Se si sente pronunciare il nome Romeo da un po’ di tempo a questa parte la mente non va più a un nobile amore contrastato o a un balcone veronese riprodotto alla buona con quattro assi di legno dentro un teatro elisabettiano dalla forma circolare.
Romeo, da amorosa antonomasia che era, è decaduto ultimamente a cognome ridondante delle cronache politiche italiane: più partitamente di quelle che riguardano altri tipi di amorazzi (sempre in voga e mai sufficientemente avversati nel nostro soleggiato Belpaese) tra il governo della cosa pubblica e l’imprenditoria più spregiudicata.
Per chi ancora non ci fosse arrivato, i due Romei in oggetto sono rispettivamente Salvatore e Alfredo.
Il primo era stato messo a capo della segreteria della Raggi con conseguente triplicazione del suo stipendio di dirigente municipale. Coinvolto suo malgrado nello scandalo legato a Marra, è poi tornato più prepotentemente alla ribalta mediatica per via della ormai celebre serie di polizze sulla vita stipulate a favore della sindaca (per chi gradisca l’uso di questo orripilante boldrinismo, o aberrazione grammaticale che dir si voglia) cui il suo ufficio faceva capo. A tutto ciò va poi aggiunta la ben informata diceria carpita all’ex-assessore Berdini circa una segreta liason tra i due (che tuttavia in qualità di buen retiro alla classica balconata preferivano notoriamente i tetti del Campidoglio).
Tanto da suggerire una rilettura del Grande Bardo dall’improbabile titolo di Romeo e Virginetta, che finisca, come già l’originale, con Romeo che, posto di fronte al suicidio simulato della propria amata si toglie la vita, ma in cui stavolta la coprotagonista, una volta ridestatasi dallo stato di morte apparente (che doveva essere poi uno dei suoi ricorrenti malori), constatato il trapasso del proprio drudo, anziché farla anche lei finita per davvero, se ne va dritta dritta a riscuotere l’assicurazione.
C’è da aggiungere che chi scrive in realtà crede alla sincerità della Raggi quando sostiene che quelle polizze le siano state intitolate a sua insaputa (con l’arguibile secondo fine di imbrattarne ulteriormente la reputazione e trascinarla insieme al firmatario delle stesse in un’eventuale, precipitevole caduta), visto che la prima cittadina romana ci pare più sprovveduta e desolantemente incapace che disonesta.
Romeo Alfredo invece è appena stato tradotto alle patrie galere con la grave imputazione di associazione a delinquere. Si tratta di un palazzinaro casertano le cui cointeressenze tuttavia si dirigono anch’esse sin da subito verso la nostra generosa Capitale (del resto l’originario termine alto-medievale romeo non designava forse il devoto pellegrino la cui destinazione ultima fosse per l’appunto Roma?). È qui che attacca a lambire e blandire i centri del potere pubblico, segnatamente la CONSIP istituto governativo preposto alla spesa e, idealmente, al risparmio delle pubbliche imprese.
L’accusa vuole che il Romeo Alfredo sia più volte ricorso, tramite profusione delle più laute regalie, al Renzi babbo dell’ex-premier e alle sue millantate capacità di influenzarne la dirigenza circa l’assegnazione degli appalti (da destinarsi, manco a dirlo, a Romeo e alla sospetta camarilla che lo circondava).
Inquisiti nell’inchiesta, in compagnia di Tiziano Renzi, anche il comandante generale della Benemerita e l’allora sottosegretario renziano Luca Lotti, poi, sotto Gentiloni, addirittura promosso a ministro dello sport, attualmente in carica. Il che ci riporta, in tema di omonimie, a un altro, più remoto processo e a un altro Lotti, efferato sodale di Vanni e Pacciani nelle loro macabre scorrerie tra i colli fiesolani.
Ebbene, speriamo solo che anche in tutta questa storiaccia di lottizzazioni, romeizzazioni e renzizzazioni il Lotti renzian-gentiloniano si decida un giorno o l’altro a svuotare sportivamente il sacco – anche solo in onore del dicastero che presiede – così da dare nuovo impulso alle indagini, confessando – come già fece il suo omonimo predecessore – tutto quel che sa a proposito dei relativi compagni di merende, che, a quanto si può capire, al posto di far risparmiare lo Stato, utilizzavano fraudolentemente il suddetto sistema di garanzia per favorire i soliti amici degli amici.
Anche se, per rimanere in area shakespeariana, già ci sembra di sentire le voci dei vari inquisiti, all’interno delle diverse inchieste, unirsi nel solito coro, a invocare ad alta voce, come già faceva il pallido principe Amleto: «Angeli e ministri di grazia, difendeteci!»
Sebbene i nostri – siamo certi – si appelleranno più puntualmente a quelli di grazia e giustizia a loro più politicamente vicini.