Virilità, ‘oltre il maschio debole’

Prima ancora di diventare cavia per la scienza, punturina performante per qualche film porno inglese, oggetto d’antiquariato fascista su qualche bancarella sul lungomare estivo di Cattolica od ossessione per qualche collettivo femminista, la virilità appare tipo la Madonna, come manifestazione d’origine: nudità dell’uomo innanzi a sé stesso. È forza fisica che si accompagna alla compattezza intellettuale – nel ricordo della Kalokagathia – e alla rettitudine morale – un padre che si fa esempio per manifestarsi al figlio – è la prosperità e la morte, la guerra e la fertilità, il mondo selvaggio di Ercole che doma il leone e di San Michele Arcangelo che azzitta il demonio sotto i suoi calzari: il governo delle forze prorompenti della vita e della natura, così del proprio spirito.

È ancora il fallo che diventa divinità oltre la banalizzazione pornografica, tanto in Giappone, quanto nella mitologia romana con Priapo, poi nuda muscolarità – così come nel 2013 la mascolinità fu intelligentemente raccolta in una potente mostra al d’Orsay , “Masculin/Masculin”, l’universo maschile attraverso l’arte – la punta del fioretto nel duello che fece “giustizia” tra Bontempelli e Ungaretti o il ver sacrum, rito arcaico con cui si fondavano nuove colonie, come anche rinnovata competizione tra maschi, fondamento della virilità, come ben inquadra Jack Donovan nel suo Le vie degli uomini:

“Interagiamo socialmente come membri di un gruppo o dell’altro. Questa ripartizione non è arbitraria o culturale, ma sostanziale e biologica. I maschi non devono limitarsi a comportarsi da maschi con le femmine, ma anche con gli altri maschi […] Le donne pensano di poter rendere gli uomini migliori riducendo la mascolinità a ciò che desiderano da essi. Ovviamente, gli uomini vogliono che le donne li desiderino, ma l’approvazione femminile non è l’unica cosa che gli interessa”.

Oltre il maschio debole

Tra i suoni della fondazione interiore, la virilità rimane certificazione di originalità rispetto alla creatura, sanità strutturale, e diventa arma contro la corruzione del tempo e delle anime. È forza generatrice, individuale, conflittuale, un atto equilibrante che migliora l’uomo perché lo rende capace di esplorare i propri limiti, le proprie fragilità, il dolore, il senso del rifiuto, del fallimento, esistendo in una continua dicotomia di attacco e difesa, coraggio e disperazione; l’esatto contrario della pratica del presente, in cui non v’è dialogo con la sensibilità per l’uomo della folla, universale, senza confine, obbligato a un continuo superamento del limite, per questo incapace di pensarsi e di generare un pensiero critico, di approfondire ciò che vive, perché destinato alla replica, alla produzione, a scambiare la felicità con la soddisfazione della gratificazione istantanea, confondendo i contorni di ogni ruolo per confluire nel calderone dell’emozione di servizio, di uno stato di agitazione emotiva permanente.

Così ci ricorda Roberto Giacomelli nel suo Oltre il maschio debole (Passaggio al Bosco):

“Il maschio debole, deprivato di [queste] forze ancestrali indispensabili alla virilità, è senza difese nei confronti di qualsiasi aggressione. Questa subdola strategia, palese o subliminale, impedisce l’integrazione delle naturali pulsioni aggressive, che non riconosciute ed accettate: essere vengono represse, generando disagio psichico”.

La virilità nell’uomo integro, realmente sovrano di se stesso, dunque, è una forza unificante e non distruttrice, generatrice, che trova traduzione e che, oltre ogni insana lettura ideologica, equilibra le dimensioni interiori, affinché la saggezza e la potenza, il carisma e la forza, l’amore e l’odio, il credere e l’agire, l’aggressività e la pace coesistano in un’efficace declinazione.

Elevazione sopra la paura che non è sfida di tossica mascolinità ma un’acquisizione di consapevolezza rispetto alla propria natura umana, debole e fragile, origine di quel thymos caro a Platone e Aristotele, come ira che smuove il cuore e la mente degli uomini nella ricerca della salvezza che non si può barbaramente confondere con l’aggressività: bestemmie per il mondo del conformismo e della demolizione dei sessi nei mille generi possibili, in cui tutto è ridotto alla freddezza scientifica, di cui ci parla anche Harvey Mansfield nel suo Virilità (in Italia per LiberiLibri):

“Sia la psicologia sociale sia la biologia evoluzionistica, infatti, si occupano soltanto della manifestazione più rozza della virilità, l’aggressività, ignorando del tutto, invece, il fenomeno dell’assertività virile. Un uomo virile si fa valere affinché la giustizia in cui crede non resti inascoltata. Si espone per richiamare l’attenzione su ciò che ritiene importante, talvolta su questioni molto più grandi di lui. Il fatto è che la scienza […] ignora completamente il thumos”, come “qualità dell’animo che spinge in particolare gli uomini virili, a rischiare la vita per salvarsi la vita. Siccome la virilità vive di quel paradosso, deve essere necessariamente più complessa del banale istinto all’aggressione, alla dominazione e all’autoconservazione a cui la scienza cerca sempre più di ridurla […]”.

Nel perfetto bilanciamento delle condizioni evocate esiste la virilità. L’istinto del maschio a dominare e dominarsi, proteggere e non soffocare, affrontare e non umiliare, se stesso e il sesso opposto, è orientato da una “morale del Bene” che punta alla generazione della felicità e della realizzazione per mezzo di valori e principi portanti, come l’onore e il rispetto, la diplomazia e la forza, l’onestà e la pietà – insieme ad altri – oggi vissuti come pericoloso retaggio limitante il progresso antropologico nel mondo dell’indistinto. Gli uomini, dunque, ritrovino la “disponibilità a sudare e sanguinare” (Jack Donovan) perché combattere, come ci ricorda Sam Sheridan, non è tanto una superficiale “prova di virilità”, bensì qualcosa che ha a che fare con la conoscenza di sé (…)”

 

Maturità 2024. Per alcuni studenti comunisti Pirandello e Ungaretti sono propaganda fascista

Qualche settimana fa sono cominciate le prove per gli esami della Maturità 2024, tra le polemiche dei soliti che si dichiarano antifascisti da quando al governo c’è il centro-destra. Vedere giovani che inneggiano ai regimi comunisti più duri, nostalgici dei terroristi degli Anni di Piombo o dello stalinismo mentre vivono comodamente nel capitalismo fa sempre sorridere per non piangere. I gruppi Cambiare Rotta e Osa rappresentano le aggregazioni giovanili di Potere al Popolo e della Rete dei comunisti italiani, animatori delle proteste di piazza pro-Palestina e in difesa dell’ambiente tra un imbrattamento ad un monumento e scontri con la polizia, hanno deciso, dall’alto della loro sapienza che anche le tracce d’esame assegnate sono motivo di lotta, perché secondi loro, sarebbero propagandistiche.

Ungaretti e Pirandello tra le tracce d’esame: vade retro fascista!

Dunque la traccia di Giuseppe Ungaretti sula brutalità della Prima guerra mondiale è propaganda perché i “governi occidentali e il nostro ci portano nella nuova guerra mondiale, mandiamo armi e mezzi militari in Ucraina e Yemen, la Lega (di cui fa parte Valditara) propone la reintroduzione della leva militare per i giovani dai 18 ai 26 anni“. A proposito dei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, opera di Luigi Pirandello in cui lo scrittore svolge, disallineandosi dallo spirito positivista dei tempi, una sua polemica contro la macchina, colpevole, ai suoi occhi, di mercificare la vita e la natura, i rappresentanti di Osa hanno delirato: “Gli studenti sono mandati a morire in Alternanza e i tecnici e professionali sono stati fatti diventare delle appendici delle aziende”, scrivono i rappresentanti di Osa.

Ungaretti e Pirandello furono fascisti, ma non per questo non devono essere studiati e bannati alla maturità. Se gli studenti che gridano alla propaganda avessero studiato senza la lente della bieca ideologia di oggi il fascismo, ma soprattutto se lo avessero fatto prima i loro insegnanti, avrebbero compreso che i primi simpatizzanti del fascismo furono in realtà gli stessi antifascisti, come scrisse Longanesi nel suo celebre “In piedi e seduti”, e che certamente ci fu molto opportunismo come nell’adesione compatta dei professori universitari. Ciononostante le motivazioni degli intellettuali fascisti furono complesse e l’opportunismo non fu l’unica tra queste.

Rinfacciare a scrittori e scienziati l’adesione al PNF oggi, è da ignoranti livorosi che non hanno elaborato un pensiero maturo e libero, pensando di poter cancellare un pezzo di cultura italiana barricandosi nell’antifascismo. Nani disperati che vogliono mettere all’indice i giganti.

Tuttavia è bene ricordare che Ungaretti rimase legato al regime almeno fino all’annuncio dell’Armistizio con gli Alleati nel settembre 1943 e che l’ammirazione per Mussolini non impedì al poeta di solidarizzare con scrittori antifascisti ed ebrei in difficoltà. Con questo stesso approccio, nel dopoguerra, Ungaretti si avvicinò poi alla Democrazia Cristiana chiedendo – proprio come aveva fatto con Mussolini– attenzione per sé e per tanti artisti da lui apprezzati. Ungaretti non fu un servo del fascismo come tanti che poi si proclamarono antifascisti a Duce morto.

Per quanto riguarda Pirandello, gli studenti indignati, dovrebbero sapere che il grande autore siciliano, era contrario a un’arte fascista, in aperto dissenso con Mussolini. Questa clamorosa difesa della libertà dell’arte, contenuta in una ignorata intervista del 1927, restituisce dignità al ritratto consegnato da Sciascia di un Pirandello debole e opportunista sebbene speranzosi di ricevere supporto per il suo teatro. Pirandello aveva subordinato l’adesione al Partito fascista alla condizione che il suo nome fosse escluso dalla lista dei senatori, proprio per evitare che il suo gesto potesse apparire interessato.

Profetiche le parole Giuseppe Berto, altro scrittore del ‘900 dimenticato: <<Per gli antifascisti, infatti, avere qualsiasi forma di colloquio con qualcuno diverso da loro è segno di fascismo>>.

 

“Naufragi di paesaggi interni. Frammenti”. La raccolta poetica intimista di Andrea Ravazzini

“Naufragi di paesaggi interni. Frammenti” (Sigem, 2023) è la silloge poetica di Andrea Ravazzini che raccoglie in ordine cronologico una selezione di componimenti poetici, in versi liberi, composti ed elaborati dall’autore nel corso di un lungo periodo di tempo compreso tra il 1997 e il 2022.

Le influenze più significative che hanno improntato in modo preponderante l’evoluzione dello stile di composizione dei frammenti e dei componimenti derivano dalla lettura di classici italiani, come Ungaretti e Pavese, di poetesse della corrente confessional (Sexton, Plath), di Pessoa, ma in particolare dalla lettura dell’opera poetica di Antonia Pozzi e di Cristina Campo.

Le poesie raccolte hanno un carattere intimista-ermetico, senza enfasi su prolissità, retorica e tecnicismi eccessivi. Risultano invece tese a valorizzare la singolarità della minima parola nella sua densità di senso e di significato più profondo. Affrontano variate tematiche legate ai sentimenti che costellano il mondo dell’interiorità e ai moti dell’animo umano, tra cui la condizione di gettatezza e di angoscia esistenziale, la tristezza esistenziale, la fiamma della speranza e della vita, il potere della poesia e della parola.

La speranza, la parola, la poesia -che sono doni, quindi che richiedono di stare in attesa affinché possano essere ricevuti e germogliare in frammenti-, vengono lette in termini pozziani come ancore di vita a cui aggrapparsi, poiché donano senso e salvezza.

 Il poeta si misura con l’estremo, con ciò che trascende l’artista, ma il sacrificio sancisce il compito del
nominare, e con esso la salvezza delle cose trasfigurate nell’immagine poetica. Il lavoro poetico viene assunto da Andrea Ravazzini alla maniera di Antonia Pozzi, come compito imprescindibile, cifra della sua stessa moralità. Eppure, la contraddizione tra la vita che la circonda e lo status di poeta al quale si è votata è causa di un irreparabile disagio.
Crepatura
Rivoli polverosi,
sbiaditi,
linee disattese,
maltrattate;
nell’immutabilità del tempo sovrano
s’impone
la marcia lunga e silente;
in frantumi,
si stramazza
nel segno di carne e cuore.
In questa poesia Andrea Ravazzini propone la coincidenza figurativa tra stato d’animo ed elementi terreni, misurandosi con la consapevolezza della propria impotenza di fronte all’illusione di una coesione con il tempo che passa inesorabile.

Indelebilmente posata nel corso di lunghi anni dalle forme mutevoli, la parola viva e lucente ha sorvolato densi paesaggi interiori, maree polifoniche, radure adombrate, in un farsi e disfarsi ininterrotto a cavallo della trama frastagliata in cui si dipana lento, lento, il silente cammino in cui naufraga -di attimo in attimo- il destino fugace del canto del tempo. I frammenti raccolti nel corso di quest’opera ne sono una voce singolare, insatura, che narra una semplice storia contornata da un inizio e da una fine irripetibilmente mai tali, ma adornata di sguardi velati che si librano su ali d’altrove.

Ravazzini invita a riflettere anche sul concetto di attenzione: la poesia infatti è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura.

Emerge una dolorosa quanto antica domanda: fino a che punto l’arte esaspera il disagio esistenziale sofferto da chi non riesce ad accontentarsi della banalità della vita? La poesia di Andrea Ravazzini è una spina del fianco ma necessaria, un dono prezioso di questi tempi in cui la produzione libraria li asseconda, facendo markette piuttosto che lasciare immergere il lettore nella cupa ebbrezza del tempo.

L’autore

Andrea Ravazzini vive tra Modena e Corlo, una frazione del Comune di Formigine (MO). Da sempre appassionato di letteratura, avido lettore e instancabile viandante nel mondo dei libri, lavora per il Centro di Solidarietà di Reggio Emilia Onlus, sul territorio reggiano, nell’area Dipendenze Patologiche, in una struttura residenziale. Ha pubblicato nel 2022 un saggio di tipo psicologico sulle dipendenze patologiche (“Addiction. Attaccamento, disconnessioni e fattori evolutivo-relazionali”, casa editrice Kimerik, Patti) ed è in fase di lavorazione presso la stessa casa editrice in vista di una prossima pubblicazione un saggio sui disturbi alimentari maschili. A livello locale ha collaborato con contributi personali ad alcune opere autoedite dell’artista modenese Gianni Martini.

Sulla solitudine, tra sociologia e letteratura del ‘900. Calvino, Pavese, Pasolini, Beckett, Weil, Camus

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire.

Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: “E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente”.

Solitudine: tra sociologia e letteratura

Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale,  si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come l’inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l’illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.

Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini.

Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel Mantovano e in provincia di Padova è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone.

Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell’antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. “Beata solitudo” dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i  giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer.

Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia,  ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l’io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L’amore innanzitutto,  poi l’amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione.

Amore e solitudine

Tuttavia oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: “Porci con le ali” (anni’70), “Altri libertini” (anni’80)  e “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (anni’90).

Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l’università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni’ 90 in poi si avvertiva che l’unica cosa che accomunava la generazione era l’autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro di Isabella SantacroceRimini”, il primo della serie.

Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l’amore possono imbattersi nell’insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall’impersonalità e l’anaffettività.

Come è difficilissimo avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d’amorosi sensi. L’abbraccio è sconosciuto a molti. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un’iniezione.

I grandi mistici e pensatori

C’è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell’anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio.

Anche per Santa Teresa d’Avila l’auto-perfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione.

Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l’anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante.

Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch’essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l’isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull’interdipendenza degli individui.

Calvino, Pasolini, Beckett

In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest’ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un’ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente.

C’è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine,  come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni hanno espresso questa inadeguatezza.

La società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un’omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch’esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un’illusione effimera e momentanea.

Pavese, Bassani, Camus, Pascoli, Lolli

La propria identità sociale si basa sull’appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch’esso un modo per non sentirsi soli. Sartre ne “La nausea” ci comunica che il mondo, l’esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura personificata dall’autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest’ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione.

Thomas Bernhard ne “L’origine” tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L’unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l’orrore inenarrabile e inesprimibile del lager.

Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma fu proprio “la mania di solitudine”, che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Bassani tratta dell’emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne “Gli occhiali d’oro” determinata dall’omosessualità.

Ne “Lo straniero” di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all’assurdo, che sfugge alla nostra logica.

Anche Moravia portò tutto alle estreme conseguenze con il romanzo “1934″. Il protagonista, un intellettuale vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita.

Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Giuseppe Ungaretti scrisse sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale:

“Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia  con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.

Pascoli si sentiva abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrisse: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è “un coltello sporco puntato alla gola”.  Si possono avere molte amicizie e l’amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c’è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

Claudio Lolli, negli anni Settanta cantava questo brano sul suicidio:

 

“Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quante ore, quante ore che ho passato,

Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,

Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

 

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,

Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.

Quanto amore, quanto amore ho riversato.

Nelle cose più impensate e più banali,

Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

 

Le persone che ho fermato per la strada,

Sinceramente possono testimoniare,

Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,

Ieri, prima di essermi impiccato.

Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …”

 

 

 

Agostino John Sinadino, poeta geniale e sconosciuto

Gian Pietro Lucini, nel suo Ragion poetica e programma del verso libero. Grammatica, ricordi e confidenze per servire alla storia delle lettere contemporanee del 1908, dedica qualche pagina  ad un poeta suo contemporaneo, tanto sconosciuto al tempo quanto oggi. Il suo nome è Agostino John Sinadino, per quanto i suoi scritti compaiano firmati anche come Agostino Giovanni Sinadinò e Agostino John Sinadinò.

Lucini, nelle sue pagine, ne stende una biografia alquanto romanzata e ne elogia  il lavoro in versi, indicandolo come uno degli esempi più felici di libertà e rinnovamento dei canoni stilistici. Queste pagine luciniane sono state per lungo tempo una delle poche tracce del passaggio di Sinadino su questa terra. Si tratta, infatti, di un personaggio sfuggente, la cui opera risulta introvabile sin dalle prime copie, di cui mancano, salvo un caso, ristampe dalle prime edizioni.

Tutto ciò ha contribuito ad adombrare enormemente la fama del poeta, tanto che ancora oggi è sconosciuto non tanto alla massa dei lettori di cultura media, ma anche a una vasta fetta di “addetti ai lavori”. Certo, il mondo della letteratura straripa di poeti dimenticati dalla storia, vuoi per inconsistenza dei versi, vuoi perché troppo legati alle contingenze in cui scrivevano.

Non tutti i tentativi di recupero aggiungono qualcosa al panorama globale della storia della letteratura, rischiando di diventare semplici esercizi di erudizione. Quello di Sinadino, però, è un caso assai particolare, controverso, che merita almeno un poco della nostra attenzione.

Nato al Cairo il 15 febbraio del 1876, Agostino è figlio di un importante banchiere greco, Ioannis Constantin Sinadino, e di una musicista italiana, Carolina Casati. Ioannis era una personalità molto importante nel mondo della finanza, tanto da intrattenere rapporti lavorativi e di amicizia con la famiglia reale d’Egitto.

Per questo, Agostino riceve la sua formazione culturale ad Alessandria d’Egitto, esattamente come altri grandi della letteratura novecentesca nostrana (Marinetti, Ungaretti e Pea). Sin da subito, però, è abituato a viaggiare: Agostino vive la sua giovinezza spostandosi continuamente dall’Egitto all’Italia, con sparute tappe in Grecia, seguendo gli interessi del padre e le esigenze familiari. Questo continuo viaggiare, la formazione ricevuta in una città come Alessandria e la famiglia particolare fanno sì che Agostino riceva una formazione estremamente cosmopolita, testimoniata anche dalle lingue da lui conosciute: oltre all’italiano e il greco, Sinadino parla fluentemente pure il francese e l’inglese, le lingue più diffuse in quel momento in Europa – la prima nel mondo culturale, la seconda nel mondo commerciale, per quanto fosse già da tempo di moda tra gli intellettuali.

Alla morte del padre, avvenuta nel 1890, Agostino si aggiunge, in suo onore, il secondo nome “John”, usando l’inglese, probabilmente, in onore della già citata moda anglofona del tempo. A seguito del tragico evento, la famiglia si stabilisce definitivamente a Milano, luogo di origine della madre, ma Agostino non vuole proprio saperne di mettere radici: nel 1895 torna ad Alessandria, dove si lega ad associazioni culturali del luogo; negli anni successivi, sarà un continuo spostarsi tra Alessandria d’Egitto, Milano e Lugano.

È questo anche un periodo di particolare fervore creativo: nel 1898 pubblica la sua prima silloge ad Alessandria, ovvero Le presenze invisibili, due anni più tardi, La donna dagli specchi a Milano e pure Melodie a Lugano. Sempre a Lugano, nel 1901, Sinadino pubblica il poema intitolato Solennità: La festa. Su quest’ultima opera, è necessario soffermarsi, anche per fornire una panoramica generale dello stile e della poetica di Sinadino.

La festa è considerata dai pochi studiosi di Sinadino l’opera più importante, nonché quella su cui si è creata la “leggenda” di Sinadino. Stampata in cento copie numerate, in carta di lusso (esattamente come tutte le opere di Sinadino), distribuita a pochi “meritevoli” – tra i quali probabilmente Lucini – La festa divenne introvabile già pochi mesi dopo la sua stampa.

Per lunghissimo tempo, l’unica prova dell’esistenza di questo poema ha risieduto nelle note del già citato saggio di Lucini; nei rari ambienti di studio dedicati a Sinadino, La festa, che avrebbe dovuto costituire un esempio importante di sperimentalismo stilistico e linguistico pre-futurista, divenne quasi un oggetto mitologico; qualcuno cominciò pure a sospettare che si trattasse di un’invenzione dello stesso Lucini. Questo, almeno, fin quando nel 2001 – ovvero un secolo esatto dalla sua data di pubblicazione – non è stata recuperata una delle cento copie della Festa.

Sotto l’influenza dell’ultimo Mallarmé, Sinadino crea un poema altamente sperimentale, dove le norme tipografiche – ovvero l’uso di caratteri uniformi, dell’uso uniforme dell’inchiostro nero -, le divisioni tra generi letterari – ovvero tra prosa e poesia – decadono completamente, lasciando piena libertà creativa all’esteta massimo, il poeta. Non è un caso che tutto il prodotto sia riconducibile a Sinadino: non solo il contenuto, ma tutto il volume. È sempre Sinadino, infatti, a scegliere il tipo e il formato della carta, le miscele e il colore degli inchiostri, il tipo di rilegatura, come se tutti questi dettagli fossero parte integrante della sua opera. D’altronde, il poema inizia proprio coi seguenti versi:

«Ogni aspetto della vita – geometricamente – concorre ad una sola Forma, solenne essenziale immutabile:

il libro

Lì dòrmono, inclusi, genitàbili, i germi;

Pane pàlpita, il

Fuoco

la Teogonìa;

le diamantine leggi e la mutévole materia del Mondo: assunte.»

Il libro, dunque, diventa parte integrante di un enorme processo creativo che cerca di inglobare tutta la vita. Di più, il libro diventa strumento per ordinare e cristallizzare «ogni aspetto della vita» in una forma specifica, vitale, fiammeggiante e totale a tal punto da “assumere” in sé tanto le «diamantine leggi» quanto la «mutévole materia».

Con questo, dunque, si spiega l’uso abituale di Sinadino, non solo con questo poema, di pubblicare i suoi lavori in poche copie numerate, in edizioni estremamente curate e lussuose da lui curate sin nei minimi dettagli, fuori dai circuiti delle case editrici del tempo.

 

Nicolò Bindi

Ungaretti: “per essere poeti bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo’

Ungaretti dovrebbe essere un modello per i poeti contemporanei spesso illeggibili perché incomprensibili.

Ognuno, dopo aver finito di scrivere una raccolta poetica, dovrebbe rileggere “Allegria”, che si caratterizza per i versicoli immediati.

Dovrebbe essere la prova del nove per tutti i poeti. Allo stesso modo ogni  romanziere dovrebbe, dopo ogni sua fatica letteraria, rileggere “Se questo è un uomo” e “Una giornata di Ivan Denisovič” perché questi due capolavori riescono a coniugare anche essi sostanzialità e testimonianza.

La spontaneità di Ungaretti

Poi magari ogni scrittore potrebbe  decidere se pubblicare o rivedere di nuovo il lavoro. Ma ritorniamo ad Ungaretti. Sono talmente dirette e spontanee le  sue liriche, che riescono a spiazzare e a colpire favorevolmente anche i lettori più snob, abituati alla poesia del Novecento che si distingue per essere così intellettuale!

Ungaretti è agli antipodi di poeti così ricercati come Eliot e Pound. Riesce a semplificare il linguaggio e ad essere scarno ed essenziale. Nei suoi versi troviamo tutta la sua vita di esule che si forma culturalmente a Parigi (conoscendo Apollinaire e Picasso) e che combatte sul Carso.

La testimonianza della guerra

Queste poesie di Ungaretti sono testimonianza ineguagliabile della guerra.

Sono prive delle descrizioni e dell’eloquenza della lirica di quegli anni. Non vi sono leziosismi né orpelli inutili. Sono frutto di una ispirazione, che trascendono la metrica, la retorica e l’estetica. Non venga in mente a nessuno che le sue poesie scaturissero solo da intuizioni, seppure formidabili.

Tra intuizioni e lavoro

C’era del lavoro alle spalle. Erano state molte le varianti e le revisioni prima delle versioni definitive. Ad onor del vero bisogna anche ricordare che Ungaretti distrusse le tradizionali forme poetiche nelle prime liriche, ma successivamente dimostrò di saper utilizzare anche versi canonici come novenari ed endecasillabi.

Forse si oserebbe troppo a scrivere che fu una sorta di cubista della poesia nella sua prima fase. Come ebbe a scrivere Ungaretti per essere poeti è necessaria non solo la pazienza, la conoscenza della tradizione, l’intelletto.

Il senso del mistero

Bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo: soltanto così una poesia può diventare unica come la sua. Ungaretti, quando scrisse i suoi primi innovativi versicoli, aveva appreso la lezione dei simbolisti francesi. Ma Ungaretti era completamente originale.

Aveva subito saputo distinguersi dai suoi illustri predecessori. Era un predestinato della poesia. Lo stesso Thomas Merton scrisse che Ungaretti era sconvolgente e che la sua intensità annientava.

Alcuni suoi versi rimarranno per sempre nella memoria di molti: “m’illumino d’immenso”, “è il mio cuore il paese più straziato”, “si sta/come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”, “Di che reggimento siete/ fratelli?”, “Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”, “tra un fiore colto e l’altro donato/ l’inesprimibile nulla”.

La precarietà della vita

Queste illuminazioni esprimono in modo impareggiabile la precarietà e la fragilità proprie di chi combatte in una guerra assurda. Ungaretti aveva combattuto la grande guerra e per capire quanto fu devastante la prima guerra mondiale non bisogna andare molto lontano: basta andare a visitare Asiago, che fu completamente rasa al suolo in quegli anni.

Ungaretti viaggiò molto. Visse molto. Soffrì molto. Non soltanto per l’esperienza della guerra ma anche per la morte del figlioletto di nove anni a cui dedicò la raccolta “Giorno per giorno”.

Il dolore per la morte del figlio

Il poeta si chiedeva come era possibile continuare a vivere e a fare le cose di ogni giorno quando non poteva più vedere il suo bambino, la cui voce non avrebbe udito più.

Scrisse Ungaretti: “E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…”.

Nella sua vita il poeta sperimentò i dolori più terribili: gli orrori della guerra e la scomparsa del figlioletto. Ma Ungaretti riuscì a non lasciarsi mai sopraffare dalle avversità e dai tristi eventi. Riuscì sempre a superare questi periodi di crisi, testimoniando con i suoi versi le tragedie vissute.

Il bisogno di fraternità

La follia della guerra riuscì a vincerla confidando nell’uomo: credendo nella fraternità. Il dolore atroce per la perdita del figlio lo sconfisse non solo con la terapia della scrittura ma anche con la religiosità.

Ungaretti scrisse in modo apparentemente semplice ed è comprensibile a tutti. Ma non lasciatevi ingannare. Ungaretti era anche un profondo conoscitore della lingua e della poesia.

C’è chi potrebbe pensare che molti sarebbero in grado di scrivere come Ungaretti ma è un giudizio affrettato dovuto a pura superficialità e faciloneria: pensarla così è pura ingratitudine nei confronti di uno dei più grandi poeti del Novecento.

Ungaretti fu il primo a scrivere in quel modo così breve e coinciso.

 

Di Davide Morelli

 

La poesia italiana del Novecento tra parola cifrata e colloquio solidale

Montale, Ungaretti, Luzi

Il critico piemontese Giacomo Debenedetti ha riflettuto a lungo sull’origine e sull’originalità dell’ermetismo italiano, sorto in un contesto europeo, occidentale; Mallarmé ne è il dato originario, fondante, insuperato che è utilissimo per comprendere al meglio i testi italiani. Debenedetti dunque uno o pochissimi brani di ogni scrittore e li sottopone ad una lettura che si basa sulla molteplicità dei riferimenti.

Le cause dell’oscurità di Mallarmé sono ricondotte ad una contraddizione ontologica: la poesia è il solo strumento per raggiungere l’Assoluto, che però coincide con il nulla e dunque, in questo senso, la poesia si rivela fallimentare ed è per questo che il poeta parla di naufragio. L’uomo a cui solo tocca, attraverso il linguaggio, l’arduo compito della poesia, è poi abolito da questa stessa poesia che nulla ha più di <<riconoscibilmente umano>>, contraddizione in cui è osservabile <<il tipico paradosso di tutte le imprese mistiche>>. Non a caso si parla proprio di un naufragio nel testo di Mallarmé, A la nue accablante tu, Al nudo travolgente, dove l’immagine del naufragio è costruita da elementi reali ma l’intonazione sacrale ci avverte che la poesia allude a qualcosa che compromette il senso stesso della vita per il poeta e per tutti: si tocca un tragico destino. La poesia fallisce l’impresa di impadronirsi dell’Assoluto, ma l’oscurità con cui ci è trasmessa evoca al tempo stesso il bisogno dell’Assoluto: il tormentato destino del poeta teso ad afferrare la matrice ultima è lo stesso del critico, combattuto tra volontà della ragione e la resistenza dell’evento originario, è l’arcaico destino dell’uomo.

Debenedetti prende in esame come primo poeta Eugenio Montale, cogliendo nelle Occasioni una “crisi della presenza”; la poesia di Montale diventa ermetica quando non constata più gli aspetti comuni del mondo, quando attribuisce all’apparire “una significanza emblematica dei suoi momenti individuali. Soprattutto nell’Elegia di Pico Farnese sono riscontrabili i caratteri tipici dell’ermetismo mallarméano: la chiarezza delle singole notazioni insieme all’oscurità del significato generale, un sovvertimento dei valori razionali e grammaticali del linguaggio. Dunque è lecito razionalizzare il testo montaliano e in genere tutta l’arte moderna? Se si volesse seguire la posizione di Vico “Verum ipsum factum”, la risposta è affermativa, d’altronde l’opera d’arte è creazione dell’uomo e perciò non può non essergli comprensibile.

La molteplicità dei significati in Montale implica una non garanzia e molteplicità del senso; questo progredire dell’ermetismo deriva dalla scomparsa della figura del padre nella società borghese: il poeta si sente orfano e taglia tutti i rapporti visibili e riconoscibili tra il suo Io e la sua persona storica concreta. L’Io del poeta diviene alla maniera di Rimbaud un‘opera fabuleux, una scena in cui si susseguono eventi e spettacoli senza che nessuno ne abbia stabilito il programma.

Anche la poesia di Ungaretti certifica l’estraniamento del poeta come personaggio, teorizzando la scomparsa dell’io empirico e biografico del poeta e anche del lettore. Nella poesia metafisica Lago Luna Alba Notte della raccolta Sentimento del tempo, emerge una straordinaria forza di apparizione dell’oggetto senza rapporti con un prima o un poi, rimuovendo tutti i legami logici, gli eventi annunciano un senso senza spiegarlo e si giunge all’istanza sentimentale e drammatica di una poesia dell’esperienza umana. Nel finale degli appunti ungarettiani l’analisi del linguaggio di Lago Luna Alba Notte porta ad identificare un altro debito rimbaudiano del poeta, quello con la formula “Je est un autre”, collegandosi alle riflessioni di Montale.

La stessa frantumazione dell’Io che emerge nel periodo ermetico di Ungaretti è attestata anche in Mario Luzi; nell’Imminenza dei quarant’anni è assente infatti una linea biografica. Vi sono solo attimi slegati, momenti che non hanno un perché, viene simulato il racconto di una storia  che denuncia il “rifiuto di raccontare”. In questa situazione di smarrimento, di incertezza esistenziale, il poeta di aggrappa alla religione cristiana, per trovare un senso nel mondo.

 

Bibliografia: A. Borghesi, La lotta con l’angelo.

Alda Merini e la poesia come un’arma tagliente

Ma i poeti, nel loro silenzio, fanno ben più rumore di una dorata cupola di stelle”. Così scrive  Alda Merini (1931-2009), poetessa, scrittrice e aforista italiana, nei “Poeti lavorano di notte”, una tra le bellissime, profondissime poesie contenute nella raccolta “Destinati a morire”.

In pochi versi, la scrittrice sembra creare un vero e proprio manifesto poetico universale, esprimendo il ruolo del poeta e della sua arte. Silenziosamente, la poesia si fa arma rumorosamente tagliente; l’inchiostro, di volta in volta, strumento poliedrico e mutevole, attraverso la mano infervorata del poeta, diviene l’alter ego del poeta stesso, la voce del singolo, quella del popolo, la voce dell’emarginato, del vinto, del vincitore; la voce dell’anima, dell’inesprimibile, la voce del” buio” e quella della” luce”, della vita e della morte. Straordinariamente, diventa voce tra le voci, il grido “unanime”, un grumo di sogni, come direbbe Ungaretti, capace di squarciare il velo che cela la coscienza più profonda e tirar fuori, riportare a galla, come scoperchiando il vaso di Pandora, il bene e il male, il tutto e il niente, insiti nell’ esistenza e nella coscienza umana.

Alda Merini, data la sua esperienza di vita, trasforma la “croce” del proprio percorso psicoanalitico, dell’internamento in manicomio, in “delizia”, con la sua arte poetica, attraverso un animo resosi ancor più sensibile e geniale.

Uno stile limpido, preciso, quello della Merini, con il quale riflettere  sul mondo, esteriore ed interiore. Uno stile fatto di accostamenti di immagini, spesso oniriche e visionarie, frutto di un talento precoce e irruento, che dimora in una mente inquieta e dolente.

Ieri ho sofferto il dolore,                                                                                                                          

   non sapevo che avesse una faccia sanguigna,                                                                                                                                               

   le labbra di metallo dure,                                                                                                                                                                   

  una mancanza netta d’ orizzonti.”

(da: “La Terra Santa”)

La Merini affida alla sua poesia i propri tormenti, consacrandosi all’eternità  intatta, reale, veritiera, senza artifici né retorica. Attraverso questi versi vibra la voce del suo animo, un animo che in essi trova la propria cura, il proprio “canale d’ espressione”, nonostante la “mancanza netta d’ orizzonti” che la realtà, a causa del “male”, prospetta.  Una donna ,prima ancora che una poetessa, che affida ai suoi versi tutto il dolore, l’amore e la follia vissuti. Una donna, una scrittrice, che sia nel mondo letterario che in quello privato non teme di esporsi:

Più bella della poesia è stata la mia vita e la mia vita è stata un inferno dei sensi”, racconta.

Un binomio, arte-follia, che porta al sublime. Un sublime, che riesce a cogliere soltanto chi sa che oltre la logica della mente, esiste la logica del cuore, la logica dell’animo, dove la genialità, senza censure sociali e morali è libera di esprimersi, dove la realtà si fonde con la follia, con il delirio, perché in fondo la normalità è soltanto  ciò che decidiamo che sia. La Merini asserisce :

Sono nata il ventuno a primavera, ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle, potesse scatenar tempesta

D’altronde, scrive lo stesso Freud:

“ E’ tipica della nevrosi e di ogni talento superiore un’eccezionale attività fantastica”.

Nelle liriche della poetessa dei Navigli troviamo un’esistenza ossimorica, dove il “tutto”, il significato più profondo dell’esistenza, non possiamo che coglierlo per antitesi, in quanto la Merini ci insegna che il “tutto stesso è niente”. Non facciamo in tempo ad immergerci nella gioia che scopriamo il tormento; leggiamo la lucidità razionale e limpida di una donna vissuta e forte, e viaggiamo,  allo stesso tempo,  sulle ali della sua fragile e disincantata fantasia, sollevati dall’ebbrezza del delirio. Restiamo profondamente attaccati alla vita anche quando desideriamo la morte. Ci inebriamo di un’erotica sensualità affabulatrice e maliziosa e proviamo al contempo  un casto e religioso pudore .

Tutto questo ritroviamo nei suoi versi, tutto questo nella sua esistenza, tutto ciò riscopriamo nella nostra, se,” tolte le bende”,  abbiamo il coraggio di affrontare la luce e l’oscurità con la stessa goliardica curiosità.

E’ la vita che ci dà un senso, sempre se noi la lasciamo parlare

E l’inchiostro, plasmato dai suoi versi, diventa così la voce della vita stessa.  E la Merini , poetessa della vita, è capace di ascoltarla, fino in fondo, perché è capace di accettarla, nel bene e nel male :

“ Io il male l’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente. E’ diventato poesia. E’ diventato fuoco d’amore per gli altri”

La poesia, nelle mani della  Merini,  diviene strumento mediante il quale esprimere l’inesprimibile. Uno scudo, una difesa, un’arma, l’unica possibile in quelle circostanze, come i dolorosi e disumani internamenti, con il quale difendere la propria dignità, conservare la propria umanità, non dimenticare la propria sensibilità, ma anzi farla risplendere, se è possibile, ancora di più. La poesia, medicina migliore per la sua anima, l’ancoraggio nel mare in tempesta, l’equilibrio nel disequilibrio, la redenzione, la salvezza.  Una poesia con la quale capiamo quanto sia difficile e dolorosa l’esistenza, ma anche quanto  l dolore contribuisca a renderla degna di essere vissuta, formandoci e rendendoci, talvolta, migliori. È soltanto attraverso le tenebre che scorgiamo la luce, è attraverso la morte che ci accorgiamo della vita, è mediante il dolore che apprezziamo la gioia.

“Il dolore è necessario..”

La Merini ce lo insegna, con i suoi versi, che divengono un tripudio di sensi, un’esaltazione orgiastica dell’ esistenza, ma anche con la sua esperienza, raccontandoci di una donna che nonostante i svariati tormenti non ha perso la voglia di cogliere la vita e di trasformarsi insieme a lei.

Sono una piccola ape furibonda..”

Mente e cuore, saggezza e folle ebbrezza, senso ed intelletto, consapevolezza ed incoscienza, fanno di Alda l’emblema universale dell’ “umanità”, commediografa del “teatro della vita”, autrice e spettatrice del “carnevale dell’esistenza”, rendendola unica ed indimenticabile.

 

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