Apologia del remake, un gioco tra il piacere nel vedere il già visto e la sorpresa delle novità rispetto all’originale

Se c’è un modo per scontentare gli spettatori e i critici prima ancora della visione di un film, alimentandone per paradosso l’euforia, è quello di proporgli un remake, colpevole di riesumare una pellicola che merita l’eterno riposo e il ricordo costante degli appassionati. D’altra parte sembrerebbe la pratica cinematografica che più delle altre (parodia, adattamento, trasposizione, sequel, prequel…) riesca con facilità a sublimare da una parte il carattere capitalista dell’industria culturale e dall’altra a sopperire alla carenza creativa rispetto a una domanda in costante crescita. Pensiamoci un attimo: riprendere un soggetto di successo e ripresentarlo sullo stesso medium a distanza di anni assicura sulla carta un ritorno economico piuttosto certo, da unire al già citato minimo sforzo creativo e dunque al conseguente calo dei costi di produzione.
Non a caso Hollywood ne realizza a volontà da sempre, assegnandoli o a onesti mestieranti o a grandi firme del cinema che accettano saltuariamente lavori su commissione, infarcendoli poi dei divi del momento inseriti nel contesto aggiornato in cui il remake viene prodotto. Tanto vantaggiosa dal punto di vista produttivo quanto in genere mortificata dagli addetti ai lavori, tale operazione sembra però attirare il pubblico per mezzo di alcuni assi nella manica altrimenti difficili da coniugare, nostalgia del vecchio e curiosità per le variazioni in primis.

Si tratta di un gioco di alternanza tra i due poli, ossia tra il piacere indotto dal vedere il già visto e la sorpresa per le novità rispetto all’originale, che grossomodo corrisponde alla formula vincente delle vecchie serie a episodi autoconclusivi: così come lo spettatore conosce a memoria la struttura del segmento narrativo dell’Ispettore Derrick di turno – godendo nel veder ripetersi il medesimo schema variato soltanto nei dettagli – allo stesso modo chi si appresta a fruire di un remake si aspetta di riconoscere personaggi e trame del precedente ma anche alcuni cambiamenti che giustifichino la visione. Poco importa se gli aggregatori di recensioni on-line segnaleranno il film col semaforo rosso, col pomodoro marcio o con un paio di stellette o pallini. Il remake è un dispositivo finalizzato al profitto, e solo in questo senso può funzionare o meno. Puntualmente lo spettatore se ne lamenterà, ma solo dopo aver pagato il suo biglietto e aver fatto aumentare l’incasso.
Eppure i caratteri prettamente industriali citati non sono gli unici a comporne l’identità. Messi accanto a certe riconfigurazioni che il remake produce, volontariamente o meno, danno infatti vita a una forma cinematografica opposta al fine primario della macchina Hollywoodiana, cioè il guadagno, facendosi piuttosto materiale prezioso per accademici, critici e altri studiosi dell’aria fritta. In certi casi particolari si genera quindi un vero e proprio cortocircuito che fa fallire il principio del profitto e parallelamente regala ai cinefili remake dai contenuti analizzabili all’infinito perché in continuo riassetto, riscattando una reputazione tutt’altro che nobile. In che modo e in quale quantità questo riassetto venga esercitato è affare piuttosto spinoso e perciò non sempre apprezzato. Proviamo a capirlo e a distinguere due modelli particolari tra i vari approcci possibili al remake.

Caratteristiche del remake

Occorre innanzitutto fissare il principio che lo distingue dall’adattamento o dalla trasposizione: il remake riformula il testo di origine nello stesso linguaggio, nel nostro caso quello del grande schermo, mentre gli altri due sono caratterizzati dal passaggio da un codice a un altro, il più comune dal testo letterario a quello cinematografico. Possono sembrare questioni di lana caprina, ma il fatto che si crei un prodotto culturale a partire da un testo dello stesso linguaggio conferisce al remake un carattere di dualità unico. Tanto per intenderci, una cover musicale identica all’originale generalmente non dice nulla in più rispetto a ciò che si è già sentito, mentre nel cinema sembra che una copia risulti tanto più significativa quanto più identica al testo di partenza. Si dirà allora che ciò che accade a teatro possa essere avvicinabile al nostro oggetto di interesse, ma lì non si praticano remake bensì versioni proprie dell’opera originale, che anziché duplicare il vecchio esaltano la creatività del nuovo autore.
Nel cinema invece accade ciò che Mieke Bal teorizza per le opere d’arte figurativa, ossia un cosiddetto reframing che interviene a modificare la cornice, cioè il pretesto del film. Ne risulta una nuova contestualizzazione, che pur mantenendo quasi intatto il contenuto della pellicola riesce a variarne i possibili significati e interpretazioni. L’artista olandese, come riportato in Teorie dell’immagine di Pinotti e Somaini, spiega il fenomeno per mezzo di un aneddoto: un’amica riceve una cartolina destinata al marito in cui una studentessa lo invita ad una conoscenza più approfondita. La cartolina riproduce il dipinto Il letto di Touluse Lautrec, in cui si notano due giovani dormire quasi abbracciati. Marito e moglie fanno due più due e interpretano quel quadro/cartolina in base al loro contesto, quindi influenzati dall’invito della studentessa-mittente che con una sola frase aveva aperto all’immagine un mondo di letture alternative. Quel due più due corrisponde appunto alla citata attività di reframing che a livello audiovisivo solo il remake riesce a effettuare.

Ci sono infatti casi in cui ad essere modificati sono soltanto certi elementi in apparenza secondari che riescono però a ri-significare tutta la pellicola con la minima variazione, e quelli che ancor più nettamente tentano di ricalcare inquadratura per inquadratura il prodotto di partenza, creando un identico che paradossalmente genera letture altre rispetto all’originale. Sono senz’altro questi i due modelli che possono rappresentare dei fallimenti di mercato e allo stesso tempo dei terreni fertili per le osservazioni degli appassionati. Nel caso del ricalco pedissequo vengono per esempio alla mente Psycho di Gus Van Sant e in ambito letterario il Don Quijote de la Mancha di Borges, mentre in quello dei pochi ma significativi cambiamenti pare calzare a pennello il recente NYsferatu di Mastrovito, opera a metà strada tra cinema e videoarte.

FALSO D’AUTORE: PSYCHO DI GUS VAN SANT

L’idea è stata quella di utilizzare gli stessi angoli di ripresa e gli stessi storyboard. Probabilmente è fedele al 95% all’originale […] è più una replica che un remake, è come se realizzassimo un falso.
(Gus Van Sant)

Come suggerisce Marie-France Chambat-Houillon in un saggio contenuto in Visioni di altre visioni (Guagnelini, Re), l’ambizione del cineasta statunitense nell’approcciarsi a un pezzo di storia del cinema arriva non tanto a pensare di rifare Psycho, bensì quella di farlo, di accostarlo quindi al precedente non tanto come omaggio quanto come omologo. Ecco che, tornando al reframing sopra citato, il contenuto dell’originale viene riproposto come copia identica mentre a variare è la cornice, che nella fattispecie si traduce in un differente pubblico di riferimento, differente ambientazione temporale, differenti intenti e particolari tecnici come il colore al posto del bianco e nero. Di conseguenza vengono meno due pilastri della concezione di arte che evidenziano invece la potenza del remake: se in una visione idealizzata l’autore è colui che inventa, qui assistiamo a un suo annullamento, ridotto a figura che replica, interviene, rimaneggia ma non crea. Allo stesso modo cede quella di opera, principalmente legata al concetto di unicità qui negata da una copia che si vuole confondere con l’originale, e non da una versione propria come accade a teatro, dato che qui il potenziale semantico sembra essere inversamente proporzionale ai cambiamenti messi in atto dagli autori.

L’operazione Psycho di Gus Van Sant rappresenta quindi tanto l’esaltazione del replicabile quanto la riconfigurazione dei contenuti attraverso una nuova cornice, oltreché una seconda occasione per il primo film. La cosa di Carpenter e Scarface di De Palma lo dimostrano, avendo riportato all’attenzione del grande pubblico anche gli originali, entrambi diretti da Howard Hawks e finiti per molti anni nel dimenticatoio del mainstream. Non sarà il caso di uno dei capolavori di Hitchcock, ma senza dubbio uno dei poteri del remake inquadratura-per-inquadratura è stato quello di somministrare a un pubblico di un’altra generazione un prodotto cinematografico difficile da reperire (quello di Gus Van Sant è del 1998) e anche di più complessa visione per uno spettatore abituato a codici distanti da quelli degli anni Sessanta.
È come se questo tipo di remake funzionasse come un restauro non tanto finalizzato a rimediare al deterioramento dell’immagine quanto a fornire un servizio a chi osserva. Si tratta, esattamente come ha sostenuto il regista, di una copia che quasi si azzarda a sfidare l’originale e che offre illimitati spunti di riflessione proprio in quanto non-remake, ma pura duplicazione che amplia lo spettro delle interpretazioni possibili grazie alla nuova contestualizzazione, mentre il contenuto resta identico.

IL CASO NYSFERATU

Se nel caso precedente il nuovo prodotto cinematografico si configura come copia, quando invece gli autori scelgono di rimaneggiare un classico modificandone alcuni particolari – lasciando poi che la narrazione si sviluppi di conseguenza, senza troppi rimaneggiamenti – accade che l’originale venga messo drasticamente a servizio del remake. Si tratta di un reframing ben più robusto, molto simile a quello descritto nell’aneddoto di Mieke Bal, dove la studentessa faceva proprio il dipinto e lo ricontestualizzava a piacimento. È ciò che pare avvenire in Nysferatu-Symphony of a century, film di animazione dell’artista Andrea Mastrovito. Qui il Nosferatu di Murnau viene ritoccato in una delle premesse in maniera che il nuovo emerga quasi per inerzia, senza particolari guizzi creativi che esaltino le qualità dell’autore anziché l’operazione in sé.

Nell’originale Murnau mostrava con particolare gusto espressionista le conseguenze di una compravendita di immobili che vedeva protagonista il vampiro per eccellenza e un giovane dipendente di un’agenzia immobiliare. Inviato in Romania per concludere le pratiche, il protagonista avrebbe dovuto presto fare i conti con la sete di sangue del conte Orlok. Ecco che al lavoro di Mastrovito basta mutare il luogo di partenza e la destinazione della trasferta lavorativa – non più dalla Germania all’Europa centrale ma dalla metropoli newyorkese alla Siria – per generare una catena di rinvii, riferimenti e slittamenti automatici di significato che ribadiscono le potenzialità di un certo tipo di remake e allo stesso tempo possono rivitalizzarne la funzione.

La semplice agenzia immobiliare diviene una macchina di speculazione finanziaria, l’uomo tedesco si trasforma in giovanotto a stelle e strisce, Nosferatu resta una minaccia, s’intende, ma decisamente meno diabolica del broker che incarica il protagonista di muoversi verso la Siria. Insomma, appare evidente quanto un testo possa trasformarsi variandone banalmente il contesto. Accadeva in maniera simile ma assai meno decisa nel film Romeo+Juliet di Baz Luhrmann, che però oltre ad essere un adattamento e non un remake non faceva altro che calare dall’alto i personaggi di Shakespheare in un’attualità più indirizzata a far sognare le ragazzine che altro.

Dall’animazione in rotoscope di Nysferatu sgorgano invece pressoché infinite possibili letture, tutte originate da un semplice cambiamento nella premessa del capolavoro di Murnau e legittimate dall’attualità in cui il film viene presentato. Diventa impossibile per lo spettatore non pensare a una denuncia alle contraddizioni del mercato e al liberismo sregolato, all’immigrato da accogliere a braccia aperte perché carne da macello per le speculazioni del padrone, e ancora alla crassa e ostentata ignoranza geopolitica di chi il mondo lo possiede senza averne la minima cognizione.
E poi Mastrovito si diverte a riempire lo spazio diegetico di poster, ombre differenti rispetto ai corpi che le producono (quella del volto spigoloso del conte si mescola all’orizzonte dei grattacieli della metropoli) e tracce grafiche rivelatrici (la scritta “money” su un grafico si trasforma, perdendo le lettere, in “ny”) che stratificano il prodotto al punto da renderlo da un lato estremamente esplicito, talvolta fin troppo, e dall’altro oggetto di interpretazioni sintomatiche potenti e mai completamente definite.

Benché l’intento di fondo sia come detto anche eccessivamente rimarcato, questo tipo di intervento ci fa domandare quanto siano voluti certi ammiccamenti in apparenza secondari e ancor di più quale sia la posizione dell’autore rispetto al fenomeno migratorio che la pellicola sottolinea con tanta enfasi, interrogativo ancor più carico di significato nel momento in cui si è consapevoli della collaborazione al progetto di associazioni di reduci di guerra, disoccupati, immigrati, ex tossici e compagnia cantante: come si approcciano gli ultimi, gli esclusi, i reietti rispetto a certe dinamiche che li vedono sconfitti? Mastrovito tiene il piede in due staffe? Mette cioè il film originale a servizio del marketing/retorica immigrazionista tout court ma accontentando anche chi ne denuncia lo sfruttamento? E ancora: il suo remake vuole semplicemente essere una fotografia oggettiva, come suggerisce il sottotitolo, oppure prende posizione senza che lo spettatore, preso dalla lettura della pellicola filtrata dalle proprie convinzioni, non riesca a rendersene conto?

Sta forse qui la differenza tra il cinema e l’arte contemporanea, dove basta un ognuno ci veda quel che vuole per giustificare qualsiasi scelta. D’altra parte nessuno ha mai fatto mistero della strana collocazione artistica di Nysferatu: alla Festa del Cinema di Roma fu correttamente presentato come evento speciale, e in più è l’autore stesso a ribadirne la finalità più museale che cinematografica. È proprio il mancato scioglimento dei molti dubbi e degli altrettanti significati potenziali a rendere questo lavoro un’opera d’arte contemporanea riuscitissima e al contempo un film che possa scuotere la natura troppo confortante del remake. A noi e a tutti gli avvelenati anti-remake basti invece sapere che applicando due variazioni all’originale qualcuno sia riuscito a realizzare un prodotto talmente denso e attuale da non accostarsi al precedente, come nel caso di Gus Van Sant, ma addirittura da metterlo al proprio servizio con un tocco di spavalderia indispensabile in questo tipo di approccio.

 

Alessandro Fiesoli-L’intellettuale dissidente

Castrazione nazionale! Le molestie (presunte e reali) nostrane e d’oltreoceano

Agli italiani, popolo giocoso e provolone, erano rimasti due ambiti in cui esercitare la virilità e simulare un po’ di potenza: il calcio e il sesso. Estromessi dai mondiali ed evirati a mezzo stampa nel nome delle molestie sessuali, gli italiani hanno perso gli ultimi rifugi per la propria autostima.
Siamo in piena castrazione nazionale.

Non vi parlerò della disfatta ai mondiali che costerà ascolti, introiti pubblicitari e recherà tristezza e noia nella vita giocosa degli italiani. Ma mi soffermerò su quel filone che scorre ormai da settimane tra cinema e media, sesso e molestie.

Proviamo a dare una veduta d’insieme di questo gioco al massacro e al gossip che dura ormai da settimane. In principio, come sempre, fu l’America e la Casa madre del cinema, Hollywood, dove un mondo di femministe e umanitari, progressisti e antirazzisti, si scoprì un immondo porcaio dove tutti sapevano, anche le suddette anime belle, ma tacevano per viltà e convenienza, o peggio per aver partecipato anch’esse al traffico di sesso e film.
C’è chi si è aggrappato al politically correct adducendo come alibi della sua pedofilia il fatto di aver avuto un padre nazista, cercando la redenzione nel suo outing-promessa: d’ora in poi vivrò da gay. Evviva, si è riscattato, santo subito.
Poi a rimorchio vennero i nostri. Tra l’America e l’Italia il ponte fu l’Asia, e non nel senso di un continente ma di un’attrice incontinente che dopo anni di silenzio decise di vuotare il sacco sulle violenze subite nei due mondi.
E per dimostrare che non siamo da meno dei nostri superiori e liberatori, gli yankees liberal & radical, è cominciata la caccia al porco nostrano, made in Italy.

È iniziato il filone SPQR, Sono Porci Questi Registi. È partita una carrellata di nomi, anche insospettabili o innocenti, coinvolti nel giro.
È venuta fuori la peggior Italia perché a farla da protagonisti sono soprattutto tre categorie: registi allupati che esercitavano il loro potere, proponendo un infame cambio merce, sesso in cambio di parti nei film; poi il mondo di mezzo dei ruffiani, papponi e guardoni; e infine lo squallido mondo di aspiranti attricette in cui è difficile distinguere tra vere vittime, complici della compravendita, un tempo consenzienti, accusatrici a fini di ricatto, malate di protagonismo, maddalene pentite a scoppio ritardato, squinzie coi loro siti intimi più visitati di un blog; tutto pur di entrare nel meraviglioso mondo delle star.

Che si auto-assolvevano con la scusa: era l’unico modo per lavorare. Ora, diventare attrici non è una necessità ma una scelta, a volte una vanità, comunque un’ambizione.
Se ti chiedono di prostituirti (e questo vale in altre forme anche per i maschi), puoi cambiare porta o cambiar mestiere o puntare solo sul tuo talento. O puoi denunciare, appena succede il misfatto.
Ma farlo dopo anni, in mucchio, random, crea sospetti e confusione. Perché si perdono i confini tra violentate (rare), costrette in senso psicologico (meno rare), molestate (numerose), un po’ forzate e un po’ consenzienti (tantissime), più false vittime, a loro volta seduttive e invoglianti, di presunti ingrifati, che a volte erano semplici, innocui benché fastidiosi provoloni.

In questa storia chi ci rimette? A parte le vere vittime di violenza e prevaricazione, ci rimettono le ragazze brave, cioè capaci e meritevoli, che non si sono concesse o che non erano appetibili agli orchi in questione; poi ci rimettono i registi bravi che si sono limitati a oneste avances come sempre accade dacché esiste il mondo, ma che non hanno forzato nessuno e nemmeno abusato del loro ruolo, anche se hanno cercato di trarre fascino e richiamo dalla loro posizione preminente (deprecabile, ma entro certi limiti, comprensibile e non penalmente rilevante).
E ci ha rimesso la credibilità del cinema italiano.

Infine, l’aspetto più becero e stomachevole in questa vicenda è il moralismo mediatico.
Dopo aver deriso e scacciato la morale, ridicolizzato la famiglia e il pudore, viene riattivato un moralismo cinico, che funge solo da giogo mediatico per penalizzare i concorrenti o metterli fuori gioco. Sesso senza limiti, permissivismo assoluto e porci comodi forever; ma tolleranza zero per chi sgarra dalla precettistica gay-trans-femminista.

Fonte:

Castrazione nazionale

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