‘Nessuna come lei’ di Sara de Simone. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia

Con “Nessuna come Lei”, Sara De Simone, vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society, penna critica del Manifesto e traduttrice, ha dato luce ad aspetti solitamente poco esplorati, vagamente raccontati o clandestinamente trasmessi, non solo della biografia delle due grandi autrici Mansfield e Woolf, ma di una certa storia della letteratura che ha a che fare con le abitudini, i canoni e le convenzioni sociali, così come le abbiamo ereditate.

 La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che parlano dei propri libri […] e si guardano negli occhi, e si temono, e si ammirano. E sono amiche

Pubblicato nel gennaio di quest’anno per i Colibrì di Neri Pozza, Nessuna come lei è un’autentica biografia di un’amicizia che al contempo racconta di un quotidiano tanto difforme – per quanto radicalmente simile – due vite da scrittrici perfettamente parallele.

Con serietà, accortezza e intelligenza, Sara de Simone restituisce gli anni del fervore artistico e intellettuale europeo del XX secolo. Dal 1916 al 1941, aneddoti intimi e mondani si intrecciano alla storia letteraria e sociale. Ai carteggi – significativamente importanti ai fini delle relazioni intrattenute dalle due scrittrici non solo fra di loro, ma anche con le persone coinvolte nelle loro vite – si aggiungono i diari, gli esimi testimoni di quello che risulta essere il fulcro vitale del libro, la sua ragione d’essere. In poche parole, la volontà di restituzione di un’ostinazione verso il vero, di una ricerca essenziale – ai limiti dell’ossessione – della verità non solo artistica, ma anche umana.

Una verità che De Simone ha voluto illuminare, raccontare – finalmente – dalla parte delle donne. Due, queste, che risultano irraggiungibili a loro stesse e fuse allo stesso tempo. Parallele perché in una condivisione quasi timida e tacita di una fragilità e sensibilità impareggiabili. Entrambe soffrono, si ammalano, vivono una posizione orizzontale che, nella costrizione, trasformano in azione creativa, in ricerca di quella stessa cosa che è uno sguardo differente che verte sulle differenze.

Sara De Simone lo racconta lungo tutto il libro, senza troppo ripeterlo, quanto la ricerca del vero di Mansfield e Woolf abbia abitato i loro inchiostri, immortali e discussi, sinfonici e vivifici, di falsa invidia e forse, pura gelosia.

Un lavoro di ricerca mastodontico, “Nessuna come Lei”, che in sostanza serve due voci umane di donne pilastro nella storia della letteratura. Il risultato di questa ricerca, secondo la penna di chi scrive, è che una delle due voci, quella di Virginia Woolf, che quasi si invocherebbe a mainstream – da postuma influenza la ricezione dell’altra, di Katherine Mansfield che, a sua volta, ha fatalmente viaggiato davanti, ha influenzato la scrittrice che Woolf è diventata.

Ci si augura che a questo saggio biografico ne seguano altri. Che pubblico resti, questo amore per le parole, il loro peso, il loro infinito silenzio.

«Entrambe mettevano la letteratura al primo posto. E questa non era un’affinità come un’altra: era tutto. Era come essere partecipi di un rito segreto, come camminare sulle stesse zolle di terra incandescente, dove nessun altro osava avventurarsi».

«Mio Dio, Virginia, adoro pensare a te come un’amica». – Katherine Mansfield

 

 

 

Cristina Campo, la poesia, le fiabe e il mondo letterario di un animo solitario

Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce a Bologna il 29 Aprile 1923. Fin dalla tenera infanzia, Cristina è figlia del celebre compositore musicale Guido Guerrini e di Emilia Putti, nipote di Enrico Panzacchi, poeta e critico d’arte, e sorella di Vittorio Putti;  noto chirurgo ortopedico.

A causa di una congenita malformazione cardiaca che rende, da sempre, precaria la sua salute Cristina cresce in una naturale solitudine: lontana dai coetanei e seguendo un percorso scolastico frammentato. Vive insieme alla famiglia a Bologna fino al 1925; successivamente a Parma e, nel 1928,  a Firenze città in cui Guido Guerrini dirige il conservatorio Cherubini.

L’ambiente culturale fiorentino è determinate per il percorso di Cristina Campo: a Firenze incontra il traduttore Leone Traverso affettuosamente soprannominato dalla poetessa Bul. Fondamentali sono gli incontri con Mario Luzi e Gianfranco Draghi in quanto introducono la Campo al pensiero di Simone Weil: Cristina Campo fu fra i pochi intellettuali a divulgare, in seguito, il pensiero di Simone Weil in Italia. A Firenze conosce anche Gabriella Bemporad, Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell che, successivamente curerà la pubblicazione delle sue opere.  Nella sua vita privata la poetessa bolognese frequentò Mario Luzi. A tal proposito, Margherita Dalmati affermò sul loro rapporto:

«I suoi amori erano tempestosi, sfrenati – e condannati. Nessuno può resistere, in continua tensione, a un volo senza stasi […] Il grande amore, e l’unico della sua vita, fu un’altra persona, quella del Moriremo lontani, un amore impossibile poiché la persona amata aveva tutte le virtù cantate dai poeti; inoltre lei era libera, lui no […] Parlava troppo e a voce alta – questo tradiva la solitudine della sua infanzia».

Negli anni ’50 è Gianfranco Draghi che la esorta a pubblicare i suoi primi saggi su ‘’ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino’’. Nel 1955, invece, si trasferisce definitivamente a Roma. Sempre nei primi anni ’50 lavora a un’antologia di scrittrici:, Il Libro delle ottanta poetesse, una raccolta con le 80 poetesse che, secondo Cristina, rappresentano il culmine della poesia femminile. Purtroppo, questa antologia, non sarà mai pubblicata.

Nel 1958 incontra lo scrittore, filosofo e conoscitore di dottrine esoteriche Elémire Zolla; con lui avvia un lungo sodalizio. Il periodo storico vissuto da Cristina Campo è disseminato da tensioni politiche, per questo tutta la cultura, e allo stesso modo la poesia, si rivolge all’impegno sociale collimando nello sperimentalismo.

Sono gli anni  delle avanguardie storiche, dell’immediatezza. La sua scrittura è considerata elitaria, la sua formazione intellettuale dovuta a una recondita riservatezza e a una frequentazione di un numero ristretto di amicizie la porta ad avere disguidi e incomprensioni; è il caso dell’acceso contrasto con un’altra scrittrice influente nel panorama della letteratura italiana, Anna Banti. A quel tempo, la Banti, dirige ‘’Paragone’’ una rivista con cui Cristina Campo collabora come traduttrice e dove pubblica la traduzione delle poesie di John Donne.

La poetessa che rifugge la gloria: il rito della traduzione

Approssimativo e impreciso collocare la figura di Cristina Campo esclusivamente nella poesia. Cristina  scrive fiabe, saggi, epistolari ed è un’ottima traduttrice: traduce testi della più alta letteratura inglese come Virginia Woolf, Emily Dickinson, Katherine Mansfield. Tradurre, per la poetessa schiva, è un vero e proprio rituale: l’azione del rendere un’opera in un’altra lingua è connotata di sacralità.

Tradurre è far riflettere le emozioni,  le tensioni, le inquietudini dell’autore originale che, colto dall’impulso poetico, manifesta di getto; è mediare con lo spirito dell’autore, in tutta la sua più totale purezza.

Il processo di traduzione per  Cristina Campo è frapporsi oggettivamente fra le emozioni e le parole del legittimo autore senza ‘’sporcare’’ il lavoro poetico con i propri sentimenti. Cristina scrive per amore della stessa poesia e della scrittura: non ama i salotti mondani, i premi, le auto-celebrazioni. Sceglie, appositamente, un nome d’arte e firma molte altre opere con ulteriori pseudonimi: da Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca.

I suoi versi sono essenziali, così come le parole che li compongono: è ossessionata dall’idea di perfezione e la sua scrittura emana una singolare raffinatezza antica. Un linguaggio diretto, essenziale e preciso che pone le sue strofe in analogia con gli haiku, componimenti giapponesi noti per la loro brevità. Questi i versi di Passo d’Addio, la prima raccolta della poetessa pubblicata nel 1956:

Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.

Trema l’ultimo canto nelle altane
dove il sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.

E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.

Quella di Cristina Campo per la perfezione dei testi è una passione febbrile: soffre di insonnia, si alza a mezzogiorno e lavora alle sue opere fino all’alba. Scrive, traduce, legge, rielabora e rifugge con disprezzo tutta la patinata mondanità che la circonda. In un’intervista per il Tempo, datata 1972, dice di sé stessa:

«Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno».

 

Una poetica priva di orpelli e l’amore verso gli ultimi

Il suo stile scabro e privo di fronzoli la induce a far coincidere la parola con la sua semantica più viscerale e profonda, tenendosi ben lontana da qualsiasi contesto scontato, patinato e superfluo. Uno stile di vita che coincide, soprattutto, nei suoi testi: è nella solitudine che si ha l’ascesi per l’ispirazione poetica, non mescolandosi alla massa, alla mediocrità, alle mode.

Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.

 

Poesia di  Hèctor Murena tradotta da Cristina Campo, La tigre assenza (Adelphi, 1991)

 

Di animo sensibile era solita accogliere gli ultimi in casa dando loro le cure dovute: profughi, barboni, donne in difficoltà, poveri. Detesta il consumismo, ama i perdenti, gli ultimi, coloro che non hanno alcuna voce. Cristina Campo non è una donna capace di scendere a compromessi, non se questo significa indurre in oblio una parte di sé autentica, pura. Determinata, raffinata, sopra le righe e forte nonostante la sua riservatezza non si abbassa mai alle dinamiche del tempo. A questo proposito non riesce a inserirsi nella società letteraria italiana di quell’epoca; troppo preziosa, elegante, fuori dagli schemi. Non scrive come gli altri, né nello stile, né nei contenuti. Attinge le sue ispirazioni da un’altra parte con una fierezza appartenente solo alle anime incontaminate e  passionali, allo stesso tempo. Nel 1953 scrisse a Margherita Dalmati:

« La mia lingua, lo so bene, è armoniosa, troppo, persino. È proprio questo che a me non va.  Io faccio dell’oreficeria,mentre si deve lavorare la pietra ».

 

Cristina Campo, la poetessa e il simbolismo delle fiabe: l’infanzia, condizione necessaria per la poesia

Cristina resterà sempre imbrigliata nel mondo meraviglioso e mistico delle fiabe, attingendo da esse il suo universo letterario e gran parte della sua poetica:

«A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile».

Nel 1962 tratta il tema della fiaba nella raccolta di saggi Fiaba e Mistero. Cristina Campo attribuisce al genere fiabesco sfumature ben più complesse, non rilegandolo a una narrazione infantile. La sua produzione poetica, infatti, verterà principalmente sulla fiaba, il destino, il misticismo, i simboli e i miti.

Cristina non è una poetessa fruibile, non ha una poetica da ‘’mercato letterario’’ né è di suo interesse esserlo; non frequenta i salotti o le associazioni di alta letteratura: scrive, immagina e produce grazie al suo mondo interiore fatto di riflessioni opalescenti. Per comprendere la poetica dell’autrice è utile citare Diario Bizantino, testo composto da quattro sezioni da cui ben si può evincere la varietà e la sensibilità del suo mondo interiore. L’incipit di quest’opera basta già a tracciare la personalità della Campo:

Due mondi – e io vengo dall’altro.

Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.

In questi versi l’autrice lega la conoscenza acquisita per mezzo della fiaba alla brama necessaria di un ritorno alle origini, ai luoghi dell’infanzia. Una teoria esplicata in modo più dettagliato nel saggio In medio coeli.

Nello stesso saggio la Campo connota alla ‘’perfetta poesia’’ il potere di ricondurre l’uomo a un ‘’sapere antichissimo’’, lo stesso sapere in cui scalcia, prorompe e si agita un primordiale ‘’tripudio infantile’’. In Cristina Campo coesistono le fiabe e la fede: l’autrice accomuna fate ed eroi alle religioni con un obiettivo comune, cercare risposte sui perché della vita; la nascita, l’amore, la morte, l’esistenza tutta.

Le lezioni apprese dalle fiabe ascoltate da bambini grazie ad un’insegnante, i genitori, o una nonna è una guida essenziale che aiuta nella crescita e nella formazione; a superare pericoli e fronteggiare ostacoli: il tutto, mantenendo un necessario legame con l’infanzia. E sarà proprio grazie alla fiaba che un adulto comprenderà il valore e la semantica dei simboli.

Una teoria già acclamata da noti autori di fiabe come Hans Christian Andersen,  il cui obiettivo è educare tramite la fiaba o da Jean de La Fontaine. Quello delle fiabe è quindi un mondo sì magico e ricco di allegorie, ma anche colmo di analogie con il concreto, il reale e il percorso psicologico di ogni essere umano. Diario bizantino è solo la rielaborazione in versi del pensiero e delle teorie sulla fiaba e sul  mondo letterario di Cristina Campo, in cui a predominare è il misticismo e la fiaba ne è porzione centrale:

«Così, se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe».

 

Virginia Woolf: la forza dirompente della parola e la sottile arte con cui è riuscita a coniugare la sua malattia mentale e il desiderio incessante di dare forma al suo essere

E. M. Forster dirà di non aver mai conosciuto una creatura al mondo che amasse tanto scrivere quanto lei. In questa affermazione può essere condensata l’intima essenza di Virginia Woolf. Personalità anticonformista e tenace, artista eclettica e sagace, indefessa pioniera della letteratura moderna. Con la finezza della sua penna ha saputo rappresentare degnamente i travagli e le inquietudini del suo tempo ed affrontare irreprensibilmente i drammi di un’epoca in disuso. Una vita votata interamente alla letteratura e alla lotta contro le oppressioni e le disuguaglianze sociali. Il suo rifiuto alla vita rappresenta la risposta tragica a quel tramonto dei valori verso cui la civiltà della prima metà novecento stava avviandosi irrimediabilmente.

Quando si tenta di tracciare una direttiva che compendi l’intera esistenza di un artista, le strade sembrano diventare quanto mai anguste e prive di sbocchi. E se davanti abbiamo una donna della stazza culturale di Virginia Woolf si rimane persino attoniti: incerti se procedere o ripiegare. È arduo descrivere le impressioni contrastanti che una scrittrice del genere suscita in noi. Virginia Woolf è poetessa visionaria, saggista schietta, romanziera raffinata, critica intransigente, moglie e donna. È tutto questo: eppure nessun universo potrà mai accoglierne l’essenza viscerale e le prismatiche idiosincrasie. In lei la contrapposizione perenne tra perfetto e imperfetto, tra insignificante e imprescindibile trascinano il lettore in uno stato di forte turbamento, di lotta mentale senza tregua. La ragione per la quale siamo abbacinati dalla sua fulgida capacità espressiva e dalla sua grazia nel rendere poetico suono tutto ciò che scrive, fa del suo lavoro un immenso crogiuolo entro il quale calettare la mente facendola riemergere con una consapevolezza nuova. La forza dirompente che imprime in ogni parola e la sottile arte con cui riesce a coniugare la sua malattia mentale e il desiderio incessante di dare forma al suo essere, sono i tratti che la contraddistinguono dai suoi coevi.

Possiamo immaginarla attraversare le vie di Londra alla ricerca di un particolare libro, o accucciata sulla sedia nello scantinato di Monk’s House a registrare avvenimenti e impressioni sul suo diario o a fumare una sigaretta in compagnia di Vanessa, disquisendo sulle sorti della letteratura. Virginia Woolf fu data alla luce il 25 gennaio del 1882 a Londra, da Sir Leslie Stephen e Julia Prinsep Jakson. L’ambiente culturale, entro cui fu precocemente introdotta dal padre, favorì a sviluppare in lei quell’amore per la letteratura che durerà per tutta la vita. Leslie Stephen, scrittore e filosofo di fama internazionale, fu il primo a riconoscerle questa capacità, il primo a cogliere il tratto essenziale del suo carattere: dirà di lei “la mia Ginny sarà sicuramente un autore”. Farà da bambina la conoscenza di personaggi del calibro di Henry James, George Henry Lewes e Julia Margaret Cameron, fonderà un giornalino domestico insieme al fratellino Toby e avrà libero accesso ad ogni scaffale della biblioteca paterna sulla quale fonderà tutta la sua istruzione.

È da tener presente infatti, che alle donne, in quel frangente storico non era concesso né di frequentare le scuole né le università, e tutte le iniziative della Woolf, ossia imparare il greco, il russo, studiare filosofia e la botanica sono tutte iniziative personali, che costituiscono la prova inequivocabile di quell’ardore, di quella autentica pulsione per il sapere, che le farà raggiungere la vetta più alta della prosa inglese. Ella seguì la propria inclinazione letteraria, nonostante la condizione di inferiorità che la società britannica le imputò per nascita, sfidando le rigide imposizioni del canone vittoriano, lottando con gran fervore e attivismo per i diritti e la posizione sociale delle donne. Non a caso, si autodefinì una “outsider”.

I ricordi più vividi e più felici, come lei stessa afferma, furono quelli trascorsi in Talland House, la residenza estiva dei genitori, prospiciente sulla Baia di Porthminster ed è da questi ricordi uniti a quelli tragici della morte della madre quando lei aveva solo tredici anni, causa del suo primo crollo nervoso, che trarrà ispirazione per uno dei suoi lavori più splendidi e di ardua interpretazione: Al Faro. Nei diari si legge:

“Fino a quarant’anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre… Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, pensai Al faro: con grande, involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un’altra… Che cosa aveva mosso quell’effervescenza? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto rapidamente, e quando l’ebbi scritto, l’ossessione cessò. Adesso non la sento più la voce di mia madre. Non la vedo. Probabilmente feci da sola quello che gli psicoanalisti fanno ai pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda”.

Questi saranno gli stessi anni in cui sarà vittima di abusi sessuali da parte dei fratellastri, atto che contribuirà ad accrescere quello stato di depressione che l’accompagnerà in tutta la sua travagliata esistenza. Il 1904 rappresenta un punto di cesura nella vita di Virginia: si assiste al tramonto dell’età vittoriana e ai suoi antichi retaggi; il padre muore lasciando un vuoto incolmabile, e lei, insieme alla sorella Vanessa, si trasferirà in un appartamento a Bloomsbury, un quartiere abbiente di Londra che ogni giovedì sera aprirà le porte ai personaggi più illustri del panorama intellettuale del ‘900, dando vita al Bloomsbury’s Group. E. M. Forster, Lytton Strachey, Clive Bell, sono solo alcune delle personalità che vi fecero parte. In una di quella serate, in cui la libertà intellettuale primeggiava sopra ogni cosa – dove dibattiti accesi su arte, letteratura e politica erano elementi imprescindibili – Virginia Woolf incontrerà il suo futuro marito: Leonard Woolf un giornalista e teorico politico. L’anno successivo comincerà a scrivere per i giornali diretti precedentemente del padre. Il suo ruolo all’interno del circolo letterario rivestirà un’importanza decisiva per la crescita culturale e spirituale del paese. In concomitanza col suo attivismo solerte in movimenti femministi, i suoi studi, incentrati sulla letteratura e sulla critica sociale dell’epoca – in particolare Una stanza tutta per sé e Le Tre Ghinee– saranno i pilastri che sorreggeranno le opere degli scrittori avvenire.

Virginia Woolf è persuasa che la letteratura debba trovare nuove forme di espressione, consone al proprio andamento; che necessita di una trasformazione radicale che sia concorde con la realtà trasformata del suo tempo: la scrittura deve in qualche modo rappresentare la vita nelle forme in cui essa si presenta agli abitatori di quel secolo e coglierne le peculiarità. Essa è stanca dell’usitato magistero della trama tradizionale. E cosi, si mette alla ricerca di una via di fuga da quella che è la prigione del romanzo ottocentesco, oramai obsoleto. L’esistenza ha acquisito un andamento diverso, più consapevole del proprio cambiamento, scandito dai ritmi frenetici delle grandi città, delle metropolitane, degli aeroplani che sorvolano le cittadine. In un saggio scriveva “la razza umana è cambiata”, si è appropriata di una sua particolare consapevolezza, per cui è evidente che non è più possibile adottare il linguaggio precedente. Dal suo lavoro emerge quella voglia innervante di rinnovarsi continuamente, di sperimentare, di superare i limiti inibitori dell’età vittoriana e avversare la staticità creativa in cui la letteratura del suo secolo si era inabissata. Il romanzo può farsi carico dell’emozioni nuove che pervadono il mondo? Può fissare e descrivere quegli aspetti anodini della vita che sfuggono ad uno scrittore prosaico, e che ne costituiscono l’essenza? Le descrizioni dunque non sono semplici espressioni artistiche ma diventano realtà che si manifestano pienamente all’uomo.
Tutto in lei è epifania. Tutto in lei è intuizione improvvisa dell’attimo che sta per dissolversi.

Ho l’idea che dovrò inventare un nuovo nome per i miei libri, con cui sostituire ‘romanzo’. Un nuovo… di Virginia Woolf. Un nuovo che cosa? Elegia? 

E’ con queste parole che in una lettera Virginia Woolf parla del suo lavoro Al Faro. L’opera, fortemente autobiografica segnerà un punto di svolta nell’attività letteraria della scrittrice, imponendo in Inghilterra quel modello stilistico di narrazione che Joyce impose in Irlanda, Proust in Francia e Svevo in Italia, conosciuto come “flusso di coscienza”, in cui la trama tradizionale è abbandonata per dare rilevanza all’introspezione psicologica dei personaggi, e in cui la percezione del tempo interiore assume un ruolo preponderante. Se in La Crociera, Notte e Giorno e La Stanza di Jacob, siamo lontani dalla sperimentazione che magnificherà la Woolf, in La signora Dalloway, testo dalla lirica profonda e travolgente, si possono rintracciare quegli spunti che deflagreranno poi in Le onde, dove la sperimentazione woolfiana raggiunge il suo apogeo e la musicalità delle parole sublima in un profluvio incessante di poesia:

“Non mi ascolti. Stai creando frasi su Byron. E mentre gesticoli col mantello e il bastone da passeggio, io cerco di rivelare un segreto non ancora detto a nessuno; ti sto chiedendo (con la mia schiena contro di te) di prendere nelle tue mani la mia vita e dirmi se sono condannato per sempre a provocare repulsione in coloro che amo”.

Il suo rapporto con le parole è travagliato, irrequieto. Virginia Woolf usa la scrittura per cicatrizzare le sue ferite, per uccidere il fantasma di un passato che si trascina ancora dietro a fatica. Bisogna tenere presente che la Woolf prima di tutto è un’accanita lettrice: ama, più di qualunque altra cosa al mondo leggere, ed è quest’amore incondizionato per la lettura che le permetterà di avere uno sguardo critico sulla letteratura e di essere tra i più brillanti recensori del ‘900. Nei suoi scritti troviamo traccia di quella sua lucidità di giudizio, di quell’acume e ironia sorprendente con cui riesce a parlare liberamente degli artisti e degli argomenti più disparati. La scrittura è per lei vita e morte, gioia e dolore; ma la vita, come la morte, è costante male d’essere: porta con sé innumerevoli tribolazioni da affrontare. E lei, per amor della vita stessa le affronterà con tenacia e perseveranza. Ne La signora Dalloway, scriverà:

Ma che importava allora, si domandò procedendo verso Bond Street, che importava che ella dovesse ineluttabilmente e completamente cessare di esistere; tanto il fervore di vita sarebbe continuato senza di lei; e se ne risentiva forse? O non era piuttosto consolante la certezza che la morte poneva fine a tutto?”

L’abilità stilistica, l’ineffabile senso di urgenza che pervade la sua prosa, la dissoluta irrequietezza dell’anima sua che fluisce prepotente attraverso il pennino bagnato d’inchiostro tracciando sotto la spinta spasmodica della sua mano, ampie volute sul foglio bianco comperato ore prima in una cartolibreria nei pressi di Tavistok Square, dove amava tanto passeggiare, sono il risultato di una padronanza di tecnica narrativa ineguagliabile. La scrittura è inoltre per Virginia Woolf un mezzo per raggiungere una sacralità universale che abbatta le barriere etniche, religiose, politiche e sociali.

“…quando scrivo non sono che una sensibilità. A volte mi piace essere Virginia, ma solo quando sono sparsa, varia e gregaria.”

Insieme al marito subito dopo le nozze, compreranno un torchio tipografico, fondando alcuni anni dopo la casa editrice Hogarth Press, la quale oltre a svolgere un ruolo terapeutico per Virginia Woolf che in quegli anni la depressione stava consumando voracemente, diventa il mezzo efficace per veicolare le idee del gruppo e per stampare in patria i nuovi autori provenienti al di là della Manica, oltre che i suoi lavori. Dopo vari traslochi e innumerevoli viaggi per il mondo, per garantirle un condizione di stabilità e tranquillità, Virginia fu allontanata dal clima caotico e altisonante della capitale per approdare a una dimensione più placida e serafica giù nel Sussex, nella pacifica cittadina di Rodmell. Leonard Woolf assume in questo periodo un ruolo centrale nella vita di Virginia, la quale gli sarà eternamente grata di non averla internata, della costante gentilezza con cui si prende cura di lei, della squisita bontà d’animo con la quale la accudisce e la conforta. Più che un marito assunse sempre più le sembianze di un amico fedele, di un consigliere fidato che l’avrebbe sostenuta sempre in qualunque scelta lei avesse presa.

Ai vari esercizi di scrittura si aggiunge la stesura costante di un diario: un luogo non sottoposto alla rigida severità della sua critica e di quella di recensori famelici, uno spazio aperto dove poter dare voce piena ai suoi sentimenti, a quelle parole che mai avrebbe pronunciate in presenza di nessun essere umano, un luogo idillico in cui rifugiarsi, in cui farsi forza nei momenti peggiori e di congratularsi per i successi, in cui parlare delle gestazioni dei suoi romanzi e delle insicurezze che la attanagliavano, insicurezze così forti da far passare al vaglio costante di Leonard qualunque suo lavoro. Più volte nei diari, ammetterà infatti, di come essa dipendesse totalmente dal suo giudizio. Inoltre confesserà le relazioni avute con alcune donne come Vita Sackville-West e Ethel Smyth, che influenzarono profondamente la sua vita e le sue opere letterarie. Da queste pagine, oltre che alla tenacia, all’estrema vitalità e all’immensa energia rivitalizzante testimone di quanto fosse pervasa la sua infaticabile mente, emerge anche il suo disturbo bipolare, il terribile aspetto della psicosi che tanto la affliggeva, e la sensibilità acuta con la quale ne veniva a contatto.

La malattia è per Virginia Woolf un modo per osservare la realtà con occhi nuovi: paradossalmente, possiamo dire che la sua pazzia alimentava in un certo modo la sua arte. Da essa trae linfa vitale per i suoi scritti. Come se la condizione di instabilità mentale, la sua convivenza con essa, la predisponesse a scandagliare l’abisso senza fondo della sua anima per poi risalire in superficie con una prospettiva differente e una forza corroborante. Del resto, è ciò che accade ad una creatura terribilmente sensibile come lei. Le crisi depressive negli ultimi anni della sua vita si intensificarono e divennero sempre più frequenti. Si fa fatica a proseguire la lettura delle ultime pagine del diario: è dilaniante la certezza che di lì a poco la sua esistenza stia per terminare:

Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so… Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe… Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi”.

Eppure, non sapremo mai i reali motivi che la spinsero a un gesto cosi disperato: forse le prospettive di una seconda guerra mondiale, l’avvento del Nazismo, la malattia che non le avrebbe permesso di dare un contributo artistico e letterario soddisfacente, una certa consapevolezza di aver già scritto tutto e non avere più ispirazione, il pensiero fisso della morte e la sua contemplazione. Possiamo immaginarla uscire dalla casa a Rodmell, la fredda mattina del 28 marzo del ‘41, e dopo aver scritto la toccante lettera al marito, avviarsi verso il boschetto; possiamo ascoltare l’eco sommesso del calpestio e lo scricchiolare delle foglie d’erba sotto i passi incessanti e peritosi. Possiamo osservare un volto avvizzito, provato dal tempo: dai lineamenti duri, spigolosi, le guance scarne, il naso adunco e occhi incavati, ebbri di una stanchezza insostenibile e inenarrabile. Una mano smunta stringe un bastone da passeggio mentre il suo incedere, risoluto aumenta progressivamente ad ogni passo. Cosa pensasse in quel terribile frangente, quali sensazioni albergassero in Virginia Woolf, non ci è dato sapere. Eppure, l’osserviamo dirigersi verso il fiume Ouse, mettere delle pietre nelle tasche del soprabito, immergersi nelle acque profonde e rivolgendo un ultimo intenso addio al mondo, lasciarsi annegare dolcemente.

Ho sognato talvolta che all’alba del Giorno del Giudizio, quando i grandi conquistatori e uomini di legge e di Stato torneranno per ricevere la loro ricompensa – corone, allori, nomi indelebili scolpiti sul marmo imperituro -, l’Onnipotente si rivolgerà a Pietro e dirà, non senza una punta d’invidia, vedendoci arrivare con i nostri libri sottobraccio: «Vedi, questi non hanno bisogno di ricompense. Non abbiamo niente da dare loro. Amavano leggere».

‘Oggetti solidi’, i racconti di Virginia Woolf proposti da Racconti Edizioni

“Oggetti solidi” comprende tutti i racconti e le prose brevi di Virginia Woolf, molti di cui da tempo inediti in Italia. Storie che hanno al centro il ruolo della donna, l’incomunicabilità, la fugacità delle emozioni, l’amore per la vita e per l’indicibile.
Adeline Virginia Woolf, questo il nome completo, è stata una delle più importanti autrici e saggiste inglesi della prima metà del Novecento. Fu una scrittrice di grande valore letterario, che sperimentò sempre nuove tecniche di scrittura, ma fu anche un’appassionata sostenitrice delle lotte per i diritti delle donne e la parità tra i sessi.

Uno dei tratti peculiari della sua scrittura è la continua sperimentazione, e in particolare l’attenzione alla psicologia dei personaggi e l’uso del flusso di coscienza, una tecnica sviluppata sotto l’influenza degli studi psicanalitici di Sigmund Freud, usata qualche anno prima anche da Joyce nellUlisse, e che consiste nella libera rappresentazione del flusso dei pensieri di una persona, così come si presenta nella sua mente, reso sulla pagina tramite l’uso del monologo interiore. Sono questi i tratti che si ritrovano in alcune delle sue opere più celebri, come La signora Dolloway, Gita al faro e Orlando.

Tra i saggi di Virginia Woolf merita di essere ricordato Una stanza tutta per sé, che ripercorre la storia letteraria della donna, e rivendica il suo pieno riconoscimento nel campo della cultura, fino ad allora appannaggio maschile. Un’analisi profonda del ruolo della donna, e delle discriminazioni sociali che subisce in società; un’analisi che investe anche il linguaggio, che la scrittrice decostruisce, per rivelarne il portato patriarcale.

Oggetti solidi, proposto da Racconti Edizioni, con una copertina disegnata da Franco Matticchio, comprende tutti i racconti e le prose brevi di Virginia Woolf, molti dei quali inediti in Italia. Un volume che non si limita a mettere insieme i racconti editi nelle diverse raccolte dell’autrice, ma rintraccia e accoglie anche manoscritti e testi pubblicati su rivista, e che per ogni testo fornisce i relativi riferimenti bibliografici.

Virginia Woolf scrisse questi racconti durante l’intero arco evolutivo della sua opera, dalle prime sperimentazioni del flusso di coscienza fino ai toni più ombrosi della maturità. Queste prose letterarie rappresentano dunque un viatico diretto per il suo universo linguistico e tematico. Il ruolo della donna, l’incomunicabilità, la fugacità delle emozioni, l’amore per la vita e per l’indicibile, attraversano tutte le sue storie con incredibile consistenza fra le pieghe di una quotidianità che si approssima in modo inaspettato all’universale.

 

Fonte:

http://www.illibraio.it/racconti-virginia-woolf-414132/

‘Una Stanza tutta per Sé’: il “femminismo” di Virginia Woolf

Una Stanza tutta per Sé (1929) di Virginia Woolf è uno tra i suoi preziosi capolavori che si ama ricordare. Il nome di Virginia Woolf non necessita di ampie presentazioni o preamboli. Senza dubbio è una tra le autrici più prolifiche del Novecento e la critica continua a interrogare i suoi lavori. Questi ultimi di stagione in stagione si arricchiscono di sfumature e rivelano i risvolti inediti di un genio e di una intellettuale come poche se ne insigniscono i secoli.

Possiamo partire da qui, da questo testo che è ancora in grado di significare e far pensare sull’odierno stato di cose. Oggi che i gender e cultural studies stanno affermandosi anche in Italia, dimostrano quanto il dibattito in merito qui sia ancora problematico, incerto e muova i primi passi. E allora non si può non partire da Una Stanza tutta per Sé, pietra angolare nell’ondata del ’68, di quel femminismo firmato Carla Lonzi ma che oggi sembra essersi interrotto o che comunque ha preso pieghe stucchevoli. Senza esitazione, senza quel ‘politically correct’ che domina la nostra cultura che opta sempre per il vile pudore del ‘compromesso’ storico e intellettuale, Una stanza tutta per sé è un testo femminista, per le donne e sulle donne. Qualcosa è cambiato per le giovani intellettuali di oggi rispetto ai tempi di cui queste pagine sono figlie? L’eredità è stata coltivata? Scrivere su questo testo non elude da una questione di genere e dal porsi qualche interrogativo.

Nell’introduzione del libello di Virginia Woolf di si legge: “L’unica vita eccitante è quella immaginaria. Appena metto in moto le rotelle nella mia testa non ho più molto bisogno di soldi o di vestiti, e neppure di una credenza, un letto a Rodmell o un divano”. Con questo stato d’animo Virginia Woolf si accingeva ad affrontare la questione femminile, per realizzare sotto forma di saggio-narrazione l’opera Una Stanza tutta per Sé. La Storia per la Woolf deve essere letta attraverso i suoi ‘vuoti’ oltre che attraverso i suoi ‘pieni’. Ed è per questo che decide di raccontare la storia dell’assenza, abitata dai fantasmi delle donne nella Storia. Nel gennaio del 1928 infatti le viene chiesto di tenere due conferenze ai collegi femminili di Girton e Newnham, sul rapporto tra le donne e il romanzo.

La lunga fatica per la conferenza lascia nell’autrice l’amara constatazione che le giovani donne fossero affamate tanto quanto coraggiose, intelligenti, avide ma povere, destinate a divenire nelle migliori delle ipotesi delle diligenti maestre. L’impressione della Woolf è che il mondo stesse cambiando e la ragione si stesse facendo strada, ma sempre nella medesima direzione, in nome di quegli Universali che tuttavia escludevano ancora una volta proprio le donne. Nuovamente deprivate di una conoscenza più corposa della vita, in Una Stanza tutta per Sé si legge: “Come contiamo poco e come tutte queste moltitudini annaspano per restare a galla”. Virginia Woolf osserva da spettatrice il movimento delle donne per la conquista del diritto di voto (si ricordi il Congresso della Lega cooperativa delle donne1913), pur consapevole della sua posizione privilegiata che le consente di dedicarsi alla letteratura e allo studio. Uno dei filoni tematici che accompagnano la Woolf nella sua produzione è il tema donne-corpo-linguaggio e donne-condizione sociale-letteratura. In Una Stanza tutta per Sé l’autrice sottolinea i passaggi dell’esclusione delle donne dalla Storia, nel senso degli avvenimenti e nelle azioni politiche e storiche sia rispetto alla letteratura. La stessa Woolf è vittima di questa esclusione, infatti non frequenterà l’università proprio in quanto donna.

La costruzione particolare del testo, strutturato come un saggio-narrazione, risponde ad un’esigenza precisa dell’autrice. Per dare parola alle donne Virginia Woolf ricerca altri linguaggi e altri toni, in quanto i modelli della cultura ufficiale non tengono conto delle donne. È per questo, infatti, che il linguaggio e lo stile che la Woolf adotta per le descrizioni dei personaggi femminili, si basano molto sull’utilizzo di immagini, come un pittore che dispone di una tavolozza.

Tuttavia in Una Stanza tutta per Sé si ha la sensazione che molte questioni restino amaramente irrisolte. L’unica certezza che la Woolf sembra poter offrire alle sue ascoltatrici di ieri e alle lettrici di oggi, è la convinzione che se una donna vuole scrivere romanzi (e non solo aggiungo) è necessario che possegga del denaro ed una stanza tutta per sé.

Tra le numerose immagini che la Woolf ritrae tra le pagine del romanzo, mi sento di menzionare quella  della mensa, raffinato  parallelismo che evoca quella del simposio del dialogo platonico. Ulteriore dettaglio degno di nota riguarda il momento in cui Virginia Woolf cerca libri sulle donne. Trova moltissimi testi, tutti scritti da uomini, ‘senza alcuna riconoscibile qualifica eccetto il fatto di non essere donne’. Si ritrova in difficoltà rispetto al ragazzo che le siede affianco in quanto, non avendo potuto frequentare l’università, manca di metodo nel condurre una ricerca di tipo scientifico. I titoli dei libri che trova sono Più deboli in senso morale di donne, Ridotte dimensioni celebrali delle donne, Inconscio più profondo delle donne, Amore per i bambini nelle donne. Trova in questi scritti rabbia e collera che si manifestano sotto forma di satira e biasimo. Ergo, da qui deriva per un patriarca l’enorme importanza di sentire che moltissime persone, addirittura metà della razza umana, sono per natura inferiori a lui.

L’assenza delle donne nella Storia e nella letteratura è sintomatico. Tuttavia secondo la Woolf  “L’odio nei confronti degli uomini rende la produzione letteraria delle donne peggiore, in quanto risulta ostacolata e condizionata dalla rabbia repressa. È proprio per questo che è necessario ricercare l’autonomia, per liberarsi dalla sensazione di dipendenza e dalle possibilità di provare risentimento”.

Occorre secondo l’autrice prendere l’abitudine alla libertà e al coraggio; guardare gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; perché nessun essere umano deve precluderci la visuale:

“Se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale dobbiamo appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità”.

Clotilde Marghieri: passione, audacia ed ironia

La scrittrice napoletana Clotilde Marghieri (Napoli, 1897 – Roma, ottobre 1981), non si è mai definita una professionista della letteratura, eppure si è dedicata alla letteratura con estrema passione, coraggio ed ironia di chi ha voglia di ricercare sempre e comunque la verità.

L’opera con cui esordisce è Vita in villa del 1960, nella quale l’autrice dimostra di conoscere non soltanto le piante e le erbe del suo giardino, ma anche i vizi, le virtù, i sentimenti, i difetti delle persone che la circondano: Filomena e Timoteo, il poeta cinese Chem-Shi-Hsiang, la duchessa X e la duchessa Carafa, l’autista dell’ambasciatore. La Marghieri offre una variegata galleria di ritratti attraverso un gioco di stile che sfocia a volte nell’ironico (ma sempre con garbo), altre nel patetico (ma sorridendo). La scrittrice partenopea si avvale di un dialogare spigliato, arguto, fatto di ammiccamenti che rendono la lettura ancora più piacevole e nella quale si percepisce l’amore della Marghieri verso i suoi luoghi, le sue genti, le sue cose, come una madre. Questo è Vita in villa, un libro d’amore celato sotto la sottile pelle del risentimento e del dispetto come lo ha giustamente definito Angioletti.

Sembra proprio ben fondata la teoria che vuole le donne realizzarsi meglio nella dimensione autobiografica, un esempio su tutte è Virginia Woolf e Clotilde Marghieri non si sottrae di certo, della quale possiamo collocare accanto a Gli anni della Woolf, Le educande di Poggio Gherardo del 1963, oltre a Vita in villa, naturalmente.

In questa sua seconda opera, la scrittrice è sottilmente ironica e solitaria nell’indagare sull’anima femminile; la narrazione comincia con l’entrata in collegio della protagonista, figlia di genitori difficili, amata molto dal nonno e dalla nutrice. Nel collegio la bimba dimostra di aver recepito le idee laiche ottocentesche del nonno, probabilmente scientificiste, sicuramente religiose, con una vena volterriana, la quale rappresenta una delle trovate più felici del racconto insieme alla natura estrosa della protagonista.

Tuttavia la Marghieri non insiste troppo su questo aspetto, le pagine in cui la bambina, di fronte ai smboli religiosi, si sente diversa dalle sue compagne tanto da indurle nel dubbio; a a tal proposito è emblematico l’episodio della Comunione, descritto con un realismo audace che avvia il racconto verso un altro tono, più drammatico che strizza l’occhio al sottile psicologismo di Marivaux. Non manca una certa curiosità di vita che la Marghieri utilizza per riempire il vuoto e l’ozio di un collegio di ragazze con i loro segreti amorosi, la loro sensualità inconsapevole, la loro ritualità. Dentro quest’aria barocca un cui è avvolto il collegio si respira quindi qualcosa di inconsapevole e di irriverente, ovvero il volterrianesimo, lo scetticismo, l’agnosticismo di Voltaire, oltre alla conturbante sensualità che si scontra con il puritanesimo.

Lo stile della Marghieri è ardito, duttile, scandaglia le anime delle adolescenti che si affacciano alla vita, nemmeno qui mancano efficaci ritratti colti nel sentimento più impalpabile.

Clotilde Marghieri è cresciuta nell’alta borghesia napoletana, ma lascia senza scrupoli il bel mondo privilegiato dei salotti per trasferirsi a Torre del Greco e narrare di storie quotidiane, di piccole battaglie, vivendo totalmente la sua indipendenza, la sua passione e il suo sdegno, dando vita ad un linguaggio che oscilla tra il classico e il parlato, facendo riferimento alla letteratura settecentesca europea per raccontare la gente del Vesuvio, calda come il suo Vulcano.
La scrittrice ha collaborato anche con giornali e riviste pretigiose quali “Il Mondo”, “La Nazione”, “Il Corriere della Sera”,“Il Mattino”, “Il Gazzettino”. Vince nel 1975 il Premio Viareggio con il romanzo Amati Enigmi.

Mrs Dalloway: la complessità della vita in una sola giornata

Se dovessimo descriverlo attraverso poche parole, diremmo sicuramente che Mrs Dalloway di Virginia Woolf questo rappresenta uno dei più bei , intensi e riusciti romanzi scritti durante il primo Novecento. Pubblicato nel 1925, il romanzo narra la giornata di Mrs Dalloway e di altri personaggi mostrati, dall’autrice, sia in primo piano che sullo sfondo.

La storia di “Mrs Dalloway” si svolge in una sola giornata, qualche anno dopo la Prima Guerra Mondiale, sufficiente però a ritrarre la complessità della vita, il predominio delle mente che tutto assimila e l’instancabilità del pensiero che trascende lo spazio, mescolandosi con i ricordi.

In Mrs Dalloway, l’autrice utilizza la tecnica del monologo interiore per descrivere uno scenario in cui, la nostra protagonista, la cinquantenne borghese  signora Dalloway, si mostra quale rappresentazione della società britannica di inizio Novecento, con i suoi pregi e i suoi difetti. Una società snob, una donna che la incarna e un uomo, Peter Walsh, consapevole di ciò ma che, nonostante tutto, non riesce a smette di amarla. E così, fugge. Da ciò che rappresenta quell’amore-odio dal quale non si può scappare.

Un oggetto porta e nasconde in se il mistero di un ricordo perso e forse, soffocato dall’inconscio. Così il movimento ondeggiante di una foglia può ricordare a Clarissa la passione per la danza o le lunghe cavalcate a Bourton. L’incontro con Hugh Withbread porta alla donna, ancora una volta, nel mondo dei ricordi legati alla sua giovinezza. Ma resta il pensiero di Peter, ad accompagnare le ore che scandiscono il tempo. E ancora lei, Clarissa che prende vita in queste 200 pagine portando con se un alone di mistero per quella malattia dalla quale è appena uscita ma di cui, la Woolf, non parla mai in modo diretto. Quasi volendola celare con ostinazione e vergogna.

Parole, quelle della Woolf, che mostrano un dolore celato dagli eventi, un dolore che altri non è se non quel “mostro, quell’odio come un formicolio lungo la schiena”. Tutto il dolore che si rispecchia in un’autrice che, prima di riuscirci, ha tentato più volte di strapparsi la vita. La stessa Woolf dirà di sè :“Quando scrivo non sono che una sensibilità. A volte mi piace essere Virginia, ma solo quando sono sparsa, varia e gregaria.

La narrazione di Mrs Dalloway si sofferma su diversi avvenimenti che riguardano persone differenti e vari punti di Londra, ma che avvengono tutti nello stesso momento. Un attimo che si estende trascinando con se il lettore in un’opera letteraria senza tempo.

Il tempo, è lui il vero protagonista. Non possiamo trascurare il particolare legato al titolo che, inizialmente, la Woolf, voleva dare al suo libro, “Le ore”. Ogni personaggio viene ad essere caratterizzato dal suo rapporto con il tempo. Ma quel tempo, questo tempo, non è solo quello esterno, quello che riusciamo a captare attraverso le informazioni date dall’autrice, una data, un periodo storico, i rintocchi del Big Ben. Il tempo, quello che travolge il lettore, è quello interiore di ogni personaggio, quello collegato a quelle caverne di cui la Woolf ci parla nel suo diario.

Avrei molto da dire intorno a “Le ore” e alla mia scoperta: come io scavi bellissime caverne dietro i miei personaggi, questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità, profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al momento giusto.” (Virginia Woolf, “Diario di una scrittrice”, 29 agosto 1923)

E qui, in queste pagine, nasce l’alter ego di Septimus, il cui tragico suicidio coinvolgerà e turberà Clarissa. Ma non ci sarà pietà per quest’uomo che, secondo la nostra protagonista, mostra così, attraverso il suicidio, il suo egoismo. Clarissa si immedesima così nel giovane suicida, spinta da una profonda riflessione sulla sua vita, il suo primo pensiero alla notizia del suicidio di un ragazzo di trent’anni è: «Oh… Nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte» trovando sconveniente che a una festa si parlasse di disgrazie. E ancora una volta appare quell’egoismo che rappresenta il suo carattere, quello snobbismo che mostra una società intera. Appresa la notizia, Clarissa si rifugia nella sua camera mostrando una maleducazione proprio dell’ Inghilterra del primo Novecento.

Lei è la nostra anti-eroina, a mostrarci un romanzo che, ancora una volta, mostra la forza di una scrittrice fuori dagli schemi, una donna che affermava di andare in depressione dopo aver finito di scrivere un libro. Una donna, unica e sola, in grado di descrivere quella realtà di cui ancora oggi facciamo parte, con le nostre fragilità, i nostri dubbi, le nostre incertezze, le nostre paure. Un mondo reale descritto attraverso parole che potrebbero essere rilette mille e mille volte ancora, portandoci in quella Londra del ‘900 probabilmente ancora attuale.

Parole, domande, incertezze, ricordi. E quel finale attraverso cui giungiamo dinanzi ad una sola realtà: la vita, con tutti i suoi momenti, le persone che incontriamo, con tutte le loro mille contraddizioni, gli errori, i ricordi, che sono da sempre la nostra forza, mostrano la certezza di una vita sempre degna di essere vissuta.

“Che cos’è questo terrore? Che cos’è quest’estasi? Che cos’è che mi riempie di un’emozione senza pari?” A chi di noi non è mai capitato di vivere intensamente un solo attimo, tutta una vita con le sue complicazioni in una sola giornata?

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