sua operazione di ritornare al mondo greco è, oggi come oggi, originale. E poi perché cercare un discrimine tra avanguardia e tradizione? Bisogna guardare soprattutto alla bontà dell’opera ed a mio avviso in questa raccolta c’è semplicemente del buono.

 

Di Davide Morelli

‘Taranta d’inchiostro’ di Valeria Serofilli, in anteprima il saggio critico di Floriano Romboli alla raccolta poetica

Proponiamo in anteprima il saggio critico del Prof. Floriano Romboli dell’Università di Pisa alla nuova raccolta poetica di Valeria Serofilli, Taranta d’inchiostro, che uscirà il prossimo maggio per Oèdipus editore.

Il vario e sofferto lavoro del ragno

La più recente raccolta di versi di Valeria Serofilli, Taranta d’inchiostro, è contraddistinta da un notevole equilibrio formale-stilistico e dall’indubbia coesione strutturale dei testi.

Con interessante perizia ordinativa l’autrice premette infatti alle cinque sezioni di cui consta la silloge una lirica, intitolata L’architetto, dalla palese funzione introduttiva e tematicamente focalizzante, ove è facile rilevare la centralità della figura del ragno quale referente primario di un suggestivo campo associativo che connette la tessitura dell’insetto industrioso (“Tesseva un filo in più il ragno”) all’attività del poeta, alla sua ricerca etico-estetica (“Come aggiungesse da poeta un altro verso”), nell’allargamento prospettico di chi intende elaborare le esperienze particolari allo scopo di enuclearne i significati più generali e profondi in vista dell’acquisizione di una sintesi superiore animata da uno spirito metafisico:

Entrambi mattoni dell’universo
al cospetto
dell’unico Architetto/ il più alto Maestro

Tale scansione problematica risulta indicativa – nel suo efficace risvolto prolettico – dei motivi fondamentali e dei tratti ideativi del libro, dominato dal ricorrere di situazioni contraddittorie e unificato, dal punto di vista compositivo, dalle antitesi, tra cui quella essenziale fra libertà e predeterminazione, fra consapevole iniziativa individuale e sorte impersonale misteriosamente disposta “dall’alto”, peraltro preparata dall’exergo faulkneriano:

Quando
un filo si staccò dal complicato ordito:
o tutto già era stato scritto
tutto previsto?

A questi versi conclusivi del componimento incipitario giova aggiungerne altri compresi nella sezione ultima, a conferma di una obiettiva costanza tematica (“Chi sa dall’alto che risate/ nel vederci imbrigliati in ragnatele/ tessute in ancedenza/ in / nostra assenza”, Chissà dall’alto che risate, in Fuori della tela), che non implica però la rinuncia amara e nichilistica all’ardore vitale, a forme anche intense di coinvolgimento istintivo ed emozionale valorizzato e contrario nella paronomasia:

Il rischio è di sopire il tuo sapore
Non mi conviene/ penso
mentre piuttosto alimento
ardore con ardore (Ti ha morso la tarantola?, in La taranta, corsivi miei)

Il ragno ha in sé l’ambiguità costitutiva dell’animaletto che tesse la sua tela con ostinata razionalità, e costruisce rigorose sequenze conoscitive (“Ingombrante scaleo/ di sapienza cui/ ogni gradino ha acuito conoscenza”, Conoscenza, in La taranta, corsivo mio), solide catene intellettuali e memoriali (“Bulbo di memoria/ la conoscenza cresce ad oltranza”, in Vecchiezza, ivi, corsivi miei; e “Un altro pianeta sopra le nuvole/ ragnatela di neuroni/ Come se tutti segregassero in alto/ i propri pensieri/ i più pesanti/ anche se i più bianchi (…) Teoria delle onde in cielo/ ove l’ala non spezza il ricordo/ ché troppo saldo è il legame a terra”, Ragnatela di neuroni (L’amato gomitolo), in Ragnatela del mondo, corsivi miei); ma è pure abile predatore e soprattutto il suo morso può, secondo la leggenda, scatenare l’invasamento amoroso, la passione sensuale incontrollabile e tormentosa:

Forse che
sono io il ragno
a misurare le distanze
tra dune di sabbia
ormai tarantata in notti senza sonno ( Io ragno, in La taranta, cors. mio)

La trama del ragno avviluppa, lega, vincola nella stabilità del rapporto affettivo, mentre la “pizzica” sconvolgente, l’eros elettrico ed esplosivo (“E’ che/ quando stiamo insieme/ le stelle le abbiamo dentro/ Quell’elettricità latente/ che la mente accende/ e ti incendia il cuore/ Amore che si espande e ti acquieta/ stella luminosa di passione”, Notte di San Lorenzo (10 agosto 2017), in Fuori della tela) inducono insofferenza delle consuetudini relazionali, finanche in Penelope, raffigurazione archetipica della fedeltà paziente e incrollabile:

Stufa di tessere, gettò via
il suo fuso/ prima pungendosi
e mentre una goccia del suo sangue/ irradiava
l’intera trama per farne rosso arcobaleno… (Taranta Penelope, in La taranta)

A parti rovesciate il suo sposo Ulisse – altro archetipo potente e prestigioso – afferma invece il valore irrinunciabile e corroborante del legame d’amore (“Io non ho mai dubitato di noi nemmeno un attimo/ pur se mille sirene ad attirarmi/ a inabissarmi/ barbate, la prua (…) O mia Regina, mi sento solo/ pur tra mille orpelli/ Sei tu/ corpo e spirito/ la mia sola Festa/ il mio definitivo attracco”, Ulisse. Nell’onda una luce, in Ragnatela del mondo), nell’àmbito di un discorso sapientemente innervato da correlazioni antitetiche:

Quante volte/ ogni nuovo giorno, all’albeggiare
ho benedetto, maledetto il mare
per il sapore di avventura
e la sventura
l’ansia di scoperta e l’ansimare (ibidem, corsivi miei )

E le polarità si susseguono incalzanti – giustificazione/insensatezza, perspicuità/mistero, felicità/ dolore, vita/morte –, come agevolmente può verificare ogni lettore attento, sulla falsariga dell’acuta osservazione del post-fatore Antonio Spagnuolo, secondo il quale in questi testi “anche se il sapere si approfondisce e si differenzia secondo gli schemi inarrestabili della contemporaneità, la poesia insegue le diversificazioni della conquista del segno e della parola”.

Per Valeria Serofilli la ricchezza dell’esperienza umana si concretizza altresì nella varietà cromatica, a cui il motivo di una viva solidarietà sociale e morale-psicologica conferisce adeguata densità semantica (“Al risveglio cerco i colori/ in fondo all’anima:/ il rosso di tutto l’amore/ il bianco/ il manto del mio gatto (…) il verde/ corse sfrenate da bambina/ il giallo/ capelli della mia prima/ bambola di pezza (…) Al risveglio i colori/ Poi penso: quali trova nel cuore/ una bambina somala?/ Il rosso/ sangue di violenza/ il bianco della neve mai vista (…) il giallo dei capelli/ bambola mai avuta…”, Cerco i colori, in Ragnatela del mondo); e il suo linguaggio appare essenziale e raffinato, nel gioco studiato e musicale delle rime e delle riprese iterative, come nella poesia non per caso posta al termine dell’opera, poiché in essa l’inizio e la fine della vicenda esistenziale si richiamano e si presuppongono, e i vincoli sentimentali e ideali si rinsaldano:

Saremo tutti luce comunque
quando l’alba ci chiamerà al tramonto
E la luce rischiarerà il tuo corpo
a me di spalle (…)
Sarà allora che s’intrecceranno per sempre
le nostre mani
a nodo imprescindibile d’amore
Quando luce ne suggellerà il calore:
unica forza condensata in esplosione (Quando l’alba ci chiamerà al tramonto, in Fuori della tela, corsivi miei)

“Ulisse”: l’epica rovesciata di James Joyce

James Joyce  inizia a sviluppare l’idea per il suo Ulisse ( pubblicato nel 1922) nel 1914. Inizialmente l’Ulisse venne concepito come una novella da aggiungere alle quattordici scelte per il volume Gente di Dublino, il testo fu considerato, infatti,  “una novella non scritta”. La storia è quella dell’incontro di un gruppo di persone che avviene nell’arco di una giornata (precisamente dalle otto del mattino alle 2 di notte del 16 Aprile 1904) e che, da quel momento in poi, vedranno le loro vite intersecarsi.  Tra i  protagonisti : Leopold Bloom, uomo medio, eroe che sbaglia (la sua storia è in sostanza quella dell’eroe dell’ Odissea), incapace ad instaurare rapporti umani,  Stephen Dedalus,   più idealista e alla ricerca di valori spirituali  ma che, come Bloom, non riesce a raggiungere i suoi obiettivi ed, infine,  Molly,  la rappresentazione della natura femminile in tutta la sua essenza. I primi due, nella loro ansiosa ricerca,  non sono altro che incubo, mentre Molly, al contrario, emerge come la figura più risolutiva, colei che trasforma l’incubo in estasi.  Le esperienze di questi personaggi ci arrivano attraverso i loro monologhi interiori,  o meglio quello che è definito, in letteratura,  flusso di coscienza che in realtà è stato inventato da Tolstoj con Anna Karenina.

Joyce sceglie Dublino perché rappresenta la città in cui  la morale cattolica si è ormai cristallizzata, gli stessi abitanti sono fermi, non conducono una vita autentica e sono letteralmente oppressi dalla religione e dal nazionalismo. Joyce respinge tutto ciò, scelta che, come vedremo, lo condurrà a trascorrere molti dei suoi anni in  esilio.

Ulisse, nel romanzo di Joyce è l’eroe che sbaglia, non ha patria e si tiene lontano da certe sovrastrutture. Proprio come Ulisse che peregrina per terre e mari lontani, così l’ eroe che viene fuori da questo romanzo trascorre le sue intere giornate per le strade ed i bar della città. Attraverso la lettura di questo romanzo,  potremmo azzardare un’analisi della figura umana, oltre che delle dinamiche e dei riti quotidiani che, nello specifico, la riguardano. La ricerca del padre, la ricerca del figlio e l’esilio sono alla base di una ricerca più grande che investe l’uomo nella sua integrità fisica e, per questo, temi inevitabilmente ricorrenti. Potremmo azzardare che dietro ogni personaggio, si celi  l’autore stesso che,  diventato più maturo, riesce a vedere se stesso da lontano, come un ‘estraneo’.

Joyce adotta uno stile schematico, rivisitato più volte. Quello che ci è giunto prevede una disposizione ternaria  e schematica ( lo Schema Linati).  Tecnicamente,  l’autore divide il libro in 18 episodi cercando di seguire l’ordine delle avventure che compaiono nell’Odissea. Questa varietà di tecniche narrative, la continua parodia e la confusione degli stili adottati, la percezione che ha l’autore dell’umanità rendono questo romanzo “vitale”, “contemporaneo” e, sicuramente, una delle opere più rivoluzionarie della letteratura mondiale.

Si è provato a recensire questo libro straordinariamente ipnotico, ma l’Ulisse non è un romanzo, piuttosto un’opera letteraria a sé e sarebbe velleitario cercare di trovare il pelo nell’uovo quando in realtà non si è capito nulla della letteratura/ non letteratura di Joyce, troppo facile dire: “non fa capire nulla”, “è contorto”, “è noioso” e via dicendo…Semmai si potrebbe e dovrebbe ragionare di più sul perché lo scrittore irlandese attua questo rovesciamento, perché fa la parodia della letteratura stessa (oltre che la religione), giocando con le parole e mettendo in atto tutti i tipi di scrittura possibili. Ha voluto dimostrare  deliberatamente che la letteratura moderna è questo oppure l’ Ulisse è lo specchio della sua nevrosi, dando quindi inizio alla rivoluzione che è contemporaneamente stilistica, paesaggistica ( sono percepibili i sospiri della sua Irlanda, come se Joyce avesse piazzato una webcam su quel microcosmo) linguistica, ottica ( il tempo che impieghiamo a leggere il libro è più lento rispetto all’azione della narrazione stessa, a differenza di altri romanzi, compreso Anna Karenina), inconsapevolmente., ma come se fosse un invito all’accettazione del disordine. Se fosse un film sarebbe sicuramente diretto da Robert Altman.

Imperdibile ma non immediato.

James Joyce: sperimentatore introspettivo

James Joyce (nome completo James Augustine Aloysius Joyce) nasce a Dublino nel 1882, in una numerosa quanto conformista famiglia benestante, caratterizzata da un cattolicesimo imperante e da un rapido, ineluttabile declino economico.

Nonostante le sopraggiunte difficoltà monetarie e l’alcolismo del padre, al giovane Joyce non manca mai (anche per suoi meriti accademici) la possibilità di ricevere un’educazione e un’istruzione di altissimo livello.

Bambino prodigio, ad appena 9 anni James Joyce compone il suo primo pamphlet, invettiva decisa e ispirata (probabilmente dalle idee politiche del padre) nei confronti di un noto leader nazionalista, accusato di aver abbandonato la causa in un momento di forte difficoltà.

Durante gli anni universitari (nei quali si dedica soprattutto allo studio delle lingue, in particolare francese, italiano e inglese), Joyce sviluppa un deciso anticonformismo e un fermo anticlericalismo (in risposta all’ambiente familiare), oltre a radicalizzare una profonda ostilità verso il provincialismo (soprattutto culturale) di un’Irlanda comunque costantemente presente nei suoi scritti, seppur sovente in tono di polemica e disappunto.

L’esordio nella scrittura è considerato Chamber music (1907), raccolta di poesie dalla quale si evince una spiccata sensibilità musicale che gli procurerà l’apprezzamento di Ezra Poud.

Pur non essendo particolarmente copiosa, la sua produzione artistica influenzerà la cultura dell’epoca e ancor più quella futura, crescendo di pari passo con lo sviluppo delle nascenti tecniche psicanalitiche (complice la schizofrenia galoppante di sua figlia Lucia e il conseguente incontro con C. J. Jung).

James Joyce cerca la forma espressiva più confacente all’anelito di rinnovamento che si respira in quegli anni di rivalsa culturale, e sente di dover scandagliare l’animo umano alla ricerca di un diverso tenore d’analisi, improntato a processi mentali prima inesplorati. Aderisce sempre più alla corrente modernista (forse la inizia, certamente la rafforza), ne condivide l’esigenza intimista, talvolta oscura ma anche per questo seduttiva. Le tecniche espressive si modificano, performandosi alle esigenze narrative e diventando sempre più fluide e descrittive. Il flusso di coscienza vive di flash back, si nutre di metafore e similitudini, si genera in storie incastonate in altre storie, ripropone un divenire di idee, pensieri, ricordi ed emozioni avulse dal rispetto di un ordine grammaticale, sintattico e interpuntivo precostituito e rispettato. Tutto è caos nella memoria umana, e resta tale nel racconto di questo flusso inarrestabile.

Gente di Dublino (1914) è una raccolta di quindici brevi racconti (il primo, “The sisters”, precedentemente pubblicato sotto lo pseudonimo di Stephen Daedalus) che costituisce un realistico spaccato della realtà dublinese dalla quale Joyce non riesce a staccarsi mai del tutto. Lavora adesso come insegnante d’inglese a Trieste, ed è appena diventato padre, versando in condizioni economiche ancor più critiche; nonostante ciò, alla richiesta dell’editore londinese di operare tagli e modifiche sull’opera per scongiurare il rischio di censura, risponde con il ritiro immediato del manoscritto, ritenendolo evidentemente destinato ad altri tempi. C’è nei racconti una Dublino immobile, statica, quasi quiescente, che incatena i suoi abitanti a una serie di retropensieri da cui non tutti hanno la forza di liberarsi. Quasi nessuno, in verità. Unica speranza per farlo è la fuga. E qui compaiono i primi tratti caratteristici dell’autore dell’intimo, e si affacciano alla sua mente quelle epifanie che contraddistingueranno la sua scrittura successiva. Fulminee rivelazioni, questi espedienti narrativi focalizzano l’attenzione su una consapevolezza spirituale acquisita per caso, attraverso la pratica di un gesto in apparenza privo di significato ma praticato in un momento di grande crisi emotiva. Tutti i protagonisti del romanzo vivono l’epifania e dunque la consapevolezza della propria condizione, ma nessuno riesce a staccarsene e il fallimento delle interconnessioni umane diviene inevitabile. Le cose cambiano, irrimediabilmente, e il soggetto riesce a vedere la realtà con una lente d’ingrandimento prima preclusa al suo sguardo. Il flusso di coscienza è quasi predittivo, e si concretizza nell’uso del discorso indiretto libero, sempre più estremizzato (quasi esasperato), fin quasi a rendere difficoltosa la lettura di alcuni passi. Il narratore non s’intromette mai, e il registro linguistico ben si confà a età, condizione sociale e grado culturale dei parlanti.

Ritratto dell’artista da giovane (noto come Dedalus in alcune traduzioni italiane – pregevole quella di Cesare Pavese – del 1916) ed Esuli (suo unico dramma, che risale al 1917) rappresentano delle manifestazioni “primitive” ma longeve dell’ardimento letterario di Joyce e dei suoi profondi moti di ribellione attraverso l’uso dei conflitti. Il personaggio dell’autobiografico Ritratto, Stephen Dedalus, verrà per esempio riesumato nell’Ulisse.

Ed eccolo l’Ulisse (pubblicato nel 1922), scritto quando lo James Joyce ha già raggiunto una maturità espressiva e contenutistica fuori dal comune. Il testo consta di 18 capitoli, ciascun capitolo destinato al racconto di un particolare periodo della giornata, cui si associano anche un colore, una scienza e una parte del corpo. Ambientato nella sua Dublino, è il racconto di una vita intera cristallizzato in una sola giornata. Nonostante la lunga gestazione creativa (quasi un decennio) il romanzo registra una sola giornata di vita (sceglie una data a lui cara: il 16 giugno, giorno in cui conosce la moglie Nora) di un uomo comune, l’eroe moderno Leopold Bloom. Il parallelismo con l’epicità anche strutturale dell’Odissea omerica si ritrova nell’apparente normalità di un uomo che con pacato, eroico coraggio affronta la sua quotidianità in una metropoli moderna, ricca di insidie e imprevisti capaci di consumare, silenziosamente, un uomo che neanche nella propria intimità casalinga è certo di trovare un porto sicuro. L’inquietudine e le perplessità del protagonista e degli altri personaggi vengono raccontati come da un nastro registrato, senza l’aggiunta di alcuna spiegazione accessoria. Joyce è autore silenzioso, equidistante, oggettivo. Senza la sua compartecipazione emotiva i pensieri scorrono liberamente e il lettore diventa spettatore di un’intimità nella storia dei protagonisti che si dipana senza sosta, e di cui inevitabilmente si entra a far parte. Segni particolari sono la successione spesso illogica o sconnessa delle frasi, la ridondanza (assenza di fantasia lessicale realistica nel suo essere istintiva, tipica di un parlato immediato) di alcune frasi o espressioni,  la notevole carenza di punteggiatura. Il monologo interiore non risparmia che pochi corpuscoli di vita; per il resto, le caleidoscopiche visioni delle coscienze che attraversano le strade di una interscambiabile Dublino raccontano delle lesioni di una quotidianità perturbante.

Finnegans wake (“Frammenti scelti”, 1939) è il suo ultimo romanzo, definito dallo stesso autore “L’ultimo delirio della letteratura prima della sua estinzione”. Disintegrato il romanzo tradizionale, resta ritmo e musicalità in quest’opera non sempre accessibile dal punto di vista della comprensibilità, a causa dell’avvicendamento di elementi onirici, mitologici, fantastici, religiosi, simbolici e umani, associati da leggi soggettive e personali che non rispondono ad alcuna logica precostituita.

Nel 1947 viene pubblicata postuma un’opera profondamente autobiografica ma ritenuta poco interessante dagli editori. Data alle fiamme, verrà parzialmente salvata dalla moglie, cosa che ne consentirà la pubblicazione col titolo Stephen Hero.

Dopo aver decretato la morte del romanzo tradizionalmente inteso sarà James Joyce stesso a morire, quasi cieco, nel 1941. Lascerà però al mondo una nuova identità letteraria, eredità impagabile e preziosa di un uomo che ha ricostruito una mentalità.

James Joyce è come il suo Leopold Bloom, maniacale, sfuggente ed ambiguo, sperimentatore introspettivo, lontano dai fatti e dalla politica del suo tempo, come dal  cattolicesimo,la cui dottrina è inconciliabile con la natura dello scrittore:

«Quando un’anima nasce, le vengono gettate delle reti per impedire che fugga. Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti. »

Tuttavia il moderno Joyce  pur opponendosi ai dettami della Chiesa cattolica, dentro di se ha sempre rivendicato l’appartenenza a quella tradizione.

 

 

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