‘Sangue di cane’, il caso letterario di Veronica Tomassini per gli anticonformisti culturali

Sangue di cane (Laurana editore) dell’autrice siciliana Veronica Tomassini, è stato un caso letterario per la sua carica eversiva. La Tommasini è un caso a sé stante nel panorama letterario e per la sua particolarità è di difficile canonizzazione. Probabilmente lascerà il segno.

In questo libro (che non è reportage, romanzo noir, giallo, romanzo-saggio o non fiction novel, non è un metaromanzo come molti oggi; non è assolutamente opera di intrattenimento, ma attività di conoscenza delle cose) narra in presa diretta quelle che un tempo si chiamavano a torto situazioni basse con uno stile impeccabile ed al contempo sferzante.

Sangue di cane si pone contro l’establishment letterario, il provincialismo ed il conformismo culturale, eppure riesce a mantenere con grazia una indiscussa letterarietà. L’autrice cerca lo stile e la storia, trovandoli. È difficile cogliere il senso di questo libro, in cui non c’è per niente niente da sorridere.

Trama, contenuti e stile in Sangue di Cane

Tratta di un inferno terreno ed anche del sesso, ma l’autrice non è ossessionata dal sesso. Il suo non è un tour de force nei meandri della perversione, come ad esempio in alcuni libri della sovrastimata Isabella Santacroce. Il linguaggio è crudo, diretto, esplicito. Ha un modo di porgere le cose, che alcuni benpensanti potrebbero  ritenere brutale, ma che in tutta onestà riesce sempre ad essere umano, avvolgente e privo di commiserazione.

Passaggi salienti del romanzo

Il ritmo è incalzante. Lascia senza tregua. Si legge tutto di un fiato. Colpisce sia per la densità che per la scorrevolezza. La giovane protagonista si innamora di un immigrato polacco emarginato, che chiede spiccioli ai semafori, perché, come dice lei stessa: “mi riempivi d’amore, straboccavi d’amore, non sono mai stata amata così”; ma dice anche: “Il nostro amore faceva paura al mondo, gli dei dell’Olimpo storcevano il naso” ed anche “Nel nostro amore ci fu qualcosa di sovrumano a regolare gli eventi, non disumano come dicono certune lingue velenose. Sovrumano. Sai perché? Perché ti conoscevo già, nel luogo dove tutto è preordinato, dove dimora la musica, un luogo dove ognuno di noi è stato anzitempo, dove tutte le parole bisbigliate languono nello scrigno della perennità, dove le note aspettano silenziose la loro ouverture protratta”.

Allo stesso tempo la protagonista confessa che “la reputazione era zerbino su cui strofinarsi le suole di fango” e lei è incurante della reputazione. Il suo matrimonio è “un funerale” perché le persone care sono tutte infelici. Il suo uomo la tradisce spesso, ma lei ci passa sopra.

Il suo compagno vive in un palazzo fatiscente, chiamato casa dei morti, quindi in un parco pubblico, nelle grotte, in una baracca. Slavek, questo il suo nome, vive di espedienti tra risse, deliri alcolici ed aiuti della Caritas. La protagonista ventenne, proveniente dalla media borghesia, è attratta dall’opposto invece che dal simile perché la complementarità la completa.

Esce da sé stessa, libera la sua vita dai limiti imposti dalla società. Ma imparerà a sue spese che l’amore non è solo armonia ed infatuazione, ma talvolta anche ambivalenza e sofferenza. Difficile stabilire chi sia il carnefice e chi la vittima. Nessuno però scende a patti e fa recriminazioni.

Diversità, amore, autolesionismo

Sangue di cane tratta della diversità come arricchimento ed attrattiva, ma anche di persone relegate ai margini, di immigrati alcolizzati e poveri, di prostitute straniere. Tratta di miseria, di espedienti, di fame, addirittura di autolesionismo, di alcol vissuto non come semplice sollievo, ma come unica via di fuga dalla realtà angusta.

Sullo sfondo c’è la comunità di emarginati polacchi: un intreccio di storie, di disagio e di vicissitudini. Il campo di azione è quello degli esseri umani dimenticati. Vengono affrontati solo i problemi concreti della quotidianità. Lo sguardo della Tommasini abbraccia con empatia, connotata da realismo, gli ultimi.

La protagonista è una ragazza che rompe gli schemi sociali perché ci sono regole non scritte da rispettare, se ci si vuole integrare socialmente e se si vuole far contenti genitori e parenti. Per essere delle “brave figlie” bisogna conformarsi alle aspettative e all’immaginario borghese. Come in una vecchia canzone di Alice i parenti sono spesso nel nostro Paese “cinture di castità”.

Echi di Busi e Pasolini

Una ragazza di buona famiglia per far contenti tutti si deve sposare un buon partito. La borghesia deve essere “uccel di bosco“, come scrive Aldo Busi in “Seminario sulla gioventù”: alle figlie borghesi è consentito avere delle avventure esotiche in paesi lontani, ma tutto deve essere senza conseguenze. Certe cose devono essere nascoste o al più sottaciute.

Ecco allora una miriade di false coscienze e di doppie morali, il cosiddetto perbenismo, di cui la Tommasini con la sua sincerità disarmante mette in evidenza l’ipocrisia. La protagonista funge da elemento di raccordo tra il mondo borghese e quello della povertà, però il dialogo è difficile. Essa si mette contro la cosiddetta normalità e di conseguenza anche contro sé stessa, sgretolando le sue certezze.

Tuttavia, leggendo Sangue di cane, viene da chiedersi se si possa ancora parlare di borghesia, visto e considerato che riti, codici, miti sono ormai scomparsi e tutti siamo omologati. Pasolini sosteneva che con la televisione siamo diventati tutti piccolo borghesi e se tutti siamo tali allora nessuno è più borghese.

Forse l’unico modo per sfuggire a questa uniformazione di gusti, di stili di vita e di pensiero è sposarsi con una persona di un’altra cultura, proveniente da un’altra realtà. I borghesi hanno dalla loro l’amoralità dei rischi calcolati e degli interessi economici.

Una lettura sociologica di Sangue di cane

La protagonista di Sangue di cane, invece sceglie il proprio partner in base alla bellezza, all’intesa. Ama perché prova pietà senza mai eccedere nel pietismo. I razionalisti vorrebbero sempre cercare una ragione a tutto. Leggendo questo romanzo ci si potrebbe far sopraffare dall’irrazionalismo, ma si tratta di quella che nelle scienze umane viene definita “razionalità limitata”: leggendo queste pagine viene da chiedersi se sia umanamente giusto dare un senso a tutto.

La borghesia, quel poco o molto che resta, fonda tutto sulla ragionevolezza rassicurante, ma l’amore rivela la sua assurdità e perciò la sua terribilità. I romanzi di un tempo trattavano delle affinità elettive. I manuali di psicologia insegnano che l’erotismo può essere analizzato sistematicamente in chiave psicodinamica. Ma leggendo la Tommasini viene da chiedersi se le dinamiche del desiderio siano senza senso e senza storia (“Eravamo l’uno l’angelo dell’altro. E poco importava se uno dei due, un tempo, era stato capace di maneggiare kalashnikov e semiautomatiche”).

La stessa autrice è illuminante, quando scrive: “Dunque sul valore libertà, avrei molto da dire, non è praticabile fino in fondo, trattiene infiniti nodi scorsoi”. In definitiva cosa può una coppia contro il mondo? Più filosoficamente la libertà è più “libertà da” che “libertà di”.

Una sfida alle convenzione e al romanticismo

Inoltre Sangue di cane è una sfida alle convenzioni, al romanticismo, ma anche la sottolineatura che l’amore a “rischio zero” non esiste.  Fromm definiva la coppia occidentale un “egoismo a due”, ovvero un doppio egoismo: invece qui la protagonista dà molto e non riceve altrettanto.

Certamente la chiave di volta per capire il romanzo non è gnoseologica, metafisica o figurativa o perlomeno non solo quest. La Tommasini ci parla dei cosiddetti invisibili. La scrittrice mette bene in evidenza che il controllo sociale prima di tutto è controllo mentale.

Psicologia sociale

Allo stesso tempo leggendo questo libro vengono in mente certi studi di psicologia sociale, in cui chi assume la posizione di deviante (così definito dai ricercatori. Si tratta di persona che ha idee e comportamenti diversi dalla maggioranza) all’interno di un gruppo prima viene interpellato, si cerca di farlo tornare sui suoi passi, facendo opera di convincimento, e poi se ciò non va a buon fine lo si esclude e lo si abbandona al suo destino.

Per l’autrice gli immigrati sono un mondo altro, una alternativa possibile alle contraddizioni insanabili e all’universo concentrazionario di quel poco che resta della borghesia italiana, ovvero una parvenza, fatta di regole asfittiche e ormai prive di valori. Questo è un’opera che invoca il cambiamento, innanzitutto di mentalità, ma anche in senso lato.

Per gli psicoterapeuti, gli psichiatri e gli psicologi si può cambiare con l’analisi psicoterapeutica ed i farmaci. Tutto il loro lavoro implica l’idea che il cambiamento sia possibile e che possa verificarsi una evoluzione della personalità. Alcuni studiosi ritengono che non tutto il nucleo della personalità di base possa però mutare. Dovrebbe esserci un io statico ed un io dinamico, ma è molto difficile dire quali siano le invarianze.

Un romanzo che ci lascia con un interrogativo

Ma in Sangue di cane chi è davvero che deve cambiare? I protagonisti o la società? Forse è più difficile in questo Paese il cambiamento collettivo. Insomma sembra che i cambiamenti sociali, civili, politici qui in Italia siano solo apparenti. La classe dirigente è per il mantenimento dello status quo.

Molti sono rinchiusi nella loro comfort zona. A conti fatti oggi c’è ancora troppo immobilismo per una palingenesi. In sintesi Veronica Tomassini scrive un’opera di carattere sociale senza perdersi in sociologismi; scrive un romanzo che fa sobbalzare dalla sedia perché descrive con crudezza scene e momenti difficili, ma anche  un sentimento e una storia d’amore, oltre a una Siracusa che contiene “sottouniversi” di persone di altra nazionalità.

In Sangue di cane la fluidità verbale ha la meglio  sulla cristallizzazione, il vitalismo sulla rispettabilità, ricordandoci che alla fine ogni vita, se consideriamo solo il lato materiale, è fallimento, sconfitta. La protagonista si definisce psicotica ed è convinta che l’amore salvi, ma alla fine del libro non siamo più sicuri dove stia la salute e la malattia. Poi l’interrogativo se l’amore salvi, purtroppo o per fortuna, resta.

 

Di Davide Morelli

 

Veronica Tomassini, autrice di ‘Vodka Siberiana’: un osceno viaggio metafisico ai confini dell’amore

Amare ci rende divini, sembra essere questo uno degli adagio che attraversano le pagine del mordente e schiettissimo romanzo epistolare Vodka siberiana, autopubblicato dalla scrittrice stessa, Veronica Tomassini, collaboratrice presso il Fatto Quotidiano, e autrice di opere pregevoli come Sangue di cane, Laurana 2010; Il polacco Maciej, Feltrinelli 2012; L’altro addio, Marsilio 2017; Mazzarrona, Miraggi 2019, candidato al Premio Strega), perché le case editrici nostrane sono troppo impegnate a pubblicare autori scialbi, standardizzati, politicamente corretti, e banali.

Vodka Siberiana è un viaggio metafisico nel male da cui scaturiscono l’amore e la compassione; un libro quasi insaziabile che abbraccia il trascendente, lo interroga, dove i personaggi naufragano per poi cogliere brandelli di infinito, alla maniera di Dostoevskij, non a caso tra gli scrittori che hanno maggiormente influenzato Veronica Tomassini. I personaggi di Vodka siberiana, sono attratti e al contempo respingono qualcosa che li chiama, incarnando ossessioni, vizi, debolezze, mostruosità che travolgono il lettore più esigente e sensibile, meno gli editori markettari.

Le lettere raccolte dalla Tomassini diventano un romanzo e raccontano la solitudine storica di un tempo, metà anni ’90, dopo la caduta del muro, il tempo finito nella Storia dei paesi dell’ex cortina. Dal disordine – ovvero l’avventata democrazia che piomba simile a un vento disturbante sopra l’elegia comunista oramai esangue, inchiodata finalmente al vero crimine – a quel caos la cui tragicità ha i contorni di una profezia biblica, nutrono generazioni di spostati, la cosiddetta torma di uomini ics. Vagabondi, travasati nel pingue e distratto Occidente, bevitori, portatori di lutti perenni. Oscenità da estinguere in un parco di una metropoli o di una modesta città di provincia, europea, italiana. Nello specifico, ovvero, nel mio romanzo, una città di provincia siciliana. Questa l’originale sinossi del romanzo della scrittrice siracusana.

Veronica Tomassini ci parla di amore, vero, ma di un amore che morte, tradisce, fa male. Di un amore immortale, che è divino, che ama l’altro prima ancora di conoscerlo e che deve passare prima tra i meandri dell’animo tenebroso per poi giungere alla constatazione che ciò che è davvero reale è l’invisibile e l’inverosimile. Bisogna vivere come se si abitasse un altro mondo, sembra suggerirci Veronica Tomassini, abbandonandosi al mistero, compreso quello dell’amore. Amare dunque è normale oppure no? Tutti parlano d’amore, confondendolo con la passione, con un sentimento che gratifica, smuove, fa sentire vivo. Ma l’amore, come dice l’autrice non è nemmeno un sentimento. Mentre si attende l’amore o lo si vive con fatica, bisogna accettare quello che ci sottrae la vita, incastonare la propria solitudine tra le gocce della pioggia che ci bagnano, traendo bagliori di luce e di speranza dal buio, come le grande mistiche.

In tal senso Veronica Tomassini è una mistica della scrittura, una testimone di fatti unici, oltre ad essere una scrittrice che ha un approccio cristiano alla vita e alla Storia: la sua penna è una spada con la quale affonda nella sofferenza umana per tentare di afferrare il mistero della vita che non sembra essere nefasto, nemmeno per i bevitori dei suoi romanzi immersi in un intreccio rovesciato, e in uno stile minimale, annebbiato, ma fulminante e lucido; si tratta di un realismo accompagnato da un piglio volutamente traballante e da atmosfere ed echi sacri quello della Tomassini, atto a raccontare gli emarginati dell’est che vagano verso il nulla. Figure di spicco sono un professore schizofrenico e una donna, voce narrante e alter ego della scrittrice, che narra dei miserabili slavi in un degrado senza tempo, perché sono le passioni e i desideri umani che hanno animato e animano la Storia non tanto la ragione che pure genera mostri e miseria prima di tutto ideologica ed intellettuale.

Tuttavia l’autrice conferisce dignità ai suoi slavi ubriachi, depositari del male che si riscattano infilzando metaforicamente la borghesia occidentale, le sue regole, la sua ipocrisia, i suoi interessi, il suo “buon” pensiero, le sue narrazioni epiche.

Risulta utile e calzante fare un riferimento alle parole di Dostoevskij nella lettera alla Fonvizina: «la verità si rende chiara nella disgrazia», la verità cioè si chiarisce nelle prove della vita. Veronica Tomassini sembra suggerire anche questo: scegliere Cristo e non una verità dimostrata, significa scegliere un incontro personale su questa via e non una dimostrazione logica, per quanto convincente. La verità non viene negata, ma ricollocata in modo diverso. È la persona che ci attira, non un argomento. D’altronde il Venerdì Santo, Gesù non saliva al cielo, ma scendeva agli inferi…

Non è un caso che, non considerata come giustamente dovrebbe, il romanzo d’esordio della Tomassini, Sangue di cane, è stato oggetto di studio, di un saggio (Righteous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic, edito dalla Press University di Toronto, a cura di Stefania Lucamante), di corsi  e convegni, in diverse università americane.

 

La perfezione del dolore si sarebbe manifestata alla fine del tempo fissato per te e gli abitanti della casa costruita sulle maree. Una ciurma di sbandati con una sola aspirazione: disaffezionarsi alla vita. La vita, qualsiasi cosa volesse significare. Allora ti sembrava che fosse soltanto una questione di sottrazione, che la vita avanzava, togliendo. Nella forma più nobile, la vita sottrae. Il gesto divelto della prova. Riconsegna talvolta, anzi lo fa senz’altro, non quel che credevi, forse, o speravi. Ma è meglio, è peggio?

Veronica Tomasini

1 Quando ha capito che avrebbe voluto scrivere nella vita?

Non ricordo, a essere sincera. O meglio ricordo un tema in quinta elementare, sul tempo che passa, non che fossi una cima. Riuscì bene. Non so, tirai fuori frasi strane per una bambina, un colpo di fortuna. Poi penso ai diari che mi regalavano ai compleanni, diari inutili e con il lucchetto. Regali deludenti, pensavo con stizza. Cominciai a scrivere così, roba infantile, niente di che. Però quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande – ecco questo lo ricordo, ma non so spiegare la ragione – rispondevo: la giornalista o la scrittrice. Non la ballerina, chessò, la cantante. La congiunzione mi fa specie oggi, cioè è quel che ho fatto veramente nella vita. Ma lo dicevo senza convinzione. E la congiunzione era una disgiuntiva, bizzarro. Comunque leggevo molto, mi raccontavano molte storie, il nonno e lo zio umbri. Quanto mi piaceva. A cinque anni sapevo leggere, anche se non avevo ancora iniziato la scuola, conoscevo l’inglese, le canzoni di Franco Califano e di Fabrizio De André. A otto anni ho letto il diario di Christiane Felscherinow, “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”. Lì è stata la deflagrazione, qualcosa di irreversibile. Oggi quel libro non supererebbe la decima pagina, un libro in qualche modo maledetto. Lo prestai a una compagna di liceo, non tornò più indietro. Scoprii il viso di Christiane molti anni dopo. A Christiane ho scritto una lettera. Da adulta. Mi ha letta. La compagna di liceo è morta in un incidente stradale. Mi sembrò un presagio. E pensai a quel libro.

2 Chi sono gli scrittori che hanno influenzato la sua scrittura e il suo pensiero?

I russi. Dostoevskij su tutti; Tolstoj, Gorki, Gogol, Cechov, ma anche Isaak Babel, Saul Bellow. Ai russi dobbiamo tutto, il pensiero russo. La grande letteratura è russa. Sì certo poi ho amato i naturalisti francesi, il neorealismo. Ho amato Pavese, Levi, Buzzati, Bonura, Pratolini. La letteratura americana del primo Novecento.

3 Cosa pensi dell’editoria italiana, come è stata la tua esperienza sotto questo punto di vista?

Difficile rispondere. Ho esordito ufficialmente nel 2010 con “Sangue di cane”, Laurana editore. Avevo però già pubblicato le cosiddette opere minori. L’esordio con “Sangue di cane” fu un caso letterario. Non so dire molto, sono povera in canna, malgrado l’exploit. Non so cosa dire dell’editoria italiana. Non è il mercato francese, ecco, se vogliamo buttarla lì. Il mercato francese che ancora tiene a distinguere l’aristocraticità della parola dal resto.

4 Cosa manca agli scrittori nostrani che però sembrano avere molto successo in termini di vendita? Come spiega certi fenomeni editoriali?

Non li spiego. L’imbonimento massificato, una specie di massive attack alla specificità elettiva di ognuno; il disorientamento indotto sottilmente, in gironi di fallibilità paurosi e che noi non vediamo, un’orchestra monotono che vuole confondere gli specchi, il bello con il brutto, la democratizzazione che diventa mediocrità, ma sempre dentro un’azione consapevole e utile a qualcos’altro, a un imbonimento appunto in pendant con buonismi vari. Siamo dentro la grande bruttezza. Siamo dentro un rincoglionimento collettivo utile ad atro, si forgiano non pensatori. Una “mariadefilippizzazione” estesa come unico manifesto su cui conformarsi. Questo è il meglio che abbiamo stasera? (cit.).

5 Veniamo al suo ultimo libro, Vodka Siberiana, come nasce questo titolo?

È un omaggio al bevitore, alla solitudine del bevitore. Il tributo all’empietà che diventa il fiore della compassione altrui e contiene salvezze recondite. Diceva Marek Hlasko che esiste una felicità grande e dolorosa; credo che si riferisse alla felicità del bevitore, nell’istante prima di crollare sotto lo sguardo sdegnato degli astanti, di solito di gran lunga migliori. “Vodka Siberiana” è la storia di una solitudine antica, ci riguarda tutti; ma io racconto i bevitori dell’est; vagabondi; malati di nostalgia.

6 Quali ritiene essere gli aspetti più attuali e quali invece quelli più classici del suo romanzo?

La solitudine dell’uomo. Il cardine attorno cui uno scrittore lavora, io penso.

7 Come si fa, quando si tocca il fondo, a risalire, a trovare parole adatte per chiamare le cose?

Si è sopravvissuti. Esserlo basta a tutto. Il dolore si trasforma, trasforma anche quel che guardi. Il dolore contiene la spiegazione segreta; piccoli brani da fissare; tenerli stretti al petto. La lucidità del dolore spalanca universi inauditi, apre gli oceani come il costato di una fiera.

8 È più abissale il dolore o la solitudine?

La solitudine. La solitudine senza Dio. La solitudine e basta. Ma senza Dio come si fa?

9 Nel suo libro racconta di un’umanità derelitta e disperata dove c’è spazio anche per la pietà. Bisogna vivere nonostante tutto, andare avanti come diceva Camus?

Andare avanti. Nonostante tutto. Nonostante tutto potrebbe diventare l’esortazione evangelica e cristica del non temere. Allora acquista un senso, il dolore lo è, alla fine e all’origine. Tutto inizia e finisce con il dolore se vogliamo: la nostra nascita, la nostra morte. E invece è solo un preludio: al risveglio, la Resurrezione. Malgrado ciò, non so davvero come “l’umanità derelitta e disperata” trovi umane forze per arrivare anche solo alla fine del giorno. Non so davvero. Tuttavia soltanto nei giorni in cui ho incontrato quel meraviglioso cesto di fiori che erano loro – i poveri, gli abietti, i disperati – ho imparato la felicità. Non ho mai vissuto di più. E non saprò mai tradurre quei giorni, solo il pensiero mi commuove. Ancora adesso mi chiedo: ma è esistito sul serio, tutto quel che hai visto, loro, quei giorni, quegli anni?

10 La razionalità può andare d’accordo con la poesia o quest’ultima reputa che sia troppo anarchica?

No, la razionalità è un deterrente.

11 Che visione ha della Storia?

La Storia è il segno di Dio sul destino di ognuno. Altrimenti è il caos di eventi che soffiano ferocemente sull’uomo senza annunciare. In definitiva si annuncia la stessa bella notizia, Il Figlio dell’Uomo. Anche alla fine di terrori, lustri di dittature e abomini.

12 Lei sonda il sottosuolo, ritiene come dice Rousseau nelle sue Confessioni che la malattia è inscritta fin dall’origine, ma che tale ferita, come sostiene Starobinski nel Rimedio nel male, mobiliti tutte le forze riparatrici? In questo processo secondo Lei conta di più la coscienza o il nostro livelli di civilizzazione?

Domanda complicata. Non so perché il mio sguardo finisca dove gli altri lo tolgono; dove per gli altri comincia il buio, per me inizia la luce. Non so spiegare la curiosità, la contingenza, il fatto che ci sia finita dentro. Sono solo una testimone.

13 Prossimi progetti?

Scrivere.

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