Un autore capace di far emergere la forza e la bellezza dell’arte giapponese d’epoca Edo. Quella di Kōrin è un’arte che può avere solo imitatori e che ci permette di interagire da vicino con i concetti di kire e di kata, termini fondamentali e suggestivi dell’estetica nipponica.
Quella che chiamiamo epoca Edo – 江戸時代, per riferirci a quel denso periodo della storia giapponese che comprende all’incirca i nostri Seicento e buona parte dell’Ottocento, fino al battezzamento della capitale Edo in Tokyo e al termine dell’ultimo shogunato, è considerata l’età aurea dell’artigianato nipponico. I secoli del nostro Barocco prima, dell’età dei Lumi e del Romanticismo dopo, corrispondono a una fase della cultura giapponese in cui le attività artigianali – di artigiani abilissimi organizzati in vere e proprie corporazioni (un po’ come accadde nel nostro Basso Medioevo) – crescono tanto in qualità e raffinatezza da produrre opere non considerabili più come esiti semplici o complessi di arti tradizionali, ma qualcosa di più. Opere d’arte. Per capirci: se pensiamo a pittori molto celebri in Europa, come il Katsushika Hokusai – 葛飾 北斎 della Grande onda o Ōkyo, ebbene questi artisti operano in epoca Edo.
Epoca Edo: alle origini dei termini kata e kire
La parola tradizione è una parola-chiave, perché le arti appena menzionate sono squisitamente tradizionali. Si basano sugli insegnamenti tramandati da maestro ad allievo, stili che vengono appresi con estremo sforzo e dedizione per essere ripetuti. Il termine giapponese per riferirci al nostro concetto di stile, è kata – 型. Il kata è la formalizzazione di un gesto o di un insieme di gesti. È, appunto, una stilizzazione. Maneggiare la spada, utilizzare un pennello, compiere i gesti dell’arte della Via del tè… questi sono tutti atti formali validi che vengono appresi e replicati.
Tuttavia la configurazione che deriva da questo – chiamiamolo così – sistema, non è affatto rigida e categoriale come ci si potrebbe aspettare. Non si tratta solo di stabilire una regolamentazione o un canone, trasmetterlo autorevolmente affinché esso venga scolasticamente mantenuto e reiterato. Paradossalmente, nella cultura dei kata, proprio la regolamentazione che pensiamo inflessibile, ha come scopo non la chiusura dello schema fisso, ma la libertà. Solo tramite la ripetizione e la pratica del kata si diventa liberi e, contro-intuitivamente, ci si affranca dalla pratica. Ripetere il kata richiede un atto sì di ripetizione, ma di ripetizione creativa, di sforzo creativo, che supera la mera ripetitività e ci rende spiriti liberi. Dice lo Heihō kadensho – 兵法家伝書, un testo sulla pratica della scherma e della strategia:
distanti dalla pratica, e tuttavia corrispondenti alla pratica,
così si diventa liberi in ogni azione
Un dialogo che può essere intrattenuto in questo senso dall’arte-artigianato giapponese d’epoca Edo, sulla scia di un concetto come quello di ripetizione e riproducibilità, è con certa filosofia contemporanea europea, in parte ben nota ai filosofi giapponesi. L’arte-artigianato giapponese già in epoca Edo è fin da subito aperta alla produzione di massa, laddove ciò, seguendo ad esempio ciò che ci dice un autore tanto essenziale in questo ambito come Walter Benjamin, nel contesto dell’ arte occidentale si verifica solo nell’epoca della tecnica e del mercato (la contemporaneità), con conseguenze spesso drammatiche per la perdita dell’aura e della sacralità dell’opera d’arte stessa.
Il concetto di bello in Giappone
Vivo esempio dell’arte dei kata è, come ben sottolinea il filosofo contemporaneo Ryōsuke Ōhashi – 大橋 良介 in Kire: il bello in Giappone, recentemente tradotto da Alberto Giacomelli, un’opera magistrale del pittore di primissima epoca Edo Tawaraya Sōtatsu – 俵屋 宗達, Dio del vento e Dio del tuono. Si tratta di un paravento da tempio diviso in due parti, ciascuna destinata a una delle due divinità, “incarnazioni della forza della natura”. L’opera è, altrimenti, un modo di rappresentare il fenomeno naturale. Mostruose e, tuttavia, umane, le due figure, che un occhio occidentale non tarderebbe a definire demoniache, sono caratterizzate da una “gioiosità marcata e vivace”. Esse compiono un gesto stilizzato, vistoso, dinamico, definito (kata). Il marcato colore oro che fa da sfondo, caratteristico anche in altre opere d’arte di Kyoto, come quelle di Kyūzō e Tōhaku (Fiori di ciliegio e Acero), è un colore poco comune.
Esso splende prepotentemente, raccoglie la luce, è fulgore divino e glorioso, tuttavia nelle opere appena menzionate esso favorisce, per contrasto con la sagoma scura e ombrosa degli alberi e delle foglie, a dare una sensazione di morte. È un gioco tra l’al-di-là e l’al-di-qua che segue una dicotomia complessa che nella cultura giapponese viene denominata kire-tsuzuki – 切れ続き («taglio-continuo») e secondo la quale due elementi, solitamente opposti e contrari, entrano in gioco tra di loro tanto mantenendo tanto l’opposizione quanto sviluppando una compenetrazione reciproca. La forza dell’oro e l’oscurità robusta del tronco: nessuna di esse esisterebbe se non nell’interdipendenza (e insieme nell’indipendenza) dell’una con l’altra. L’oro in questo caso fa da kire-tsuzuki tra la vita e la morte, permettendo quella dimensione di complicità tra i due elementi conosciuta come asobi, gioco. Il gioco di vita e di morte.
Ebbene, kire e kata sono apparentati. Nell’opera di Sōtatsu, il gesto-kata delle due divinità è un taglio-kire della naturalezza. L’esito è proprio rappresentato dalla gioiosità dipinta sui loro volti. Qui c’è ripetizione di una forma, certo, ma essa lascia sorgere qualcosa di nuovo nell’origine stessa che viene ripetuta. Allora il kata non è semplicemente quello che uno studioso d’estetica occidentale chiamerebbe stile, quello stile a cui, durante la prima epoca Edo, ci si riferisce ad esempio in Europa per identificare come barocche opere di Bernini e Marino. Realizzare il kata significa anche realizzare liberamente il kire. Certo, esiste la possibilità di comparare tanto i due concetti quanto le opere che sono la loro manifestazione (Ōhashi fa questo quando mette a confronto la cattedrale gotica occidentale, simbolo di una “metafisica della luce”, e le stanze da tè giapponesi). Tuttavia uno scarto tra le due nozioni rimarrà necessariamente, ed esso esiste proprio sulla scorta di quel kire che tanto caratterizza l’arte di autori come Sōtatsu.
Kōrin Ogata: per un nuovo kata
Vicino al nome di Sōtatsu ci sono quelli di altri importanti artisti, le cui opere sono vivo esempio del rivelarsi di quella complessa struttura che chiamiamo kire-tsuzuki. Arriviamo così a Kōrin Ogata – 尾形 光琳 (1658-1716), esponente della scuola Rinpa (di cui faceva parte anche Sōtatsu) e imparentato con un collaboratore di questi, Kōetsu, con il quale Sōtatsu aveva realizzato importantissime opere pittoriche in cui il gioco tra immagine e calligrafia (arti profondamente apparentate nella cultura sino-giapponese) realizzava un kire tutto particolare. Ebbene Kōrin deve moltissimo al suo maestro Sōtatsu. Ne conosce intimamente l’opera, lo ammira moltissimo. Grazie a questo rapporto intrattenuto con Sōtatsu, l’arte di Kōrin segna un decisivo sviluppo nella storia dell’arte giapponese. Ormai uomo di mezz’età, assai benestante, Kōrin abbandona l’ormai non più remunerativa attività commerciale dei genitori per dedicarsi alla pittura. Conoscere l’opera di Sōtatsu significa per Kōrin nientedimeno che ripetere con estrema dedizione un kata, perché non esiste, secondo la cultura del kata, invenzione senza imitazione.
La novità della ripetizione dell’opera Dio del vento e Dio del tuono
Così Kōrin copia, letteralmente, i dipinti del maestro, rifacendosi anche all’opera Dio del vento e Dio del tuono già menzionata. Ma come ogni grande ripetizione di kata, questo gesto è una forma di ripetizione non volta alla riproduzione, ma alla creazione, a infondere cioè all’opera ripetuta una novità che segna un oltrepassamento, una metamorfosi. Il gesto di Kōrin, svolto ad esempio nei confronti di Dio del vento e Dio del tuono, è tuttavia quanto di più lontano c’è – se il dubbio è stato instillato – da quella che un occidentale chiamerebbe variatio o “variazione sul tema”. Una variazione prevede che l’oggetto dell’imitazione permanga come “primo” rispetto alla sua variazione. Una variazione su un tema di Brahms ha come autore un compositore diverso da Brahms, magari molto lontano stilisticamente dal pianista amburghese, tuttavia prevede che il referente, ovvero il tema di Brahms, mantenga un qualche “privilegio ontologico” sulla sua variazione. Con il gesto compiuto da Kōrin ciò non accade. Lo sguardo delle due divinità allora muta, fino a che non giungiamo a qualcosa di totalmente nuovo, Fiori di pruno rossi e bianchi.
Se abbiamo già ammirato l’opera di Sōtatsu, osservando Fiori di pruno dovremmo avere come la percezione di avere di fronte, assieme a una vaga sensazione di stranezza sul perché ciò accada, la stessa opera. Eppure i due lavori sono molto diversi. Di sfondo rimane l’oro di cui abbiamo già parlato, l’opera resta divisa in due, destinando ogni parte a due “protagonisti” uguali e distinti (non più divini, in questo caso, ma naturali, i pruni). Ciò che in qualche modo sconquassa il parallelismo è proprio la divisione dei due luoghi operata dall’immenso fiume nero che scorre nel mezzo dell’opera. Come sottolinea Ōhashi, un grande studioso di Kōrin, Yamane, affermò suggestivamente come il pittore avesse
trasfigurato il luminoso cielo di Sōtatsi [in cui si muovevano le due divinità] in un oscuro abisso.
Fiori di pruno: tra tripudio della vita e abisso
L’idea dell’abisso è estremamente acuta, si percepisce chiaramente osservando Fiori di pruno. L’aggraziato motivo floreale è dominato dalla presenza del fiume corvino e abissale, tanto originale e particolare da essere stato denominato nientedimeno che onda Kōrin. L’andamento dell’onda non è armonico. Il corso d’acqua non segue un flusso retto e chiaro, bensì sinuoso, flessuoso, serpentino, come se la sua origine e il suo termine fossero due vortici, due abissi appunto. Ciò che è vita appare allora come ciò che nasce e perisce (l’abisso vorticoso e insieme la vitalità dello scorrere). Solo allora emergono chiaramente i temi che, visivamente meno prevalenti, sono le dominanti dell’opera, ovvero i pruni che il fiume divide.
Da una parte il lato maculato di bianco, dall’altra quello punteggiato di rosso. I rami rossi salgono folti verso l’alto, traboccando fuori dalla cornice, quelli bianchi scendono, più radi, verso il basso. Appare, di contrasto rispetto al fluire potente del fiume nero e centrale, una simmetria, un senso architettonico e categoriale di divisione, per cui sembra che l’opera respiri della presenza di tutto ciò che è vivente e incasellato secondo una divisione aristotelica di generi e di specie, graduati da elementi singoli (i fiori, i singoli vortici) e dal loro complesso (le piante, il fiume). Ai lati del fiume ci sono proprio i due generi, maschile e femminile, rosso e bianco, la grazia e la robustezza, la vecchiaia e la crescita, rappresentati dai pruni.
Infine, dietro, il tripudio della vita e del suo organizzarsi, lo sfondo d’oro, il taglio, luogo umano e oltreumano. Ma allora, ripetendo creativamente il kata, superando il presagio di morte di Fiori di ciliegio e di Acero e allo stesso tempo Sōtatsu, qui non v’è più il presagio di morte e la sua presenza indiscussa, il senso di inevitabilità di essa, bensì una consapevolezza che ha i tratti di ciò che i giapponesi chiamano hijō, «indifferenza», e che consiste in un vero “rituale della morte”. È piuttosto lo sguardo che riconosce l’inumana indifferenza della morte nel bel mezzo del fiorire della vita che caratterizza l’opera di Kōrin, dice Ōhashi. La sensibilità vitale (jo) e la sua negazione (hijō) divengono così due elementi accessibili solo grazie al taglio e all’apparire della loro complicità. Per mezzo della negazione della vita si accede alla vita, la negazione taglia (kire) il suo opposto, perché come esito emerga “la natura immediata del mondo umano”. Un nuovo kata, quello di Kōrin, che i posteri imiteranno.