La natura in vitro: sette movimenti per raccontare la storia della Terra nell’opera multimediale di Frans Lanting

Sette movimenti per raccontare la storia dello sviluppo della Terra e della vita su di essa, dalle prime cellule fino agli esseri, al momento, più evoluti. Sette movimenti ispirati a musiche già composte, ma che, insieme, raggiungono una forza emotiva inaspettata, lasciando l’ascoltatore in balia degli elementi naturali e delle creature che popolano e che hanno popolato il mondo. Da Philip Glass non ci si poteva aspettare che questo, un concerto capace di far vibrare ogni molecola del corpo e così sentirsi parte di un cosmo totale e totalizzante. Life: A Journey Through Time, però, non è solo questo. L’opera, concepita come multimediale, non riesce ad esprimersi, se non attraverso la musica, tralasciando quella che in realtà sarebbe dovuta essere la principale protagonista: la fotografia di Frans Lanting.

Frans Lanting, olandese di nascita ma americano d’adozione, è l’incarnazione perfetta dello spirito che anima la rivista National Geographic: seguendo il motto inspiring the people to care about the planet, ha sempre cercato di produrre immagini in grado di smuovere coscienze e che potessero mostrare l’innata bellezza di una natura viva e selvaggia. Molte delle fotografie di Lanting sono entrate di diritto nella storia della fotografia naturalistica, alcune di esse si sono rivelate addirittura importanti per la ricerca scientifica (tra le altre, da ricordare le foto “impossibili” scattate all’Aye Aye, lemure notturno del Madagascar, fino ad allora creatura quasi mitologica), eppure può l’approccio di un fotogiornalista davvero mostrare la natura in tutti i suoi aspetti? Può la sua opera davvero incidere nei comportamenti di coloro che ne vengono a contatto?

La società contemporanea, sempre più immersa in un mare di immagini (dove l’attenzione di ogni persona è costretta a disperdersi tra milioni di input, impossibili da approfondire con ragionamenti e pensieri che vadano oltre il like, la faccina o la più complicata indifferenza) non permette un contatto emotivo vero e proprio con un fotogramma: per quanto di pregevole fattura o straordinariamente “potente”, lo schermo di un computer o di un telefono-non-telefono non può che rendere tutto semplicemente effimero, non lasciando tracce neanche nell’osservatore più attento e preparato. Il social network, divenuto ormai la nuova forma della rivista, lascia spazio solo ai sentimenti più istintivi, costringendo in qualche modo perfino rivista storiche come National Geographic a farsi creatori di contenuti “vendibili”, come video e foto che scatenano la lacrimuccia o il sorrisetto facili, che si perdono nel marasma del web.

Perfino video virali come quello girato da Paul Nicklen, altro fotografo storico di NG, viene presto dimenticato causa le caratteristiche intrinseche del mezzo utilizzato, internet. Come suscitare allora un interesse più profondo, in grado davvero di lasciare tracce? Frans Lanting pubblica nel 2006 Life, la sua opera più completa. 300 pagine di scatti frutto di una longeva carriera tra foreste di ogni tipo, passeggiate su vulcani, isole perdute e oceani d’acqua e ghiaccio. Il libro si presenta come una sorta di sunto illustrato dell’evoluzione della vita sul pianeta Terra, dalla sua formazione ad oggi. Suddiviso in diversi capitoli di diversa entità a seconda delle ere a cui si fa riferimento (i paesaggi inospitali che ricordano gli albori del pianeta occupano più spazio delle immagini in cui compare l’uomo), Life ha la pretesa di porsi come un’enciclopedia del naturale.

Enciclopedia è il termine più esatto: le fotografie non lasciano che un sentore di già visto, perfino laddove cerca di stupire con inquadrature o tecniche particolari, e, soprattutto, di una profonda freddezza nell’approccio. Gli animali, le piante, le montagne, i fiumi, i mari, tutto sembra obbedire alle regole della composizione, della bellezza canonica della fotografia che proprio per questo imprigiona, uccide il soggetto. Tutto è immortalato, tutto è cristallizzato. Non resta niente di veramente vivo, vitale. Lanting, vero e proprio cacciatore, non riesce a presentarci altro che icone lontane, impossibili da conoscere, esotismi scientifici. Perfino le immagini dei pattern naturali che compongono il nostro corpo messo a confronto con quelli presenti nella vegetazione, non restano che fotografie dall’approccio didascalico, che non mostrano altro da ciò che si vede. Il visibile è visibile, l’invisibile resta tale.

Nasce successivamente, forse proprio dalla necessità di voler focalizzare l’attenzione delle persone sul tema “pianeta”, l’idea di uno spettacolo in cui musica e fotografia possano raccontare il tutto. Ed ecco allora Life: A Journey Through Time, opera arrivata nel 2018 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sviluppata con la collaborazione di personaggi del calibro di Michael Riesman e Philip Glass. Nemmeno la musica di quest’ultimo, però, riesce a sostenere le immagini che, soprattutto a causa di un montaggio video a tratti insensato a tratti infantile, probabilmente composto con software gratuiti per smartphone, non riescono a suggerire e suggestionare, ma solo mostrare.
Il fotografo naturalista, cacciatore di “belle fotografie”, cerca di superare gli strati accumulatisi per anni per la sua professione, tentando di trasformare le immagini costate tanta fatica in qualcos’altro. Delude lo spettacolo che mette in risalto il chiudere in provetta campioni di natura selvaggia, attraverso una fotografia che si rifà al principio fondatore del medium ottocentesco: il positivismo.

L’uomo sente il bisogno di possedere e controllare tutto ciò che lo circonda, in un modo o nell’altro, e la fotografia gli permette di incorniciare una parte di quell’essenza (per non andare poi a discutere sulla foto turistica con il monumento, altra ramificazione della necessità di possedimento e prova dell’esistere). La visione allora è estremamente umanizzante, non lascia alcuna possibilità allo spettatore di avvicinarsi davvero al mondo animale o vegetale. Il tentativo di coinvolgere gli osservatori, soprattutto per la causa ambientalista (l’ultimo movimento è ispirato alla teoria di Gaia di James Lovelock), si perde in una messinscena dove lo slancio vitale è morto prima di nascere, dove la sistematicità del metodo scientifico ha sopraffatto sì la lacrimuccia facile da social, ma ha anche sotterrato ogni possibilità di avvicinamento emotivo abbastanza forte da poter far interessare alla causa, alle cose o addirittura alla narrazione stessa. Finito lo spettacolo, si spegne lo schermo, applausi per il PCME di Tonino Battista, si torna alla vita quotidiana, tra social e inquinamento, a sognar isole sperdute solo per vacanze ben organizzate.: è tutto ingabbiato in quei quattro bordi.

 

Dario Pellegrino

 

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