Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce a Bologna il 29 Aprile 1923. Fin dalla tenera infanzia, Cristina è figlia del celebre compositore musicale Guido Guerrini e di Emilia Putti, nipote di Enrico Panzacchi, poeta e critico d’arte, e sorella di Vittorio Putti; noto chirurgo ortopedico.
A causa di una congenita malformazione cardiaca che rende, da sempre, precaria la sua salute Cristina cresce in una naturale solitudine: lontana dai coetanei e seguendo un percorso scolastico frammentato. Vive insieme alla famiglia a Bologna fino al 1925; successivamente a Parma e, nel 1928, a Firenze città in cui Guido Guerrini dirige il conservatorio Cherubini.
L’ambiente culturale fiorentino è determinate per il percorso di Cristina Campo: a Firenze incontra il traduttore Leone Traverso affettuosamente soprannominato dalla poetessa Bul. Fondamentali sono gli incontri con Mario Luzi e Gianfranco Draghi in quanto introducono la Campo al pensiero di Simone Weil: Cristina Campo fu fra i pochi intellettuali a divulgare, in seguito, il pensiero di Simone Weil in Italia. A Firenze conosce anche Gabriella Bemporad, Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell che, successivamente curerà la pubblicazione delle sue opere. Nella sua vita privata la poetessa bolognese frequentò Mario Luzi. A tal proposito, Margherita Dalmati affermò sul loro rapporto:
«I suoi amori erano tempestosi, sfrenati – e condannati. Nessuno può resistere, in continua tensione, a un volo senza stasi […] Il grande amore, e l’unico della sua vita, fu un’altra persona, quella del Moriremo lontani, un amore impossibile poiché la persona amata aveva tutte le virtù cantate dai poeti; inoltre lei era libera, lui no […] Parlava troppo e a voce alta – questo tradiva la solitudine della sua infanzia».
Negli anni ’50 è Gianfranco Draghi che la esorta a pubblicare i suoi primi saggi su ‘’ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino’’. Nel 1955, invece, si trasferisce definitivamente a Roma. Sempre nei primi anni ’50 lavora a un’antologia di scrittrici:, Il Libro delle ottanta poetesse, una raccolta con le 80 poetesse che, secondo Cristina, rappresentano il culmine della poesia femminile. Purtroppo, questa antologia, non sarà mai pubblicata.
Nel 1958 incontra lo scrittore, filosofo e conoscitore di dottrine esoteriche Elémire Zolla; con lui avvia un lungo sodalizio. Il periodo storico vissuto da Cristina Campo è disseminato da tensioni politiche, per questo tutta la cultura, e allo stesso modo la poesia, si rivolge all’impegno sociale collimando nello sperimentalismo.
Sono gli anni delle avanguardie storiche, dell’immediatezza. La sua scrittura è considerata elitaria, la sua formazione intellettuale dovuta a una recondita riservatezza e a una frequentazione di un numero ristretto di amicizie la porta ad avere disguidi e incomprensioni; è il caso dell’acceso contrasto con un’altra scrittrice influente nel panorama della letteratura italiana, Anna Banti. A quel tempo, la Banti, dirige ‘’Paragone’’ una rivista con cui Cristina Campo collabora come traduttrice e dove pubblica la traduzione delle poesie di John Donne.
La poetessa che rifugge la gloria: il rito della traduzione
Approssimativo e impreciso collocare la figura di Cristina Campo esclusivamente nella poesia. Cristina scrive fiabe, saggi, epistolari ed è un’ottima traduttrice: traduce testi della più alta letteratura inglese come Virginia Woolf, Emily Dickinson, Katherine Mansfield. Tradurre, per la poetessa schiva, è un vero e proprio rituale: l’azione del rendere un’opera in un’altra lingua è connotata di sacralità.
Tradurre è far riflettere le emozioni, le tensioni, le inquietudini dell’autore originale che, colto dall’impulso poetico, manifesta di getto; è mediare con lo spirito dell’autore, in tutta la sua più totale purezza.
Il processo di traduzione per Cristina Campo è frapporsi oggettivamente fra le emozioni e le parole del legittimo autore senza ‘’sporcare’’ il lavoro poetico con i propri sentimenti. Cristina scrive per amore della stessa poesia e della scrittura: non ama i salotti mondani, i premi, le auto-celebrazioni. Sceglie, appositamente, un nome d’arte e firma molte altre opere con ulteriori pseudonimi: da Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca.
I suoi versi sono essenziali, così come le parole che li compongono: è ossessionata dall’idea di perfezione e la sua scrittura emana una singolare raffinatezza antica. Un linguaggio diretto, essenziale e preciso che pone le sue strofe in analogia con gli haiku, componimenti giapponesi noti per la loro brevità. Questi i versi di Passo d’Addio, la prima raccolta della poetessa pubblicata nel 1956:
Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.
Trema l’ultimo canto nelle altane
dove il sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.
E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.
Quella di Cristina Campo per la perfezione dei testi è una passione febbrile: soffre di insonnia, si alza a mezzogiorno e lavora alle sue opere fino all’alba. Scrive, traduce, legge, rielabora e rifugge con disprezzo tutta la patinata mondanità che la circonda. In un’intervista per il Tempo, datata 1972, dice di sé stessa:
«Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno».
Una poetica priva di orpelli e l’amore verso gli ultimi
Il suo stile scabro e privo di fronzoli la induce a far coincidere la parola con la sua semantica più viscerale e profonda, tenendosi ben lontana da qualsiasi contesto scontato, patinato e superfluo. Uno stile di vita che coincide, soprattutto, nei suoi testi: è nella solitudine che si ha l’ascesi per l’ispirazione poetica, non mescolandosi alla massa, alla mediocrità, alle mode.
Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.
Poesia di Hèctor Murena tradotta da Cristina Campo, La tigre assenza (Adelphi, 1991)
Di animo sensibile era solita accogliere gli ultimi in casa dando loro le cure dovute: profughi, barboni, donne in difficoltà, poveri. Detesta il consumismo, ama i perdenti, gli ultimi, coloro che non hanno alcuna voce. Cristina Campo non è una donna capace di scendere a compromessi, non se questo significa indurre in oblio una parte di sé autentica, pura. Determinata, raffinata, sopra le righe e forte nonostante la sua riservatezza non si abbassa mai alle dinamiche del tempo. A questo proposito non riesce a inserirsi nella società letteraria italiana di quell’epoca; troppo preziosa, elegante, fuori dagli schemi. Non scrive come gli altri, né nello stile, né nei contenuti. Attinge le sue ispirazioni da un’altra parte con una fierezza appartenente solo alle anime incontaminate e passionali, allo stesso tempo. Nel 1953 scrisse a Margherita Dalmati:
« La mia lingua, lo so bene, è armoniosa, troppo, persino. È proprio questo che a me non va. Io faccio dell’oreficeria,mentre si deve lavorare la pietra ».
Cristina Campo, la poetessa e il simbolismo delle fiabe: l’infanzia, condizione necessaria per la poesia
Cristina resterà sempre imbrigliata nel mondo meraviglioso e mistico delle fiabe, attingendo da esse il suo universo letterario e gran parte della sua poetica:
«A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile».
Nel 1962 tratta il tema della fiaba nella raccolta di saggi Fiaba e Mistero. Cristina Campo attribuisce al genere fiabesco sfumature ben più complesse, non rilegandolo a una narrazione infantile. La sua produzione poetica, infatti, verterà principalmente sulla fiaba, il destino, il misticismo, i simboli e i miti.
Cristina non è una poetessa fruibile, non ha una poetica da ‘’mercato letterario’’ né è di suo interesse esserlo; non frequenta i salotti o le associazioni di alta letteratura: scrive, immagina e produce grazie al suo mondo interiore fatto di riflessioni opalescenti. Per comprendere la poetica dell’autrice è utile citare Diario Bizantino, testo composto da quattro sezioni da cui ben si può evincere la varietà e la sensibilità del suo mondo interiore. L’incipit di quest’opera basta già a tracciare la personalità della Campo:
Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.
In questi versi l’autrice lega la conoscenza acquisita per mezzo della fiaba alla brama necessaria di un ritorno alle origini, ai luoghi dell’infanzia. Una teoria esplicata in modo più dettagliato nel saggio In medio coeli.
Nello stesso saggio la Campo connota alla ‘’perfetta poesia’’ il potere di ricondurre l’uomo a un ‘’sapere antichissimo’’, lo stesso sapere in cui scalcia, prorompe e si agita un primordiale ‘’tripudio infantile’’. In Cristina Campo coesistono le fiabe e la fede: l’autrice accomuna fate ed eroi alle religioni con un obiettivo comune, cercare risposte sui perché della vita; la nascita, l’amore, la morte, l’esistenza tutta.
Le lezioni apprese dalle fiabe ascoltate da bambini grazie ad un’insegnante, i genitori, o una nonna è una guida essenziale che aiuta nella crescita e nella formazione; a superare pericoli e fronteggiare ostacoli: il tutto, mantenendo un necessario legame con l’infanzia. E sarà proprio grazie alla fiaba che un adulto comprenderà il valore e la semantica dei simboli.
Una teoria già acclamata da noti autori di fiabe come Hans Christian Andersen, il cui obiettivo è educare tramite la fiaba o da Jean de La Fontaine. Quello delle fiabe è quindi un mondo sì magico e ricco di allegorie, ma anche colmo di analogie con il concreto, il reale e il percorso psicologico di ogni essere umano. Diario bizantino è solo la rielaborazione in versi del pensiero e delle teorie sulla fiaba e sul mondo letterario di Cristina Campo, in cui a predominare è il misticismo e la fiaba ne è porzione centrale:
«Così, se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe».