Ricordando la poetessa Antonia Pozzi a 110 anni dalla sua nascita

Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 Febbraio 1912. Figlia di Roberto Pozzi, rinomato avvocato, e della contessa  Lina Cavagna Sangiuliani trascorre un’infanzia serena e ricca di stimoli intellettuali. Antonia, infatti, appartiene a una delle più facoltose famiglie lombarde; dapprima, risiede a Milano nei pressi di Corso Magenta. Solo nel 1917 la famiglia decide di acquistare una villa settecentesca  a Pasturo, in Valsassina (Lecco).

L’antica villa sarà un luogo cardine per Antonia: il famigerato nido pascoliano in cui amerà tornare, di volta in volta, sia per immergersi nello studio della sua biblioteca sia per trovare gli spunti adatti alla sua poesia: la natura e le adorate montagne. La parentesi adolescenziale della poetessa lombarda produce i primi tormenti all’interno del suo animo; Antonia Pozzi studia al liceo classico Manzoni, ed è proprio qui che intreccia una passione amorosa con il suo insegnante di latino e greco, Antonio Maria Cervi. La relazione dura fino al 1933 e, fino a quel periodo, i genitori cercano di osteggiarla in ogni modo.

Antonia Pozzi: un animo ipersensibile

La grande italianista Maria Corti descrive Antonia Pozzi come un vortice di ipersensibilità, dalla cui sommessa e dolce inquietudine estrapolava una potente angoscia creativa; la Corti paragonava il suo animo alla selvaggia vegetazione di montagna, quelle piante che crescono lungo i crepacci e che per necessità devono essere libere di espandersi, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso. Una comparazione lineare con lo spirito della poetessa poiché erano proprio gli elementi presenti in natura a consolarla << più dei suoi simili>>.

Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, frequentando il corso di Filologia Moderna: gli anni universitari sono fondamentali per la giovane Antonia poiché non solo acuisce e intensifica i suoi interessi culturali ma conosce nomi importantissimi del futuro panorama letterario: i filosofi  Enzo Paci ,Remo Cantoni e Dino Formaggio. Qui stringerà un’amicizia fraterna con un altro grande nome della poesia italiana, Vittorio Sereni. Di lui, la Pozzi, dirà:

<<Quell’essere di sesso diverso, così vicino che pare abbia nelle vene lo stesso tuo sangue, che puoi guardare negli occhi senza turbamento, che non ti è né di sopra né di fronte, ma a lato, e cammina con te per la stessa pianura>>.

Si laurea con Antonio Banfi nel 1935, discutendo una tesi su Gustave Flaubert.

 

Le leggi razziali e le prime avvertenze di cupa inquietudine

Antonia viaggia, coltiva la passione della fotografia, ama le escursioni in bicicletta immersa nella natura, progetta un romanzo storico sulla Lombardia e studia il tedesco, l’inglese e il francese. Tuttavia, appartengono a questo momento storico le prime sfumature di cupa inquietudine.

Antonia sente che il clima politico si è incupito; quasi profetica, immagina la tragedia, la sente avanzare. Nel 1937, nel tentativo di trovare un equilibro, ricostruire sé stessa ed emanciparsi dai genitori, inizia a insegnare letteratura presso l ‘Istituto Schiaparelli di Milano. Dopo aver trascorso l’estate del 1938 fra Pasturo e Misurina, progettando il grande romanzo storico lombardo che aveva in mente, l’avvento delle Leggi razziali nell’autunno 1938 si  scaraventa ingiustamente contro molti dei suoi amici, alcuni dei quali espatriano o si trasferiscono.

La sua migliore amica, Elvira Gandini, si è sposata e si è trasferita in Valtellina; un’altra sua cara amica, Lucia Bozzi, insegna a Brescia. Quasi accorata e impotente scrive al suo caro amico Vittorio Sereni, costretto a frequentare un corso ufficiali presso Fano:

«Forse l’età delle parole è finita per sempre».

Una frase d’effetto che, sicuramente, si riferiva all’angoscia provata per la situazione cupa del tempo, ma che probabilmente presagiva anche quel gesto che, di lì a poco, avrebbe compiuto. Poco prima del suo suicidio si dichiara all’amico e filosofo Dino Formaggio; Formaggio le dirà che, nonostante l’affetto, quel loro rapporto non potrà mai essere contraddistinto dal sentimento amoroso. Il 2 dicembre 1938, come consuetudine, si reca a scuola; alcuni ragazzi la sorprendono mentre piange, tacitamente.

Sono le 11.00  quando dichiara di avere un malore e, dopo aver salutato gli allievi intimandoli a essere buoni, si dirige nella periferia milanese, presso Chiaravalle. Si adagia, leggiadra, sul prato; tra la neve di quella gelida mattina di dicembre, ingurgita una pesante dose di barbiturici e aspetta che la colga la morte. Un contadino la intravede: tuttavia, è ormai agonizzante e a nulla servono i soccorsi. Muore la stessa sera, il 3 dicembre nella sua casa.

Antonia aveva premeditato quel gesto, probabilmente divorata da un malessere vivido e fattosi carne, a poco a poco. Lascia tre messaggi: uno all’amico amato, Vittorio Sereni, in cui trascrive una sua poesia, Diana; uno a Dino Formaggio; l’ultimo ai genitori:

‘’Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. […] Direte alla Nena –  l’amata nonna –  che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. La vostra Antonia’’.

Una poetica trasfigurata: inquietudine, tragedia personale e asciutte parole

Dopo il suicidio di Antonia, il padre racconta che la scomparsa della figlia è da imputare a una polmonite. Roberto Pozzi, per rendere lindo il ricordo della figlia, decide di pubblicare la prima raccolta di Antonia; elogiata dalla critica e dallo stesso Montale, presto ci si rende conto di qualcosa di oscuro: i testi di Antonia sono stati manipolati.

Il padre, infatti, prima di pubblicare le poesia ha effettuato una revisione tagliando i versi più scabrosi o che potessero inficiare il ricordo della stessa Antonia e della famiglia. Un’evidenza palese, perché quei tagli riemergono prepotenti, svilendo profondamente il vero pensiero della giovane poetessa lombarda. Sarà, agli inizi degli anni ’80, Onorina Dino a documentarsi sui manoscritti originali della poetessa riportando i suoi versi agli antichi splendori conferiti da Antonia. La poesia della Pozzi è, infatti, essenziale, scabra, asciutta: nelle sua parole coesistono gli echi dell’espressionismo tedesco e la semplicità del crepuscolarismo. E’ l’elemento naturale a non mancare mai. In Prati (1931) dice la Pozzi:

Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.

Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.

Antonia Pozzi si serve delle immagini della natura per far congiungere come ponte dorato, al loro interno, il riflesso dei suoi sentimenti. Il legame con l’elemento natura si nota anche con un’espressione che, quasi ridondate, ritorna in molti dei suoi componimenti; l’universo lirico pozziano si schiude interamente nell’immagine del cielo, simbolo di ascesi, di brama di luce, di infinito e contemplazione.

Il suo è quasi un tendere costantemente alla luce, una ricerca di bagliore quasi in contrasto con una vita punteggiata di malinconie e delusioni. La poetica è luminosa composta da grovigli esistenziali squarciati da baluginii luminosi: le parole e la natura. E’ una poesia tragica, che non si oppone ma si rassegna al tempo in un’attesa angosciante fatta di amori svaniti e animi turbati: Antonia è la poetessa del silenzio, ossimoro con la sua costante ricerca di luce.

La vita, adesso, è percepita come un nulla: Antonia Pozzi non regge i sentimenti contrastanti che la dilaniano ed è alla continua ricerca di una fede, un sentimento religioso che lenisca il suo dolore. Nella lirica  Grido del 1932 si scorge tutta la sua impotenza, la resa di una donna alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi:

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono.

In Confidare del 1934, troviamo i tre elementi caratterizzanti la sua poetica: la ricerca di fede, la luce costante, la natura:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

 

L’indissolubile legame con la natura, una geografia lirica alla costante ricerca di luce

La natura è lo specchio del mondo in cui Antonia trova conforto e si riflette, mescolando pulsioni di vita e di morte in un continuo dialogo dei contrari, testimonianza di un’anima imbevuta di oscurità ma anelante al bagliore, sinonimo di eventuale e auspicato calore umano. La lirica Bellezza del 1934 è il manifesto della sua anima, dove la sua amata natura e la sua continua ricerca si susseguono in immagini arcadiche e bucoliche, le uniche capace di lenire le sofferenze di Antonia:

Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.

Ti do me stessa,
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive
tra superstiti colonne
e ulivi e spighe.

Ti do me stessa,
i meriggi
sul ciglio delle cascate,
i tramonti
ai piedi delle statue, sulle colline,
fra tronchi di cipressi animati
di nidi –

E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch’io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –

 

Nella lirica Periferia del 1938, dedicata alla periferia milanese dove faceva volontariato in Via dei Cinquecento, Antonia esprime tutta la sua paura per la vita dicendo << ho paura dei tuoi passi fangosi, cara vita>>; eppure emerge la sottile e reiterata sensibilità della sua anima: le fabbriche  avanzano senza lasciar spazio alla natura e ai suoi elementi soffocati dal cemento:

E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.

Il silenzioso avanzamento delle fabbriche, come un rombo distruttivo dal passo felpato che sovrasta la natura, provoca in Antonia un turbamento doloroso; l’uccisione della sua fonte di consolazione primaria che scalpita, nella potente immagine che dà delle betulle spaesate di fronte a un’irruzione senza sosta di elementi artificiali e asettici. La poesia di Antonia di destreggia in un quotidiano scolorito, fatto di espressioni rudi, linguaggi ruvidi e realistici: la vera Antonia è quella della lirica di Via dei Cinquecento, dove soffre ed empatizza con le sofferenze altrui.

La sua è una voce lucida, attenta, dedita a cogliere le sfumature; un’anima intrisa di tormento che brama leggerezza, come scriverà poi nella lirica Desiderio di cose leggere del 1934:

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’altra scogliera
di stelle.

Antonia Pozzi, quasi profetizzando la sua fine appena quattro anni dopo, libera la sua anima proprio fra i giunchi di un prato, su una riva gelata con il volto rivolto al sua amato cielo. Una delle poetesse più dimenticate del ‘900, riscoperta postuma, la cui vicenda personale ha sporcato e svilito la sua produzione alta, lirica, visionaria,  come spesso accade alle anime di un certo calibro.

 

 

 

Vittorio Sereni e T.S. Eliot: un’affinità poetica inesplorata

Quella di Vittorio Sereni  è una delle voci più rappresentative del panorama letterario novecentesco in Italia. Inquieta e irrisolta, la sua opera poetica registra i movimenti (intimi e non) che accompagnano il prepararsi del secondo conflitto mondiale, gli anni della guerra e il periodo postbellico.

Chiamato alle armi nel 1941, nel luglio del ’43 viene fatto prigioniero a Trapani dalle truppe Alleate insieme al suo reparto e trasferito in Nord Africa : iniziano così due anni esatti di prigionia (24 luglio 1943-28 luglio 1945), che Sereni trascorre tra Algeria e Marocco, perennemente attanagliato dalla sensazione di essere stato tagliato fuori dalla Storia, dalla giovinezza e dalla vita.

Gli oscuri presagi che rabbuiano i suoi versi già dalle prime due raccolte («Ma fischiano treni d’arrivi | s’è strozzato nel caldo | il concerto della vita»; «Siamo tutti sospesi | a un tacito evento questa sera | entro quel raggio di torpediniera | che ci scruta poi gira se ne va») si traducono poi nel patologico senso di colpa dell’aver vissuto la guerra, e quindi la storia, soltanto “dal margine”, senza davvero prendervi parte; questa sensazione di estrema inadeguatezza, nota dominante del successivo discorso poetico di Sereni, non verrà mai superata e assurgerà anzi a cifra identitaria dell’uomo e del poeta («dimmi che non furono soltanto | fantasmi espressi dall’afa, | di noi sempre in ritardo sulla guerra | ma sempre nei dintorni | di una vera nostra guerra…»; «[…] prega tu se lo puoi, io sono morto | alla guerra e alla pace» ).

La condizione di prigioniero in perpetua attesa rende il poeta di Luino inadatto e incapace, a suo stesso dire, di partecipare al grande flusso della storia, impedendogli, tra le altre cose, di assumere una posizione ideologica forte e decisa in anni, quelli del dopoguerra italiano, in cui la corrente dominante era quella del realismo “a tutti i costi”, inteso come reazione necessaria al disfacimento dei valori portato dal conflitto.

La poesia di Sereni non pretende mai di farsi portatrice di istanze universali: attraverso un’adesione quasi programmatica (ma che è in realtà una risposta ad un’intimissima e personalissima necessità espressiva) al mondo degli oggetti, il poeta di Luino elegge il reale e il quotidiano a basi costitutive e ispirazioni prime dei suoi versi. Alessandro Parronchi, poeta ermetico fiorentino con cui Sereni intrattiene un fitto ed entusiasta rapporto epistolare, commenta la prima raccolta dell’amico, Frontiera (uscita nel ’41), rilevandone la capacità di rimanere «vicinissimo agli oggetti e ai movimenti del cuore» , mentre all’invio di Pin-up girl (contenuta in Diario d’Algeria, la raccolta successiva), risponde nel novembre del ’45 con una sincera sorpresa per come l’autore sia stato in grado di «concreta[re] questo sentimento che qui traspare in immagini vive». E prosegue: «Questo sì è il regno delle cose che veramente ci appartiene […] ma che poeticamente è la tua scoperta e costituisce la tua originalità» .

Di fatto, fin dalla composizione delle prime poesie poi confluite in Frontiera, l’atmosfera lacustre e la condizione di liminarità (anche geograficamente intesa; Luino si trova sulla riva lombarda del Lago Maggiore, non lontano dal confine con la Svizzera) alimentano i versi di Sereni andando a costuire un vero e proprio tòpos e luogo interiore , e l’ispirazione della sua opera si fonda sempre sulla sua personale esperienza umana. A questo proposito, si esprime bene Mengaldo in una nota in “Ricordo di Vittorio Sereni”:“[…] Ungaretti o Montale […] sono poeti che ancora pretendono di comunicare, attraverso la poesia, una verità. […] Per Sereni, e così per Bertolucci o per Caproni […] si tratta di molto meno: di comunicare un’esperienza”.

Il percorso poetico di Sereni non è mai facile né immediato, e la sua appropriazione del mondo esterno richiede sempre un lento processo di assorbimento e stratificazione di significati ed emozioni.

L’ultima raccolta di Sereni, edita nel 1980 e ripubblicata nell’82, registra già dal titolo l’avvento di un profondo mutamento di prospettiva dal mondo degli umili “strumenti umani” a quello astronomico delle stelle, rappresentazione di quell’altrove metafisico (sia esso il regno della memoria, del sogno o della morte) già abbozzato, come abbiamo visto, in chiusura della raccolta precedente .

La struttura di Stella Variabile seguita a sfaldarsi, l’io poetico fatica a saldare il discorso entro una struttura compatta, l’andamento si fa sempre più narrativo, e i componimenti accolgono un numero sempre maggiore di stimoli mutuati dall’esterno (citazioni colte, auto-citazioni, frammenti di testi in lingua straniera); è interessante considerare che, mentre per Eliot questo tipo di strutturazione risulta essere la cifra identitaria delle prime opere, ancora completamente immerse nella crisi , per venire poi risolta e rinsaldata nei poemi successivi grazie alla fiducia in una possibile risoluzione futura, per Sereni questo procedimento emerge proprio come approdo finale del percorso di un soggetto che, essendosi visto negare qualsiasi certezza e assolutezza di valori (dal punto di vista esistenziale, ma anche da quello più propriamente poetico), non è più in grado di ritrovare una voce unitaria per potersi esprimere.

Nonostante questa sostanziale differenza, è ancora l’opera del poeta inglese a trasparire in sottotesto a molti dei componimenti che vanno a formare l’ultima raccolta sereniana. Abbiamo già detto dell’introduzione di elementi eterogenei nel tessuto poetico (versi, versicoli, epigrafi), spesso in lingua straniera.

La terza sezione di Stella Variabile è interamente occupata dal poemetto sul posto di vacanza , ambientato a Bocca di Magra, località ligure «tra fiume e mare» in cui Sereni usa trascorrere i periodi estivi negli anni Cinquanta. Questa forte caratterizzazione spazio-temporale («Anno: il ’51») rende il discorso poetico sereniano certamente indipendente dall’intertesto dei Quartets (contraddistinti da una sostanziale mancanza di riferimenti specifici e concreti); tuttavia la rimodulazione dei principali nuclei tematici dei poemetti eliotiani è evidente .

Il componimento nasce da «uno dei tanti ritorni a Bocca di Magra in un giorno di fine autunno prossimo al gelo, che ridesta […] le tracce dell’estate ormai trascorsa» , e trova dunque già nella sua genesi il motivo della compresenza di passato e presente, tipico dei Quartetti (di Burnt Norton in particolare), che viene inoltre efficacemente espresso dall’immagine del «giorno concavo che è prima di esistere», con cui si apre la prima sezione; sembra, questa, un’appropriazione – o, meglio, una rielaborazione – dell’eliotiano «all time is eternally present» ; tale “sentimento del tempo” attraversa tutto il poemetto («Passano […] tutti assieme gli anni | e in un punto s’incendiano»; «Del tempo che forse cambia discorrono voci sotto casa»).

Il ritorno del poeta al luogo familiare innesca un meccanismo di ricordi («Qua sopra c’era la linea, l’estrema destra della Gotica, | si vedono ancora – ancora oggi lo ripeto […]») e di sovrapposizioni temporali («Ma intanto […] si dichiarò autunnale il tocco delle foglie»), proprio come accade nel caso della prima sezione di Burnt Norton, in cui «la visita al castello [del Gloucestershire] disabitato riporta al poeta le memorie della sua fanciullezza. […]

 

Fonte: https://www.academia.edu/23717978/T._S._ELIOT_e_VITTORIO_SERENI_unaffinità_inesplorata?sm=b

             Rossella Bugliesi | Università degli Studi di Torino – Academia.edu

Vittorio Sereni e una scena virgiliana: la nullità del ricordo

Partiamo, per giungere poi a Vittorio Sereni, dai versi 300-316 del III libro dell’Eneide:

Progredior portu classes et litora linquens, 
sollemnis cum forte dapes et tristia dona
ante urbem in luco falsi Simoëntis ad undam
libabat cineri Andromache Manisque vocabat
Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem
et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras. 
Ut me conspexit venientem et Troa circum
arma amens vidit, magnis exterrita monstris,
deriguit visu in medio, calor ossa reliquit,
labitur et longo vix tandem tempore fatur:
Verane te facies, verus mihi nuntius adfers, 
nate dea? Vivisne? Aut, si lux alma recessit,
Hector ubi est? Dixit lacrimasque effudit et omnem
implevit clamore locum. Vix pauca furenti
subicio et raris turbatus vocibus hisco:
Vivo equidem vitamque extrema per omnia duco; 
ne dubita, nam vera vides.

Nelle parole rivolte ai versi 310-312 da Andromaca ad Enea improvvisamente apparsole si avverte da un lato l’eco e per così dire la dissolvenza di quelle rivolte dall’eroe all’ombra di Ettore apparsagli nottetempo. Dall’altro nella seconda ipotesi affacciata da Andromaca («si lux alma recessit», v.311) vediamo forse allusa la discesa tra le ombre che di lì a poco sarà profetizzata da Eleno e si attuerà nel l. VI, secondo un dinamismo di proiezioni, rifrazioni e sviluppi interni al poema

Certo il Vittorio Sereni allievo negli anni universitari del latinista Luigi Castiglioni (studioso in particolare di Virgilio) conosceva l’attenzione rivolta dal suo maestro proprio  al libro III dell’Eneide; ma, lettore appassionato di Montaigne, poteva inoltre trovare i versi 306-309 interni al brano da noi citato quasi ad apertura degli Essays, libro I capitolo II, come esempio dello stupore che segue «la sorpresa d’un piacere insperato» (citiamo dalla traduzione del 1966 di Fausta Garavini). E delle parole di Andromaca, come della breve definizione di Montaigne, avvertiamo un’eco possibile in un luogo della poesia di Sereni, per la quale in generale abbiamo tentato altrove di ricostruire l’importanza, sia per estensione che per profondità, delle presenze virgiliane. Sono i tre versi finali di un passaggio risalente al 1960 dalla sezione Appuntamento a ora insolita degli Strumenti umani: «Sono già morto e qui torno? / O sono il solo vivo nella vivida e ferma / nullità di un ricordo?». Il riferimento a Montaigne parrà ancora meno casuale, ove ricordiamo quanto scriveva Gilberto Lonardi sulla consonanza che Sereni poteva trovare nel grande francese rispetto l’idea del vuoto ontologico «non come un luogo da cui fuggire verso una pienezza che è radicalmente altra […] ma una meta del possesso di sé, nel passaggio», idea che pare del tutto coerente con il contesto della breve poesia degli Strumenti umani. In un breve, estemporaneo ritorno sul proprio luogo di vacanza estiva, Bocca di Magra, l’io del poeta attraversa registrandoli gli aspetti di una natura viva e lucente.

Ma è una natura innaturalmente vivida: forse perché – prima ipotesi – già trasformatasi in un’oltre-realtà, in un aldilà luminoso e stranamente familiare agli occhi di chi, lasciatasi alle spalle la vera vita, compie un impossibile ritorno nella lampeggiante e incerta consapevolezza della propria morte; o perché splendida, avvolgente illusione del ricordo di chi è vivo ma in qualità di sopravvissuto ad un proprio passato, e quindi non realtà ma vuoto, realtà sparita. Nel primo caso, un’ulteriore domanda rimane implicita: il «qui» a cui il defunto ’ritorna’ è un eliso modellato secondo il suo passato o un reale presente da cui ormai lo separa, giunto egli oltre le rive della morte e
voltosi, quello che in Niccolò verrà chiamato «lo sbiancante diaframma»?

Qui Sereni ripropone dunque l’idea della propria morte già oniricamente vissuta nelle Sei del mattino (1957), nella sezione precedente, dove però l’io poetico narra, al passato, di aver trovato se stesso morto nella propria casa, implicando così uno scindersi e duplicarsi dell’io corporeo, mentre ora, in uno scenario esterno e naturale evocato sostanzialmente al presente, il soggetto si interroga sul proprio statuto, ma permanendo una la persona (Agosti, nel 1984, parlò di «compresenza dell’uno e dell’altro stato» e di «indecidibilità», comprensibile
all’interno di una poesia onirica come quella di Sereni, che si esprime come «il sonno, e il sogno, del morto»

Per questo sarà da considerare anche il Sabato tedesco, testo posteriore di un ventennio, quando nella catabasi in un luogo della Francoforte notturna «facce dimenticate ti colgono di sorpresa», al punto da far supporre «che si tratti di gente morta da un pezzo, […] e invece, chissà […] sei tu il morto e sepolto» (a differenza dell’immediatezza della prima persona di Di passaggio, l’agens e io narrante del racconto parla rivolgendosi a sé in seconda persona; inoltre, nel Sabato tedesco è, in una prima ipotesi, «gente morta» a circondare l’io vivo, mentre nell’ipotesi che a questa corrisponde nel testo degli Strumenti umani ad avvolgerlo come l’aria stessa è, sinteticamente e globalmente,
la «nullità di un ricordo).

Di passaggio esce dunque su rivista con Un incubo, l’incubo della gioia di due amanti uditi nottetempo che genera strazio nel poeta (evidenziamo più che citare i due termini, così connotati nel sistema-Sereni, che si ritroveranno qualche testo più oltre nel chiudersi della medesima sezione degli Strumenti umani, nella gioia di Appuntamento ad ora insolita che «si porta come una ferita», come la volpe rubata  dal ragazzino spartano della Vita di Licurgo di Plutarco e che «il fianco gli straziava»), e con Quei bambini che giocano, dove – a contrastare l’eros notturno, invidiato e appagato del testo precedente – si parla dell’«amore bugiardo» di una donna, che è come un falso e in realtà melmoso paesaggio idillico e come «l’emorragia dei giorni» della vita sprecati in false direzioni. Come, cioè, sangue versato invano, e
paesaggio che non è ciò che sembra.

 

Fonte: https://www.academia.edu/20705785/_Il_vivo_e_il_morto_nella_nullità_del_ricordo._Sereni_e_una_scena_virgiliana_in_Il_dono_delle_parole._Studi_e_scritti_vari_offerti_dagli_allievi_a_Gilberto_Lonardi_Gabrielli_Editori_Verona_2013

Non sa più nulla: la rassegnazione di Sereni

Delle dodici poesie che costituiscono il vero e proprio Diario di Algeria del poeta Vittorio Sereni, Non sa più nulla è la quarta e ultima, nonché la lirica più celebre e tra le più importanti di Sereni. Essa è stata scritta in occasione dello sbarco degli alleati in Normandia nel giugno del 1944, ma il poeta, prigioniero in Algeria, appare dominato da un’amara rassegnazione; egli è sprofondato in un”cerchio d’oblio” da cui nulla lo può sollevare. Tutto ciò che esula dalla sua sofferenza quotidiana, dal senso di abbandono che lo minaccia, gli appare troppo lontano e privo di senso.

Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.
Ho risposto nel sonno: “È il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta.
 
Campo Ospedale 127, giugno 1944

 

La lirica, che consta di due strofe di versi liberi, con alcuni endecasillabi e settenari, esprime con efficacia il tono dell’intera raccolta del Diario d’Algeria: il sentimento dominante è infatti quello della lontananza da tutto, di una reclusione, una segregazione di cui il poeta soffre profondamente. La dimensione della sua esistenza è circoscritta nel perimetro del campo di prigionia e l’anima ingabbiata non riesce a librarsi più in alto: la notizia di un avvenimento determinante per la sorte della guerra e della storia come lo sbarco in Normandia viene accolta, in un atteggiamento di apatia reso benissimo dalla condizione di dormiente (Stanotte; Ho risposto nel sonno), con un rifiuto (E’ il vento). A ciò subentra anche l’indifferenza e la possibilità che si tratti di una realtà non provoca nessuna reazione emotiva nel poeta, non lo smuove dalla sua estraneità al mondo: egli non trova la forza, l’energia morale per una preghiera, perché la preghiera significa credere, sperare, essere ancora vivo, ma non vita quella al Campo Ospedale 127, la cui unica musica è quella “delle tende che sbattono sui pali”.

L’andamento della poesia è marcatamente narrativo, in netto contrasto con i moduli dell’ermetismo, il cui influsso, tuttavia, è rilevabile nella tematica esistenzialistica della desolazione spirituale. Il linguaggio trova un equilibrio poetico tra il registro della narrazione, quotidiano (qualcuno stanotte/mi toccava la spalla; Ho risposto nel sonno; le tende che sbattono sui pali), e la limpidezza lirica (Non sa più nulla, è alto sulle ali; prega tu se lo puoi; io sono morto/alla guerra e alla pace; musica d’angeli), rivelando, come ha sottolineato Cucchi, “una consitenza di forza e grazia” che rende l’intera raccolta di Diario d’Algeria una delle tappe più significative del Novecento poetico italiano.

 

Altro compleanno, di Vittorio Sereni

La scadenza del compleanno è indice del tempo che passa inesorabile e il grande poeta Vittorio Sereni, che si è sempre sentitoinadeguato per il suo tempo, colora l’estate nella lirica  Altro compleanno che fa parte della raccolta Stella variabile del 1982. Questa lirica sembra presagire il superamento una nuova fase per il poeta di Luino che coincide con il superamento del nichilismo, derivante dall’impossibilità dell’io di cambiare la Storia e da un perenne stato di incertezza.

Sereni è in un bar, a Milano e guarda lo stadio di San Siro, muto e assolato, testimone di un campionato ormai terminato; un altro anno è passato e si attende il futuro. Il poeta spera di poter avere la forza che lo ha contraddistinto negli anni passati per sostenere le difficoltà di tutti i giorni che sembrano irrompere come onde impetuose; egli crede che il futuro gli possa riserbare qualche illusione, facendogli apprezzare la bellezza della vita. Un altro compleanno prende spunto da situazioni concrete, reali (il compleanno, il bar, lo stadio) per elevarsi alla meditazione sul senso e sul valore dell’esistenza; ed è proprio questa la cifra di Vittorio Sereni, che al di fuori di certezze e prese di posizioni, al di là di qualsiasi ideologia, è sempre alla ricerca della verità umana che si cela dietro alle cose.

Riportiamo la poesia:

A fine luglio quando
da sotto le pergole di un bar di San Siro
tra cancellate e fornici si intravede
un qualche spicchio dello stadio assolato
quando trasecola il gran catino vuoto
a specchio del tempo sperperato e pare
che proprio lì venga a morire un anno
e non si sa che altro un altro anno prepari
passiamola questa soglia una volta di più
sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
e un’ardesia propaghi il colore dell’estate. 

Il componimento è strutturato come un lungo periodo senza punteggiatura; inizia con una proposizione temporale che indica il cadere del compleanno del poeta, mentre la principale, posta al terzultimo verso (passiamola questa soglia una volta di più) scioglie l’attesa, data dal susseguirsi di proposizioni indipendenti. Le metafore presenti della poesia rimandano sempre a situazioni realistiche, ad esempio: il gran catino vuoto che indica qualcosa di inutile, questa soglia che rappresenta il limite che divide un anno da un altro, ovvero il compleanno, quei marosi, ossia le avversità, le difficoltà che ogni giorno assalgono il poeta il quale deve fare resistenza, e un’ardesia propaghi il colore dell’estate che sta ad indicare le illusioni che ci spingono ad apprezzare la vita che continua tutto intorno la quale altrimenti ci sembrerebbe vuota e triste. L’ardesia, pietra grigio scura che riflette il colore, rappresenta proprio quello che è artificiale e illusorio, mentre il colore dell’estate idnica proprio la bellezza e la vivacità della vita.

Molti sono anche i termini desunti dal linguaggio parlato quotidiano come appunto il bar, lo stadio, a fine luglio che mettono in evidenza il tono narrativo del discorso e ciò dimostra come l’universo ideale e linguistico di Sereni appare anche oggi straordinariamente attuale e, soprattutto, necessario.

Come ha giustamente notato Fabio Pusterla che ha scritto la prefazione della raccolta, Stella variabile è uno di quei libri che sono “più a lungo renitenti a ogni esatta definizione critica, più a lungo dialoganti con l’inquietudine di nuovi, più giovani e più ignari lettori. La luce di questi libri è mutevole, più difficile da reggere, più lancinante e ingannevole. È una luce in cammino, che ancora non è stata interamente decifrata e addomesticata, e che per questo ci attrae, selvaggia e insinuante. È a questa famiglia di opere che appartiene forse Stella variabile, libro dolorosamente conclusivo, eppure anche fiduciosamente aperto verso un futuro che ancora non è del tutto maturato, e verso il quale ci invita a camminare”.

 

Vittorio Sereni, poeta dell’incertezza

“Ci sono momenti della nostra esistenza che non danno pace fino a quando restano informi”. Così motiva la passione per la scrittura  in versi il poeta Vittorio Sereni (Luino, 1913- Milano, 10 febbraio 1983), morto il 10 febbraio 1983 a Milano, all’età di 70 anni.

Trascorre la sua giovinezza a Luino, luogo che ha lasciato la traccia maggiore nella sensibilità del poeta, oltre i luoghi del Lago Maggiore dove Sereni ne trarrà la sua ispirazione più alta. Nonostante ciò, egli considera Brescia la sua seconda patria, città dove sono emersi i suoi primi interessi letterari anche in seguito alla  lettura del grande poeta del Novecento, Giuseppe Ungaretti.

Nel 1933 Sereni si trasferisce nuovamente, questa volta a Milano. È qui che si laurea in lettere ed entra in contatto con numerosi poeti, tra cui Salvatore Quasimodo. In questi anni raggiunge uno dei primi importanti traguardi: il promettente poeta Carlo Betocchi nel 1937 pubblica due sue poesie sulla rivista <<Frontespizio>>.

Nel 1937, il poeta entra, con Dino Del Bo, Ernesto Treccani, Alberto Lattuada, a far parte della redazione di <<Corrente>> dopo aver collaborato alla rivista <<Letteratura>>. Nel 1940 la rivista si trasforma in casa editrice pubblicando nel ’41 la prima edizione di “Frontiera” ed in seguito la ristampa che porta il titolo di “Poesie”.

Riportiamo la poesia “Le mani”, da “Frontiera”:

Queste tue mani a difesa di te:

mi fanno sera sul viso.

Quando lente le schiudi, là davanti

la città è quell’arco di fuoco.

Sul sonno futuro

saranno persiane rigate di sole

e avrò perso per sempre

quel sapore di terra e di vento

quando le riprenderai.

E ancora In me il tuo ricordo:

In me il tuo ricordo è un fruscìo

solo di velocipedi che vanno

quietamente là dove l’altezza

del meriggio discende

al più fiammante vespero

tra cancelli e case

e sospirosi declivi

di finestre riaperte sull’estate.

Solo, di me, distante

dura un lamento di treni,

d’anime che se ne vanno.

E là leggera te ne vai sul vento,

ti perdi nella sera.

Scoppia in questi anni la seconda guerra mondiale e la notizia del conflitto sorprende Sereni a Modena dove insegna italiano e latino in un liceo. Viene richiamato alle armi con il grado di ufficiale di fanteria e nell’autunno del 1941 è assegnato ad un reparto destinato all’Africa settentrionale. Come egli stesso racconta : “non arriverà mai a destinazione”. Il 24 luglio del 1943 infatti, viene fatto prigioniero a Paceco, vicino Trapani e trascorre due anni di prigionia in Algeria e nell’allora Marocco francese, facendo ritorno a casa soltanto a guerra terminata. Nel 1947 pubblica “Diario in Algeria”; ricordiamo la poesia “Dimitrios”:

Alla tenda s’accosta

il piccolo nemico

Dimitrios e mi sorprende,

d’uccello tenue strido

sul vetro del meriggio.

Non torce la bocca pura

la grazia che chiede pane,

non si vela di pianto

lo sguardo che fame e paura

stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,

arguto mulinello

che s’annulla nell’afa,

Dimitrios, su lande avare

appena credibile, appena

vivo sussulto

di me, della mia vita

esitante sul mare.

L’esperienza della guerra è stata traumatica per il poeta lombardo in quanto ha demolito il suo  giovanile sogno di speranza e di attese, come dimostra la seguente lirica:

Un improvviso vuoto del cuore

tra i giacigli di Sainte-Barbe.

Sfumano i volti diletti, io resto solo

con un gorgo di voci faticose.

 

E la voce piú chiara non e piú

che un trepestio di pioggia sulle tende,

un’ultima fronda sonora

su queste paludi del sonno

corse a volte da un sogno.

Negli anni seguenti Sereni lascia l’insegnamento per lavorare presso l’ufficio stampa dell’azienda milanese Pirelli, dove rimarrà fino al 1958. Nel 1981 esce dall’editore Einaudi il quaderno di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry” e altri versi tradotti dall'”Orphée Noir”, da Pound, Char, Apollinaire, Bandini e Corneille. Il lavoro di traduttore di poesie gli farà ricevere, nel 1982, il Premio Bagutta. Nel medesimo anno Garzanti pubblica “Stella variabile” che gli farà vincere il Premio Viareggio. Il 10 febbraio del 1983 muore improvvisamente in conseguenza di un aneurisma.

La poesia di Vittorio Sereni è stata inizialmente inserita  sia nel modernismo minore (anche per l’influenza di poeti quali Ungaretti e Quasimodo), sia nell’ermetismo fiorentino, mostrando oggetti, situazioni e sentimenti diversamente concreti. Tale visione muta con la prigionia e la guerra: il mondo diventa ai suoi occhi indecifrabile, così come si nota in “Diario in Algeria” (la voce parlante e gli elementi lessicali arcaizzanti servono spesso a distanziare la realtà, mentre il ritmo modulato tra una strofa e l’altra, simboleggia la condizione di prigioniero simile a quella dello stato umano). Ne risulta un lirismo sfocato, esitante ma al tempo stesso che induce alla scelta, al coraggio seppur intriso di angoscia ed incertezza esistenziale. Al senso di inadeguatezza e di smarrimento (che lo accomunano a Montale) sia psicologici che ideologici, Sereni contrappone pochi momenti di gioia, dei veri e propri “scatti” che hanno il volto dell’amore e dell’amicizia, che compensano in parte la  sua delusione  ( soprattutto per il fallimento degli ideali socialisti  e democratici in Italia) e il  suo sentirsi prigioniero della storia. Il poeta incerto non riesce a non sentirsi estraneo nel mondo tanto che affermerà: <<Non lo amo il mio tempo, non lo amo>>.

 Molto impegnativo risulta il libro  scritto nel trentennio successivo ,“Gli Strumenti umani”, dove è reso palese il difficile e tormentato dopoguerra del poeta. È possibile al suo interno individuare ben tre periodi distinti: PRIMO MOMENTO (1945-50), ritorno dalla guerra e voglia di cancellare le brutture del passato; SECONDO MOMENTO (1950-60): si alterna il rimorso per non aver partecipato alla guerra e aver vissuto ai margini della vita e dall’ altro il timore di un nuovo imprigionamento; TERZO MOMENTO (1960-65): impegno civile e chiarezza intellettuale. Quest’ultima, ben visibile anche nel tema dei morti, ossia coloro che possono svelare il senso ultimo dell’esistenza ed incoraggiare il poeta ad andare avanti per riempire quel vuoto che si è formato.

Per desiderio del poeta, sono usciti postumi nell’ottobre ’83 “Gli immediati dintorni- primi e secondi”, “Il saggiatore” e nel 1986 “Tutte le poesie” (Mondadori) a cura della figlia Maria Teresa. Nel novembre dello stesso anno Dante Isella raccoglie con il titolo “Senza l’onore delle armi”, (Scheiwiller, Milano), i testi : “La cattura”, “L’anno quarantatré”, “L’anno quarantacinque”, “Ventisei”, “Le sabbie dell’Algeria”.

Sereni, al quale nel 1956 era stato assegnato il premio internazionale “Libera Stampa” per alcune poesie di cui facevano parte i “Frammenti di una sconfitta”, è stato anche redattore-collaboratore della <<Rassegna d’Italia>> e critico letterario di <<Milano-sera>>.

Numerosi saggi, scritti vari, poesie, sono state pubblicate in <<Paragone>>, <<Nuova Corrente>>, <<Tempo Presente>>, <<Il Menabò>>, e in numerose altre riviste e giornali. La figlia Maria Teresa ne ha avviato la raccolta in volume. 

 

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