Collateral Beauty (Warner Bros, 2017) è un film di David Frankel, regista de Il Diavolo veste Prada (2006) e Io e Marley (2008). Il cast è d’eccezione: Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Keira Knightley e Helen Mirren. Will Smith interpreta Howard, un manager di successo che ha perso la voglia di vivere dopo la tragica morte della figlia di sei anni. I suoi tre migliori amici e colleghi organizzano così uno stratagemma per riportarlo alla vita servendosi di tre attori teatrali che interpreteranno le tre astrazioni (la Morte, il Tempo e l’Amore), provando a scuotere Howard dal suo torpore.
Collateral Beauty: un film corale sul vero senso della vita
Collateral Beauty è un film che carica di attesa sin dal suo trailer di lancio e dalla pubblicità che ha preceduto l’uscita della pellicola nelle sale. Il cast stellare e il tema delicato che sta al centro della trama, il grande dolore per la perdita di un figlio, pongono lo spettatore in una posizione di grande aspettativa e forse questa condizione stessa ha penalizzato il riscontro del film da parte della critica. Troppi attori noti e un intreccio che richiama vagamente il Canto di Natale di Dickens sono stati la causa delle critiche negative che Collateral Beauty ha ricevuto, opinioni sin troppo aspre e immeritate. Collateral Beauty è un film sul senso della vita, sul modello de La ricerca della felicità e Sette Anime sempre di Will Smith, che sa sia commuovere che far ridere, già questo un incommensurabile pregio. L’intreccio risulta abbastanza complesso, è vero, unendo due sottotrame: quella di Howard e la moglie che affrontano il dolore in maniere differente; e quella dei suoi tre colleghi, ognuno dei quali si interfaccia con la Morte, con il Tempo e con l’Amore. Will Smith appare come assoluto protagonista all’interno di un film che nasce come corale, ma Howard attira l’attenzione sempre su di sé, penalizzando molto soprattutto i personaggi di Edward Norton e Kate Winslet.
Uno spazio a parte si ritaglia però la straordinaria Helen Mirren, che tratta il tema della Morte con una delicatezza che sfocia nella commedia, e che intervalla l’andamento prettamente drammatico della pellicola. Avrei preferito una maggiore attenzione del regista alle scene fra Howard e i tre ‘fantasmi’, un po’ troppo semplificate e banalizzate nei contenuti dei dialoghi. Bellissima la metafora del domino all’inizio e alla fine del film per rappresentare il grande dolore che, con una reazione a catena, distrugge ogni cosa accanto a sé, e che alla fine conduce per mano attraverso la spiegazione del titolo del film e verso lo svelamento dell’intreccio, che risulta straordinariamente collegato.
Collateral Beauty è stato tacciato di essere nato come un progetto troppo complesso, ma questa sembra l’opinione di chi è abituato alle trame che si svolgono secondo uno schema ben preciso, sempre uguale, mentre Collateral Beauty è ibrido, un copione che, nonostante l’iniziale riferimento a Scrooge, risulta assolutamente originale e godibile. Se non fosse stato già di per sé un film toccante e delicato, meriterebbe un premio anche soltanto per la fotografia curata nel minimo dettaglio, dando come scenario una New York sotto Natale, piena di luci e colori ma anche molto malinconica, in piena analogia con la trama.
Suicide Squad (Warner Bros, 2016) è un film di David Ayer, terza pellicola sull’universo della DC Comics dopo L’uomo d’acciaio (2013) e Batman vs Superman- Dawn of Justice (2016), un filone che vuole ricalcare il modello della Marvel, senza però aver ottenuto ancora lo stesso successo.
Il cast di Suicide Squad è corale ed è uno dei punti di forza sul quale è stata basata la pubblicità antecedente all’uscita nelle sale del film, il 5 Agosto 2016: Will Smith, Jared Leto, Margot Robbie, Joel Kinnaman, Viola Davis, Jai Courtney, Jay Hernandez, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Ike Barinholtz, Scott Eastwood e Cara Delevingne. La trama è incentrata sulla formazione, da parte dell’agente governativo Amanda Waller, di una squadra speciale per combattere in azioni ad alto rischio, formata solo da pericolosi criminali: l’ex-psichiatra Harley Quinn, il cecchino assassino Deadshot, l’ex-gangster pirocinetico El Diablo, il ladro Capitan Boomerang, il mostruoso cannibale Killer Croc e il mercenario Slipknot. Se i criminali dovessero ribellarsi e provare a scappare verrebbero uccisi immediatamente da una micro bomba impiantata nel loro collo, qualora invece la missione andasse a buon fine otterrebbero uno sconto della pena di dieci anni. Quello che però Amanda Waller non ha tenuto in conto è che la strega chiamata ‘L’incantatrice’, un’altra delle possibili reclute della Suicide Squad, potesse ribellarsi decidendo di vendicarsi su tutta l’umanità.
Suicide Squad: alte aspettative e aspre critiche
Suicide Squad è stato un film molto atteso ma che purtroppo ha deluso le aspettative della critica, che lo ha recensito negativamente descrivendolo come il peggior film dell’estate, nonostante gli alti incassi ottenuti sin dal primo weekend di programmazione (380 milioni di dollari). Le maggiori critiche sono state rivolte alla trama, pressoché inesistente, al montaggio molto confuso e alla psicologia dei personaggi, parecchio incerta. Suicide Squad doveva essere un film cupo ma con un tocco di comicità, due elementi che non sono stati ben amalgamati all’interno della storia, rendendolo un film ricco di potenzialità non sfruttate: né davvero cupo, né davvero comico. Anche il punto forte della pubblicità che ha preceduto l’uscita nelle sale della pellicola, ovvero l’attesa performance di Jared Leto nei panni di Joker (che porta sulle spalle il peso del suo predecessore Heath Ledger nella trilogia di Christopher Nolan) risulta deludente, riducendosi a poche scene che nulla hanno a che fare con la trama generale del film. L’unica interpretazione degna di nota è quella di Margot Robbie nei panni di Harley Quinn, un mix di follia, comicità e assoluta devozione verso il suo compagno (Joker) che diverte e commuove al tempo stesso, elevandosi di una spanna al di sopra di tutti gli altri personaggi. E anche della trama stessa del film, che si dimentica non appena finiti i titoli di coda.
All’inizio degli anni ’70 la carriera di Stevie Wonder è caratterizzata da un’imponente crescendo rossiniano. Nel breve volgere di quattro anni (dal 1972 al 1976) e di quattro album (Music Of My Mind, Talking Book, Innervision e Fulfillingness First Finale), il genio di Saginaw sveste i panni di ragazzo prodigio della black music per trasformarsi in figura dominante e star assoluta del panorama musicale internazionale. Stanco del controllo eccessivo che la Motown esercitava sulla sua produzione, Wonder decide di dire basta.
“Non credo che voi sappiate da dove vengo. Non credo che possiate capire”
Pretende ed ottiene la totale autonomia creativa ed una maggiore percentuale sulle royalties. Il risultato sono cinque album che hanno dominato le classifiche e hanno indicato una nuova via ad una schiera infinita di musicisti. Niente più cover d’autore o canzonette di facile presa, ma una musica nuova piena d’amore, misticismo, consapevolezza sociale e coscienza politica unita a soluzioni ritmiche e melodiche totalmente inedite; una padronanza degli strumenti e dello studio di registrazione mai vista prima ed una voce che suona più cristallina e vigorosa che mai.
Il culmine di questo percorso artistico e personale è rappresentato dal maestoso doppio album (corredato di EP in omaggio intitolato ASomething’s Extra e libretto di 24 pagine con testi e crediti) Song In The Key Of Life pubblicato nel settembre del 1976. Costato un anno di lavoro in tre studi differenti, il Record Plant di Hollywood, il Sausalito MusicFactory di Sausalito e The Hit Factory di New York, questo disco prosciuga quasi totalmente le energie fisiche e mentali di Wonder. Il cantante, stando a quanto riferiscono gli addetti ai lavori, rimaneva in sala d’incisione anche per 48 ore consecutive, senza mangiare e dormire, pur di dare sfogo al suo maniacale perfezionismo (“Se mi sento ispirato, continuo fino ad ottenere il massimo”– ebbe a dire Wonder in merito alle massacranti session). Furono 130 le persone coinvolte nella lavorazione tra cui spiccano guest star del calibro di Herbie Hanckock, George Benson, “Sneaky Pete” Kleinow. I musicisti lavoravano “a chiamata” venendo convocati alle ore più disparate del giorno e della notte per cercar di stare dietro alla trance creativa del cantante. Il gioco valse la candela. I risultati furono strabilianti. Ventuno brani di una bellezza trasversale e senza tempo in cui il demiurgo Wonder è riuscito a mescolare abilmente sensazioni e suoni differenti per dar vita ad un capolavoro che trascende generi e razza: dal pianto di un bambino che evoca le gioie della paternità, ai gioiosi inni ai suoi idoli di gioventù fino alla rabbia e allo sgomento per la situazione in cui versavano i neri d’America.
Qui dentro c’è tutto. Ascoltare questo disco è un po’ come scoperchiare il vaso di Pandora. Wonder ha riunito tutte le sue influenze musical-culturali (il gospel, il jazz, il doo-wop, il soul, il funk, il pop) ed le ha trasformate, modernizzate, rendendole accessibili alle generazioni successive. Tutte le correnti musicali, i filoni e gli stili della black music degli ultimi trent’anni nascono da qui. Dal pop radiofonico e scalaclassifiche di Michael Jackson, al tormentato r ‘n’ b di Mary J. Blige, dall’hip hop festaiolo di Will Smith, al gangsta di Coolio, tutti hanno un debito d’onore nei confronti di questa opera straordinaria.
Song in the Key of Life
Il primo album si apre con un coro di chiara matrice gospel che introduce Love’s In Need Of Love Today in cui Wonder canta con voce argentina l’immediato bisogno d’amore, accompagnandosi col fido clavinet mentre le soffici percussioni di Eddie “Bongo” Brown forniscono un delicato tappeto sonoro. Un riff singhiozzante di armonica a bocca apre Have A Talk With God, brano a tematica religiosa dominato dal suono gonfio del Fender Rhodes. Il genio dell’artista si manifesta pienamente nella terza traccia, il black-minuetto, di Village Ghetto Land. Dietro l’aristocratico accompagnamento di un quartetto d’archi (ricreato con l’uso delle tastiere), degno seguito della beatlesiana “Eleanor Rigby”, si nasconde una delle canzoni più socialmente impegnate del disco. La rabbia di Wonder è al culmine, pur senza darlo a vedere, quando dice: “Would you like to go with me, down my dead end street; Would you like to come with me, to Village Ghetto Land”, invitando l’ascoltatore a prendere coscienza della situazione intollerabile in cui vivono i suoi fratelli neri.
La strumentale Contusion con il suo trascinante sound tipicamente fusion (qui Wheater Report ma anche il nostro Pino Daniele devono aver sicuramente drizzato le antenne), lavora l’ascoltatore ai fianchi prima dell’uno-due da kappaò! Due brani che fanno saltare sulla sedia e muovere freneticamente chiunque li ascolti, giustificando, quasi per intero, il prezzo del disco. Il charleston sincopato della batteria di Raymond Pounds apre la travolgente Sir Duke, gioiosa e accorata dedica del cantante al suo idolo di gioventù DukeEllington, un grande del jazz. La parte del leone questa volta la fanno i fiati. Compatti, grintosi, perfettamente amalgamati danno vita ad uno dei riff più famosi di sempre (secondo, forse, solamente a quello di Superstition), mentre la voce altissima e cristallina di Wonder canta la gioia provata nell’incontro con il grande jazz di Count Basie, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald ed, ovviamente, Duke Ellington. L’universalità del linguaggio musicale è il perno intorno al quale ruota tutto il pezzo (“Music is a world within itself- With a language we all understand- With an equal opportunity – for all to sing, dance and clap their hands”)con le sue caratteristiche di democrazia ed uguaglianza. Strepitoso il bridge centrale, eseguito all’unisono da fiati, basso e tastiera, che rafforza, anche se non ce n’è bisogno, la struttura del brano rendendolo deleterio per le coronarie.
Il diabolico intreccio tra il basso di Nathan Watts ed il Fender Rhodes di Stevie Wonder, apre la travolgente I Wish. Il funk rovente del brano, ha fatto si che, nel tempo, la canzone venisse “clonata” da numerosi altri artisti (Will Smith su tutti, il quale ne ha ripreso integralmente la musica per comporre la “sua” Wild Wild West), che sul giro di I Wish hanno costruito un’intera carriera. L’originale, nonostante la potenza del ritmo, è una nostalgica rievocazione della gioventù dell’artista, il quale si augura che “i bei tempi andati” possano di nuovo tornare (“I wish those days, could , come back once more– Why did those days ever have to go–I wish those days, could, come back once more-Why did those days ever have to go, cause I loved ‘em so”)
Dopo tanto dispendio di energie, arriva il momento di rilassarsi un pò. Ecco che lenta e suadente arriva Knocks Me Off My Feet, tipica canzone d’amore wonderiana tutta tastiere e vocalizzi, in cui la voce sognante e melodiose riesce a scandagliare i recessi più nascosti dell’animo degli innamorati. L’impegno sociale ritorna prepotentemente nell’ipnotica e ovattata Pastime Paradise. Il suono di un marimba apre questo capolavoro incentrato sulla vita del ghetto fatta di segregazione, isolamento, e disperazione. Una situazione spesso senza via d’uscita in cui si trovano confinati i ragazzi meno fortunati. La voce di Wonder si fa, in questo pezzo, triste e lamentosa mentre il suo sintetizzatore ricrea un tappeto di archi che si snoda lungo tutta la canzone. Le congas di Raymond Maldonado e Bobby Hall sostituiscono efficacemente la batteria conferendo al brano un sapore afroamericano. Il crescendo finale vede l’intervento del coro della Hare Chrisna West Angels Church Choir a sottolineare la drammaticità del brano. Pastime Paradise tornò prepotentemente in voga circa vent’anni dopo la sua pubblicazione, quando il rapper Coolio ne campionò la melodia ed il ritornello (cambiandone il testo), per sovrainciderci il tipico cantato hip-hop facendone, così, un bestseller dal titolo Gangsta’s Paradise. Questo dimostra ancora una volta la longevità della musica contenuta in questo album totalmente immune allo scorrere del tempo.
Music of My Mind
Un frinire di grilli apre Summer Soft caratterizzata da continui cambi di tempo. L’eclettismo dell’artista qui trova piena realizzazione dal momento che si passa da una tenera e lenta strofa ad un ritornello decisamente jazzato, il tutto attraverso tumultuosi stacchi di batteria. Stessa cosa nella successiva Ordinary Pain, vero e proprio mosaico musicale, che contiene al suo interno almeno due generi diversi. Dopo un inizio di tipo pop, il brano vira decisamente verso il funk. Protagonista è la voce di Shirley Brewer che canta per buona parte del brano lasciando a Wonder il compito di suonare quasi tutti gli strumenti.
Il secondo LP si apre con il pianto della neonata Aisha Morris, figlia del cantante, al quale è dedicata l’arcinota Isn’t She Lovely. Capolavoro pop, caratterizzato da una vocalità gioiosa e squillante, ottiene un numero spropositato di passaggi in radio, pur non riuscendo ad entrare nella classifica di Billboard dal momento che Wonder si era rifiutato di pubblicala come singolo. Impreziosita dalle tastiere di Greg Phillinganes, la canzone rappresenta una perfetta fusione di elementi pop e jazz, con l’aggiunta di un fantastico assolo centrale di armonica a bocca. Le tastiere tornano a spadroneggiare in Joy Inside My Tears, toccante ballad incentrata sulle gioie dell’amore ritrovato. Incisa in formazione ridotta con il solo aiuto del solito Greg Philliganes e di Susaye Green ai cori è senza dubbio una magistrale prova d’autore e d’interprete in quanto Wonder mette qui in mostra tutto lo spettro delle sue capacità vocali. Il funk torna a ribollire nell’epica Black Man. Sostenuta da un tambureggiante riff di bass-syntheizer e da una sezione fiati precisa e potente, la canzone torna a trattare il tema razziale. Dopo aver elencato i meriti di ogni razza nella costruzione di un grande paese come l’America, ci si auspica un futuro di fratellanza dal momento che il mondo è stato fatto per tutti gli uomini.
Someday at Christmas
Una curiosa mescolanza di ispirazione africana, ritmi latini e black music da vita al brano Ngiculela- Es Una Historia- I Am Singin. Strutturato liricamente in tre parti ben distinte: una zulu (Ngiculela), una ispanica (Es Una Historia) ed una americana (I Am Singing), il brano conferma ancora una volta la duttilità di Wonder, il suo imprescindibile legame con l’Africa e la natura multietnica della sua musica. La base strumentale, fornisce la giusta cornice a questo incredibile meltin pot. Il sintetizzatore suona come la chitarra di Paco De Lucia, mentre le percussioni sembrano venire direttamente da un disco di Santana. Se la commistione e la complessità musicale caratterizzano Ngiculela, la semplicità e l’essenzialità sono il marchio di fabbrica del brano immediatamente successivo.L’arpa di Dorothy Ashby è l’unico strumento ad accompagnare la voce nella struggente It’s Magic, vera gemma nascosta tra i solchi del disco, impreziosita dalle note fugaci di un’armonica a bocca. Il piano di Herbie Hanckock e la chitarra di Dean Parks vanno a nobilitare il brano As, uno dei cavalli di battaglia dell’artista. Il meraviglioso ritornello gospel e l’assolo jazzato di Hanckock rappresentano la particolarità di un brano incentrato su temi naturalistico/sociali. Mentre la prima parte, infatti, si focalizza sullo splendore di Madre Natura e sui vari habitat che esistono nel mondo, la parte centrale sottolinea come qualche volta ci sia povertà e disagio in quasi tutte le zone della Terra. Successo palnetario, la canzone è stata rivisitata, negli anni a seguire, da molti artisti tra cui Jean-Luc Ponty, George Michael e Mary J. Blige. Le collaborazioni di lusso continuano in Another Star in cui figura un musicista del calibro di George Benson. Il samba brasiliano incontra il soul in questo spettacolare affresco musicale. Il ritmo accelera, le percussioni scandiscono il tempo di un vero e proprio Carnevale mentre il flauto di Bobbi Humphrey dipinge coloratissimi acquerelli di note.
C’è spazio per ulteriori quattro pezzi che vanno a comporre l’EP A Something’s Extra eche, vista la qualità, avrebbero potuto benissimo essere inclusi nei due LP principali. Apre le danze l’utopica Saturn, in cui il pianeta con gli anelli assurge a simbolo di mondo perfetto, senza odio ne violenza, senza morte ne dolore (vedi Imagine di John Lennon o L’Isola Che Non C’è di Edoardo Bennato). Il piano ed i sintetizzatori si mescolano alla perfezione con le chitarre di Mike Sambello e Ben Bridges per tratteggiare una malinconica melodia su cui si inserisce una linea vocale estremamente limpida e lineare. Il vero gioiello è rappresentato, però, dalla sincopata Ebony Eyes dove al piano honky tonk di Wonder si uniscono la pedal-steel di “Sneaky Pete” Kleinow ed il gracchiante sassofono di Jim Horn, nel descrivere l’innamoramento per una bellissima ragazza nata e cresciuta in un posto orribile come le strade del ghetto (“She’s a girl that can’t be beat- Born and raised on ghetto street- She’s a devastating beauty-. A pretty girl with ebony eyes”). Particolarità del brano le note di colore date dall’uso del talkbox. Il funk torna prepotentemente in All Day Sucker in cui compaiono, per la prima volta, alcuni suoni tipici dell’hip hop. Con la tastiera viene creato, ad esempio, una sorta di scratch che accompagna il cantato per tutta la durata del brano. I bassi si gonfiano, il clavinet balbetta, e la chitarra di W.G. “Snuffy” Walden disegna un epico assolo. L’album si chiude con la strumentale Easy Goin’ Evening (My Mama’s Call) in cui assoluta protagonista è l’armonica a bocca suonata con la solita maestrìa dallo stesso Wonder.
Un caleidoscopio di suoni, emozioni, influenze, linguaggi, così può essere correttamente definito Song In The Key Of Life. Un’opera vibrante ed immortale capace di avvolgere, sconvolgere ed esaltare qualsiasi tipo ascoltatore trascinandolo in quel mondo di pura magia creato dalle visioni intime e meravigliose di Mr. Wonder.