‘Sei stato felice, Giovanni’, di Giovanni Arpino, un inconsueto romanzo del dopoguerra

Appena si termina la lettura di Sei stato felice, Giovanni, romanzo del 1952 di Giovanni Arpino, di colpo si potrebbe avvertire con forza la necessità di piangere, sentendosi subito dopo più leggeri. Tale reazione per alcuni può risultare abbastanza inconsueta, soprattutto se il libro in questione non è un testo romantico, né drammatico, semmai un’opera neorealista, avventurosa, scritta con disinvoltura e leggerezza, che conduce ad un possibile felicità la quale giustifica il pianto precedente.

Il romanzo di Arpino era in netta contrapposizione con lo stile serio della maggior parte dei romanzi italiani del dopoguerra.

Nel 1950 Giovanni Arpino ha appena 23 anni quando decide di scappare da Torino per approdare a Genova, dove prendendo alloggio in una lurida e sporca pensione, mangiando male ed il minimo indispensabile, in venti giorni partorisce la sua opera prima, per l’appunto “Sei stato felice, Giovanni”. Ricopia in fretta e furia il manoscritto a macchina e lo invia all’Einaudi, dove Italo Calvino non ne è convinto del tutto, ma grazie ad Elio Vittorini, per il quale il romanzo è da stampare “senza esitazioni” il romanzo vedrà la luce.

È proprio a Genova che Arpino decide di ambientare questo romanzo, facendo aggirare Giovanni, il protagonista, ed i suoi due amici Mangiabuchi e Mario, per i suoi vicoli ed il porto, mostrandoci e conducendoci per mano in una città che cerca faticosamente di rialzarsi dai danni della guerra.

Dei tre, Giovanni, è l’unico ad amare la lettura, e fa i salti mortali per avere la propria indipendenza, per vivere in una camera di un povero albergo e potersi ritagliare i propri spazi per leggere. Nonostante sia circondato dalla povertà, da compagnie non di certo illuminanti, e cerchi di vivere alla giornata cercando in continuazione trucchi per sopravvivere, i libri rimangono quella perenne finestra aperta verso la felicità, da lui tanto agognata.

Sono il suo rifugio sicuro che gli permette di poter gridare al mondo la sua diversità da chi, come ci dice riferendosi a Mangiabuchi: “Non sapeva né pensare né non pensare, vivere giorni seduto su uno scalino, solo mangiare e dormire sapeva e neanche bene”.

Se a Giovanni gli avessero sottratto il suo sentirsi diverso, estraneo da tutti, probabilmente non gli sarebbe rimasto più nulla. È la sua unica ancora, alla quale si appiglia con forza fin dalle prime battute. Sono intrise di visioni del futuro queste pagine, colme di paura per quel che sarà e ci sarà, e ci si rende conto facilmente con l’avanzare delle pagine di quanto sia cambiato essenzialmente poco da quel che dovevano provare i giovani nel dopoguerra, dove vi erano mille incertezze e incognite, alla sensazione di spaesamento e solitudine che si ha oggi, nel 2022. Si è tramandata quella perenne sensazione di vagabondaggio del destino, che non volendosi definire o delinearsi naturalmente davanti ai nostri occhi man mano che si cresce, ci fa girovagare senza meta, spaesati, cercando forsennatamente di raggiungerlo.

In ogni epoca, i giovani hanno sempre avuto problemi. Dopotutto sono i nuovi, gli appena arrivati, e come tali devono adattarsi ad un mondo già avviato, lanciato a tutta velocità su binari ben collaudati, e l’adattamento in qualsiasi ambito lo si faccia, non è mai facile. Esser giovani per Arpino è sinonimo di libertà, di notti insonni, di assenza di legami, vuol dire svegliarsi a sonno finito, andare al porto e camminare. Significa pensare in continuazione a come dare una svolta alla propria esistenza, trovare un lavoro che appaghi, che faccia fare una barca di soldi, ma al contempo non averne neanche più di tanto voglia, perché le giornate scorrono troppo in fretta e si ha anche voglia di trastullarsi,
bere, fumare, leggere.

Giovanni non è felice, ed il motivo è semplice, non è soddisfatto di quel che fa e mentre i suoi amici si accontentano di sopravvivere, saltando di giorno in giorno da un lavoro occasionale all’altro, lui soffre e si vede immobile, perché in cuor suo pensa di meritar di più. Quindi non appena si siede ad un bar per bere una birra, sente d’aver appena soddisfatto un bisogno, quello della pigrizia, della nullafacenza, è sereno lì seduto a guardare il mondo che gli scorre di fianco, ma non trascorre molto tempo prima che gridi disperatamente tutta la sua insoddisfazione e voglia di cambiare: “Venir fuori e mettersi per le strade a fare qualcosa, qualsiasi cosa per cui un uomo è un uomo e non solo una mano che dipinge cassette. Ero stato un mucchio di cose, mai un uomo che comincia a muoversi davvero.”

Le prova tutte Giovanni per essere felice, finché stremato nell’ultima parte del romanzo si arrende, e fissando il busto di un poeta che incontra passeggiando, gli parla guardandolo in faccia, senza timori, sfrontato, tirando fuori parole pesanti come mattoni, lasciandole lì ai suoi piedi. Quasi a togliersi un peso, che non gli permetteva più di muoversi.

“Io so solo che sono stato felice e che darei l’anima per poterlo essere ancora un poco. Sicuro, sono stato felice, ma non basta. Non basta mai”. Giovanni vuole andarsene da Genova, e lo fa, prendendo un treno direzione Roma e riponendo tutto quel che ha nella speranza.

La speranza che tutto quel che avrebbe avuto nella capitale sarebbe stato lontano anni luce da quel che aveva avuto fino al giorno prima. Voleva scordarsi della fame, dei debiti, dell’indefinito.

Non dorme in treno, non ci riesce, la speranza è troppa.

Grazie a Giovanni, si può riuscire ad esser felici.

Cesare Pavese editore, più interessato ai classici e ai saggi che ai romanzi

Un approfondimento, ricco di aneddoti, dedicato al lato meno noto di Cesare Pavese dove, in parallelo con la propria scrittura, lo si vede intento a organizzare quella degli altri dalla scrivania di una casa editrice, l’Einaudi degli inizi.
Allora come ora, un editor di narrativa poteva avere ogni tanto la tentazione di ribellarsi. Se poi si chiamava Cesare Pavese, immensa capacità di lavoro e carattere virante al brusco, poteva anche scrivere, nel primo dopoguerra, una lettera di questo tenore a qualche incauto: “Caro signore, ricevendo noi molte proposte, abbiamo dovuto sviluppare un sesto senso, e così fiutare l’ingegno e le capacità di uno scrittore dal suo tono epistolare. Il suo ci pare non prometta nulla di buono. Per ciò non dia corso all’invio dei manoscritti”.

La cita Gian Carlo Ferretti nel saggio (uscito per Einaudi) L’editore Cesare Pavese, che fa seguito ad analoghe ricerche sull’editoria libraria del Novecento – ricordiamo almeno L’editore Vittorini e il lavoro su Niccolò Gallo (Storia di un editor, Il Saggiatore) oltre alla monumentale Storia dell’editoria letteraria in Italia 1945 – 2003 (ancora Einaudi). Qui si affronta il lato meno noto di Cesare Pavese dove, in parallelo con la propria scrittura, lo si vede intento a organizzare quella degli altri dalla scrivania di una casa editrice. Fu infatti un grande protagonista nella prima, decisiva fase dello Struzzo (assunto il 1 maggio 1938, ci lavorò fino al 27 agosto del 1950, giorno del suicidio in una camera dell’hotel Roma), quando si posero le basi di quella che sarebbe poi stata l’Einaudi negli anni più fortunati dell’egemonia culturale, esercitata per un lungo periodo.

Al tempo di Cesare Pavese, la sfida era ancora agli inizi; la casa editrice era piccola e faticava a trovare autori di buon nome, soprattutto nella narrativa. Il giovane redattore si dedicava un po’ a tutto: dal ‘40, quando Leone Ginzburg, che era stato il grande ispiratore di Giulio Einaudi, venne mandato al confino in Abruzzo, toccò a lui esercitare di fatto il ruolo di direttore editoriale. A Roma fra il gennaio e il luglio ’43 si occupa della nuova sede -aperta nel ’41 -, poi torna a Torino tra bombardamenti e traslochi di fortuna, tiene i rapporti con i collaboratori, legge i testi, progetta collane, si occupa di contratti, è di nuovo a Roma, città che mal sopporta, nel ‘45. “Lavoro come uno schiavo egizio”, proclama non senza ironia – lavorare è per lui una ragione di vita -; si arrabbia spesso, i suoi giudizi sono quasi sempre sferzanti.

Ferretti fa emergere un aspetto sin qui assai poco noto: a differenza poniamo di Elio Vittorini – o dell’amatissimo allievo Italo Calvino – Pavese non ha un vero interesse in quanto editore per la narrativa (né per la poesia: nel ‘50 scriverà al giovane Edoardo Sanguineti, che gli ha presentato le sue prime prove: “Questa non è poesia, e nemmeno stile; sono giochi di prestigio”); tanto che appena può, a guerra finita, lascia volentieri per esempio a Natalia Ginzburg l’onere di occuparsene. A lui premono i classici, e naturalmente i saggi di antropologia che pubblica nella Collana viola, una delle iniziative più “scandalose” della casa editrice perché i nomi proposti facevano parte di una cultura bollata nel dopoguerra come “irrazionale”, e considerata sinonimo di fascismo.

Da Mircea Eliade e Georges Dumézil, per non parlare di Leo Frobenius (la cui Storia della civiltà africana venne pubblicata con una prefazione di Ranuccio Bianchi Baldinelli che accostava l’autore a Rosenberg e ai nazisti), molti dei titoli erano allora considerati impresentabili e “pericolosi”. Tanto da doverli proporre con prefazioni-anatema per vincere la resistenza degli studiosi marxisti. Qualche nome era seriamente imbarazzante: per esempio Eliade, legato durante la guerra alle “guardie di ferro” rumene, alleate dei nazisti, e riparato in America dopo il ‘45, ma studioso di primissimo piano. “Non c’è passato per la mente di esaminare la fedina penale dell’Autore – scrive Cesare Pavese a Giolitti nel ‘49 – in quanto non si tratta di opere di politica o di pubblicistica. Qualunque cosa faccia l’Eliade, come fuoruscito, non può ledere il valore scientifico della sua opera”.

Fuoruscito è un eufemismo quanto meno delizioso. E la grandezza di Pavese editore sta anche nei particolari. Ferretti ne offre un quadro molto convincente, riprendendo e risistemando le ricerche già compiute con nuove scoperte d’archivio. A differenza degli editori-scrittori che sono stati molto importanti nel Novecento, e ai quali è dedicato lo studio ormai classico di Alberto Cadioli appena uscito in una nuova edizione arricchita (Letterati editori, attività editoriale e modelli letterari del Novecento, Il Saggiatore), Cesare Pavese sembra ogni volta prescindere dal proprio essere (innanzi tutto?) un autore, gettandosi senza interferenze nell’organizzazione culturale: il che può essere letto come una forma di risentito ascetismo sabaudo, non privo di eroismo. Ma non senza eccezioni: ci sono giudizi in cui si sente battere il cuore di chi ha scritto, poniamo, La Luna e i falò. Come questo su Hemingway, dove sottolinea – e che cosa, no? – il “lavoro ben eseguito, la pagina asciutta, diretta ed essenziale, la tecnica, ultima dea che ispiri il tragico uomo occidentale”.

 

Fonte:

http://www.illibraio.it/editor-pavese-482668/

“Il sergente nella neve”, il capolavoro di Mario Rigoni Stern

Mario Rigoni Stern

<<Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno>>. L’incipit del capolavoro dello scrittore veneto Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” (1953) racchiude memoria e poesia, natura e testimonianza in quello che è senza dubbio uno dei romanzi più belli e classici del Novecento, un diario di guerra che racconta come in circostanze tragiche si possa e si debba mantenere la propria umanità. Uomini che restano uomini tra le barbarie della guerra, uomini che hanno paura, freddo, fame, ma che sanno addirittura ridere delle proprie disgrazie e considerare i nemici semplicemente degli uomini come loro, i russi vengono descritti come gli italiani, nella loro fragilità: <<Sono giovani e non hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e compunta, guardinga>>.

Il cammino letterario di Stern comincia proprio in questo modo, durante la guerra:  Stern è un  giovane alpino, sergente maggiore scampato alla ritirata di Russia dell’esercito italiano tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, capace di guidare un gruppo di soldati  allo sbando fuori dalle linee di fuoco. Divenuto improvvisamente responsabile delle vite di molti uomini, viene catturato dai tedeschi ed è costretto a sopravvivere per più di due anni nei lager di Lituania, Slesia e Stiria. La prigionia  dà modo allo scrittore di riflettere sulla sofferenza ma anche sul valore della letteratura, che diventa veicolo per le sensazioni e i ricordi, luogo della testimonianza e della memoria, della fratellanza e della riscoperta del significato di essere uomini, che  coincide soprattutto con il non lasciarsi sopraffare dalle bruttezze della Storia , dal relativismo delle circostanze.

Leggendo “Il sergente nella neve” si è paradossalmente pervasi da un senso di pace e di tranquillità, è straordinario e commovente, quasi infantile come Stern riesca a raccontare il dolore e la disperazione, senza retorica e crudezze, ci tocca e ci emoziona con immediatezza e delicatezza,  trasmettendoci un profondo senso di  moralità. Stern descrive la nostra essenza che fa da eco a quella della montagna e del bosco, la semplicità della quotidianità pur trovandosi una situazione estrema  dalla quale però emerge la certezza della speranza. Il modo di narrare utilizzato dallo scrittore accarezza il lettore, conducendolo dolcemente a scoprire i  silenziosi segreti della natura, con le sue stagioni e fenomeni atmosferici, dai quali l’uomo può trarre forza.

Particolare ed universale si fondono magicamente; questa è la cifra di Stern, lo si nota anche nei romanzi successivi “Il bosco degli urogalli”, “Storia di Tönle”, “Le stagioni di Giacomo”. Come Hemingway in “Addio alle armi”, Mario Rigoni Stern ha portato nuova linfa, freschezza e serenità nel romanzo italiano, fattore che fa de “Il sergente nella neve” un classico imperdibile del Novecento, statico e plastico nella prima parte e incalzante e dinamico nella seconda, non è avvolto dalla ricercatezza formale ma dall’esperienza diretta che fa esprimere l’autore in un certo modo, che gli fa descrivere  quel microcosmo in cui si trova in un certo modo. Lo scrittore di Asiago osserva; non scrive con la testa ma con gli occhi e riporta tutto ciò che vede, sente e annusa sulla carta con grande precisione.

Il sole, la neve, l’inverno, la primavera, il bosco, l’attesa di ritornare a casa, l’uomo che guarda in faccia al suo simile senza provare vergogna perché non si è lasciato dominare dalla brutalità e dalla violenza della guerra, dalle circostanze che, ormai è assodato che costituiscano un’ attenuante ai nostri gesti ed azioni più esecrabili. Come afferma  Elio Vittorini nel manoscritto con una esplicazione che volle aggiungere, “Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini, […] Se questo è successo una volta, potrà tornare a succedere.Potrà succedere a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”.

Succederà?

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