’Nuns healing hearts’. Al MAXXI la mostra fotografica contro la tratta di esseri umani

Si terrà martedì 1 marzo 2022 alle 18.00 presso la Sala Graziella Lonardi Buontempo del Museo MAXXI a Roma l’Opening Event della mostra fotografica “Nuns healing hearts” di Lisa Kristine contro la tratta di persone. La mostra è organizzata dall’imprenditrice culturale Claudia Conte in collaborazione con il Global Solidarity Fund a favore dell’Unione Internazionale delle Superiori Generali e di Talitha Kum.

Dopo l’inaugurazione in Vaticano con Papa Francesco e l’esposizione presso il Palazzo delle Nazioni Unite a New York, “Nuns healing hearts” sarà per la prima volta aperta al pubblico italiano, gratuitamente, presso il Corner MAXXI dal 1 al 6 marzo p.v. dalle ore 11:00 alle ore 19:00.
L’evento di inaugurazione del 1 marzo si aprirà con una tavola rotonda alla quale prenderanno parte Giovanna Melandri – Presidente Fondazione MAXXI, Gabriella Bottani, SMC – Coordinatrice Internazionale Talitha Kum, Elena Bonetti – Ministra Pari Opportunità, Paolo Ruffini – Prefetto Dicastero per la Comunicazione, Fabio Baggio, CS – Sottosegretario Sezione Migranti e Rifugiati (DSSUI), Laurence Hart – Direttore Ufficio OIM per il Mediterraneo, Massimo Bray – Direttore Generale Treccani, M. Franca Zonta, FMI – Esecutivo UISG.
Modera Claudia Conte, imprenditrice culturale con focus sulla responsabilità sociale.

Durante la tavola rotonda saranno proiettati il videomessaggio della fotografa Lisa Kristine e il video di Talitha Kum “Che cos’è la tratta di persone?” diretto da Lia Beltrami.

Hanno patrocinato il progetto numerose istituzioni: Ministero della Cultura, Ambasciata presso la Santa Sede degli Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada, Irlanda, Paesi Bassi, Fondazione pontificia Gravissimum Educationis, Galileo Foundation, IOM, UNICRI, Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, Rai per il Sociale, Fondazione Treccani Cultura, Festival della Missione.

Gli scatti della fotografa umanitaria Lisa Kristine nascono da un dialogo profondo tra l’artista, le suore e le vittime della tratta e raccontano l’impegno della rete internazionale “Talitha Kum” che conta la partecipazione di oltre 3000 suore, amici e partner in tutto il mondo. Coordina 50 reti in oltre 90 Paesi. Nel 2020, Talitha Kum si è presa cura di oltre 15.000 sopravvissute e circa 170.000 persone hanno beneficiato di attività di prevenzione e formazione contro la tratta.

Biennale FOTO/INDUSTRIA 21 BOLOGNA “Food” fino al 28 novembre 11 mostre fotografiche

La Fondazione MAST presenta la quinta edizione di Foto/Industria, la prima Biennale al mondo dedicata alla fotografia dell’Industria e del Lavoro, che si svolgerà a Bologna dal 14 ottobre al 28 novembre, con la direzione artistica di Francesco Zanot: 10 mostre in sedi storiche del centro cittadino e una al MAST.

Titolo di Foto/Industria 2021 è FOOD, un tema di fondamentale importanza per il suo inscindibile legame con macroscopiche questioni di ordine filosofico e biologico, storico e scientifico, politico ed economico.

Al centro della Biennale si trova il soggetto dell’industria alimentare: il bisogno primario del cibo si sovrappone a quello delle immagini in un percorso che si sviluppa all’interno di una materia insieme senza tempo e di stringente attualità. Un settore in rapido sviluppo che risponde alle più importanti trasformazioni in atto su scala globale: la questione demografica, il cambiamento climatico e la sostenibilità. Fotografia e gastronomia si fondono dalla teoria alla pratica innescando una serie di riflessioni sulla complessità della “questione alimentare”.7

TAKASHI HOMMA 01 Chambéry

“Il cibo è un fondamentale indicatore per analizzare e comprendere intere civiltà – scrive nel testo introduttivo del Photo book / Ricettario della Biennale il direttore artistico Francesco Zanot -. Le modalità attraverso cui gli alimenti vengono prodotti, distribuiti, venduti, acquistati e consumati sono in costante cambiamento e racchiudono pertanto alcuni caratteri distintivi di un’epoca, un periodo
storico o un ambito culturale e sociale…

Il cibo è linguaggio. Come la fotografia, gli alimenti incorporano e diffondono messaggi. Il risultato è un cortocircuito: qualsiasi fotografia di cibo è il frutto di un processo di ri-mediazione. Inoltre, fotografia e cibo hanno un legame speciale con la tecnologia.

La fotografia nasce come tecnica. Camera oscura, pellicola e obiettivo sono conquiste dell’ingegno umano messe al servizio della scienza, dell’arte, della memoria e della trasmissione di informazioni.

Per quanto riguarda il cibo, il punto di svolta è costituito dalla comparsa dell’agricoltura, che conduce dal nomadismo alla coltivazione e all’allevamento stanziali attraverso una serie di profonde innovazioni tecniche”.

DONNA due giovani raccoglitrici di zucche, ne portano via una ciascuno trasportandola sulla testa. fotografia di Ando Gilardi (parte della mostra Olive e bulloni – Ando Gilardi Lavoro contadino e operaio nell’Italia del dopoguerra 1950-1962) Qualiano (NA) 1955 circa

Tra i principali argomenti oggetto delle 11 mostre che ripercorrono un secolo di storia dagli anni Venti ad oggi, figurano: l’industria alimentare e il suo impatto sul territorio; il rapporto tra alimentazione e geografia; la meccanizzazione della coltivazione e dell’allevamento; la questione del grano; l’alimentazione organica e naturale; i mercati e le tradizioni locali; la pesca nei mari e nei fiumi. Undici fotografi tutti di caratura internazionale.

Tre artisti italiani: Ando Gilardi, tra le figure più eclettiche e originali della storia della fotografia italiana, è il protagonista della mostra “Fototeca” al MAST con una combinazione di reportage fotografici e materiali estratti dal pioneristico archivio iconografico che ha fondato nel 1959 (la mostra proseguirà fino al 2 gennaio 2022); Maurizio Montagna ha realizzato “Fisheye” appositamente per questa Biennale, progetto dedicato al fiume Sesia e alla sua valle (Collezione di Zoologia del Sistema Museale di Ateneo – Università di Bologna); Lorenzo Vitturi in “Money Must Be Made” fotografa Balogun, il mercato di strada di Lagos in Nigeria, uno dei più grandi del mondo (Palazzo Pepoli
Campogrande – Pinacoteca Nazionale di Bologna).

 

FOTO/INDUSTRIA 2021 V BIENNALE DI FOTOGRAFIA DELL’INDUSTRIA E DEL LAVORO FOOD

BOLOGNA, 14 ottobre – 28 novembre 2021 

Ingresso gratuito 

Per maggiori info: www.fotoindustria.it 

 

Matteo Delbò, documentarista e film-maker, tra principio di realtà e verità

Luoghi, visi, persone, strumenti tecnologici che fanno da tramite tra una realtà e il proprio sguardo, le proprie idee, i propri pensieri. In questo microcosmo si muove il fotografo e film-maker milanese Matteo Delbò che ha girato per il mondo munito di mezzi tecnologici e di onestà intellettuale. Il principio di realtà è alla base del suo lavoro che consiste nel fotografare e nel riprendere situazioni particolari o ordinarie che se guardate da un certo punto di vista diventano straordinarie.

Dopo il diploma alla Scuola Nazionale di Cinema, Matteo ha vinto il Premio David di Donatello per il miglior cortometraggio. Ha trasmesso in diretta per il sito del primo quotidiano italiano “Il Corriere della Sera” e per MTV NEWS a seguito di emergenze naturali, manifestazioni e rivolte durante le “primavere arabe”. Per l’agenzia H24 ha filmato 20 reportage di lungometraggi, vincendo alcuni dei più prestigiosi premi italiani: “Napoli, vita, morte e miracoli” Premio Flaiano per il miglior reportage italiano nel 2007, “Stato di paura” Premio Ilaria Alpi per il miglior lungo italiano documentario nel 2007, Premio Flaiano “Catia’s choice” per il miglior reportage italiano 2015. Per Al Jazeera English ha girato documentari per il programma Witness end Compass e ha lavorato per Sky news da Mosul, in Iraq. Attualmente lavora per il programma RAI “Report”.

La passione per la cultura visuale unita alla dedizione e al talento innato, ha reso possibile a Matteo anche la vittoria del World press photo 2019 nella categoria digital store per il cortometraggio “Ghadeer” dove si respira polvere e caldo asfissiante.

Si parlava di fedeltà al principio di realtà, davanti al quale tutti si sono inginocchiati: scettici, atei, razionalistici, cristiani, ma viene da chiedersi soprattutto guardando i lavori di Matteo: non è che soffriamo di troppa realtà, pensando che la realtà sia, semplicemente, ciò a cui ci addestra l’illusione ottica, e questa realtà entra dalla finestra, soffocandoci come il caldo di Mosul? Questo difetto nello sguardo ci censura all’ovvio, all’epoca in cui l’arte del guardare, del filmare può anche essere dileggio del vero.

L’attività di Matteo Delbò, costruita soprattutto sulla relazione e la condivisione, ci induce a profonde riflessioni, prima fra tutte quella relativa all’adozione del criterio dell’esperienza come sola fonte delle evidenze umane, per dirla alla Fondane, sul valore che si attribuisce oggi alla metafisica e sull’importanza di scotennare i fondamenti del vivere civile.

Varsavia

 

 

Qual è la parte del suo lavoro che le piace di più e quale invece le costa maggiore fatica?

Per quanto riguarda la parte che mi piace di più, sicuramente è la la fase di costruzione della storia attraverso la relazione con i personaggi, quindi fondamentalmente quando si riprende e si realizzano film documentari che poi vedi insieme a qualcuno; è un esperienza meravigliosa di condivisione, di relazione di impegno tecnico, nonché di ingresso nella vita delle persone che spesso costituisce una condivisione inimmaginabile in qualunque altro modo, per esempio se si trattasse di una vacanza. Mi spiego meglio: a Gaza vivevamo insieme alle persone che riprendevamo e questo corrisponde anche una modalità di approccio al lavoro che non tutti hanno ma che per me e per le persone con cui collaboro, quelle vicino al cuore rappresenta un modo di lavorare fondamentale per la riuscita di un docu-film di qualità.

Per quanto riguarda invece la parte faticosa, direi che riguarda il montaggio, tutta la parte di produzione e quindi una volta che ci si è separati e distaccati da quell esperienza relazionale, nasce un altro tipo di relazione che è quella con il materiale, la quale è molto più mediata, intellettuale ed emotivamente meno diretta. Tuttavia questa parte, benché mi piaccia meno, richiede altre doti quali la pazienza, la capacità organizzativa e una certa disciplina ed io sono più disciplinato più disciplinato nella relazione, nel contatto diretto, molto meno quando c’è una distanza.

Black horse in Gaza

Quando si è appassionato alla fotografia, la trova una forma d’arte o di artigianato?

Mi sono appassionato alla fotografia e nello specifico, forse sarebbe meglio dire alla documentazione da cui poi è nato il rapporto con la fotografia e successivamente con il film making, come attività e come lavoro, facendo il primo reportage “privato”, scattando foto alla mia personale situazione familiare, e fotografando una guerra familiare. Poi sono andato in Jugoslavia durante la guerra e li ho intrapreso seriamente questa passione come lavoro, che mi ha permesso di entrare al centro sperimentale per poi di proseguire la carriera.

Poi la fotografia, la documentazione e il film-making per me sono attività principalmente di artigianato, sebbene ci sia un fortissimo aspetto creativo e naturalmente ciò ha che con il fatto di raccontare delle storie che portano come risultato finale a una sequenza di scatti, immagini e suoni che producono un senso compiutezza narrativa; per cui quando riprendo la realtà in un certo senso la riformulo ,a il sostrato c’è. Poi soprattutto nei film ci sono tutta una serie di ulteriori passaggi, mediazioni che sono estremamente soggettive e relative alla manipolazione, la quale a sua volta può essere più o meno soggettiva o oggettiva. Tale manipolazione, per quanto mi riguarda è un atto di artigianato creativo in quanto metaforicamente e naturalmente uso le mani e i miei strumenti tecnici per dare una forma compiuta e significativa alla realtà.

Cosa vorrebbe che suscitassero le sue foto in chi le osserva? Una parte di realtà o le importa che si guardi anche al suo “estro artistico”?

No del mio “estro artistico” non mi importa nulla, è un aspetto fuori dal mio orizzonte mentale ed emotivo, mi importa che le fotografie come le immagini comunichino qualcosa più che in informino creando una relazione tra il soggetto e e il fruitore finali, il viewer. Si tratta di una relazione complessa e mediata da me che deve risultare immediata. Certamente in tal senso bisogna avere grandi capacità di artigianato creativo.

Come si fa una buona inchiesta?

Si parte dalle fonti e poi bisogna avere a disposizione tanto tanto tempo e dedizione.

 A volte è stato mai toccato dall’ombra del pregiudizio, ovvero è partito con un’idea precisa perché voleva fosse quella e poi è dovuto ricredersi?

Un professionista che cerca di raccontare la realtà non deve mai partire con un pregiudizio, cn un preconcetto, in questo senso, no non mi è mai capitato. Non dobbiamo assoggettare noi la realtà secondo quello che ci piace o conviene di più.

Un fatto, un viso, una situazione che l’hanno colpita di più in Iraq?

Tante cose. Direi che spesso in Italia di parla di cose che non si conoscono. Ciò che mi ha colpito di più in Iraq è il loro sistema politico, il potere militare: è un sistema basato su quote che però non è servito a mitigare le rivalità tra le varie fazioni nell’accaparrarsi il potere, dando così vita a lotte politiche per il controllo di posizioni politicamente ed economicamente fondamentali. Il tutto a discapito del benessere dei cittadini con questa divisione settaria vigente.

Il Male vissuto in prima persona su cosa l’ha fatta interrogare? In che modo ha cambiato prospettiva?

Ho imparato o meglio, ho cercato di mettermi nei panni di chi la pensa diversamente da me, di entrare dentro a una cultura diversa per comprenderla, per avere una visione più completa della realtà anche se forse non sarà mai la totale realtà.

Hannah Arendt diceva che il male non possiede profondità e sfida il pensiero; è d’accordo?

Sì, il male è banale, che poi bisogna capire bene cosa intendiamo per Male. Diciamo che spinge a riflettere, ad assumere un altro punto vista, a scoprire altre realtà che però quando le vedi non sempre il fatto di essere intellegibile è un sollievo, può far soffire ugualmente.

Sogni da realizzare?

Senza dubbio riprendere a viaggiare, a muovermi con più libertà, dopo che sarà finito questo drammatico periodo.

 

Worldpressphoto

https://www.worldpressphoto.org/collection/storytelling/2019/37769/2019-Ghadeer

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe la Spada, artista ‘interdisciplinare’: ‘Comprendendo l’acqua forse si comprende il segreto della vita’

L’arte è un modo di raccontare il mondo attraverso la creatività dell’intelletto. L’uomo crea il mondo, ma creazione e riproduzione non sono la stessa cosa: difatti se l’artista crea il mondo, l’artigiano lo riproduce. L’arte dunque non è ciò che è mondo per dirla come Karl Kraus, non si tratta di una questione di gusti, ma di scavalcare orizzonti, compiendo qualcosa di nuovo. In tal senso l’artista “interdisciplinare” Giuseppe La Spada ispirato da natura, poesia e suono, e da sempre interessato alle tematiche ambientali, cerca di operare come fa la natura, riproducendo con tecniche digitali e con la fotografia la sua attività.

Protagonista di molti lavori del poliedrico Giuseppe la Spada è l’acqua, elemento usato come pretesto per parlare del rapporto Uomo-Natura, riflettendo su ciò che c’è sotto la superficie, facendo emergere l’indicibile che acquista consistenza in una atemporalità sospesa tra suono e segno.

La Spada è dunque, in quanto fotografo e video-artista, un artigiano che racconta qualcosa che già può essere nella nostra testa, un esploratore di profondità, un ideologo sensibilizzatore, un artista certamente concettuale ma lontano dall’estetica del disgusto, sulla scia del movimento Art and Language nato negli anni settanta.

La fotografia infatti non è arte ma artigianato, tecnologia e nell’era delle fotocamere digitali tale definizione assume un valore ancora più forte. L’artista ha esposto i suoi lavori in Europa, America e Asia, dove ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Webby Awards vinto nel 2007 con un progetto online legato all’ecologia. Nel 2018 partecipa alla mostra Idesign, Manifesta 12 Collateral a Palermo con Fluctus, un’enorme installazione in plastica.

Nello stesso anno, il suo lavoro è anche esposto nella mostra Re-Use, tra artisti come Man Ray, Duchamp, Manzoni, Christo, Pistoletto, Damien Hirst. Attualmente vive e lavora a Milano: nel 2017 ha presentato l’installazione Shizen no Koe al “Festival per la Terra” al Museo oceanografico di Monaco; è direttore creativo al MuMa di Messina e ha da poco sviluppato il progetto sociale We are drops che mira a creare una nuova consapevolezza nelle nuove generazioni e soprattutto nei bambini.

Collapsing

 

In che modo riesce ad esprimersi al meglio? Attraverso la fotografia, l’arte digitale, la video-arte, le installazioni?
Quando ero ragazzo leggendo lo ‘Spirituale nell’Arte’ di Kandinskij, ho sentito parlare di opera totale, questa cosa mi ha segnato per sempre, per me il massimo è utilizzare tutti i mezzi possibili, cercando di dare una drammaturgia, un giusto peso. Ogni singolo elemento ha un compito preciso, esattamente come in una orchestra. La fotografia indubbiamente arriva prima, sia come atto di sintesi che di fruizione, di conseguenza spesso è l’aggancio agli altri livelli di lettura soprattutto oggi sui social network.

Qual è secondo oggi il fine dell’arte secondo La Spada?
In questo scenario dove lo scarso appeal di religioni e politica, la velocità e saturazione tecnologica imperano, l’Arte oggi più che mai, è chiamata a guidare, ispirare i cambiamenti necessari per la sopravvivenza di noi stessi e del pianeta. Una nuova architettura sociale può nascere grazie al pensiero condiviso e l’arte è un driver fondamentale.

Perché, tra tutti gli elementi della natura, ha scelto di concentrarsi maggiormente sull’acqua?
L’Acqua per me è il tutto. Insieme all’aria è l’elemento della necessità in senso sia fisico che spirituale, il ritorno intrauterino, il tuffo mistico, l’elemento cangiante e duttile per eccellenza. Comprendendo l’acqua forse si comprende il segreto della vita, dell’eterno divenire.

Ci parli del progetto sociale We are drops.
We are drops nasce essenzialmente dopo aver realizzato che l’unica soluzione possibile per combattere l’inquinamento è creare una nuova consapevolezza nelle nuove generazioni e soprattutto nei bambini. I comportamenti possono cambiare instillando l’amore e la protezione nei confronti della natura e dando gli strumenti di comprensione dei problemi. I bambini sono molto più attenti di noi e collegati alla natura.

In riferimento al suo progetto, secondo lei l’arte deve avere anche un ruolo educativo, sensibilizzare le coscienze a tematiche importanti?
Assolutamente. Deve supplire ed accelerare i processi sociali. Uscire da certi ranghi elitari e incontrare il cuore delle persone. Deve essere un sismografo che vigila e restituisce il peso e il rigore di certi valori persi. I problemi sono quasi tutti di natura culturale, non possiamo risolverli adottando le stesse strategie che li hanno generati.

Nella fotografia conta di più la tecnica o l’esperienza?
Credo conti l’intenzione, il fuoco sacro dietro al desiderio di materializzare e visualizzare. Oggi conta il progetto, la tecnica diventa sicuramente una conseguenza dell’esperienza ed è una condizione imprescindibile, ma la vera profondità è data dalla ricerca in senso olistico, tantissime immagini figlie di esperienza o tecnica spesso non arrivano al fruitore finale.

Il lavoro che le ha dato maggiori soddisfazioni?
Ogni lavoro credo sia una parte importante del percorso. Spesso i lavori coincidono con gli incontri, e questo mi ha dato la possibilità di incontrare persone straordinarie. Dovendo fare una scelta, la risposta è legata sicuramente all’incontro con il maestro e compositore Ryuichi Sakamoto. Una figura per me importantissima, la mia vita sarebbe completamente diversa senza questo incontro. Avere avuto l’onore di collaborare con un maestro del genere è un riferimento costante anche nell’assenza. La profondità di visione e di intenti mi ha cambiato per sempre. Il mio lavoro sulla Natura è figlio di questo incontro.

Perché, come anche lei ha affermato, è importante tornare al “calore della manualità” in un’epoca dove l’arte digitale, insieme a quella concettuale, è sempre più preponderante?
Perché stiamo perdendo la parte umana, rispetto a quella più materiale e in questa corsa sfrenata alla tecnologia, all’intelligenza artificiale stiamo perdendo il grado termico del pensiero, per questo mi impongo sempre di utilizzare il digitale in maniera “calda”, mai fine a sè stessa.

Personalità che la ispirano particolarmente?
Di Sakamoto ho detto prima, poi tanti poeti, artisti, registi, mistici, Tarkowskij e Josef Beuys, su tutti. Credo che le biografie dei grandi uomini del passato possano dare degli spunti molto interessanti, decodificare le chiavi del loro modo di creare, immaginare come si comporterebbero oggi, andare in risonanza col loro pensiero per me va oltre la semplice ispirazione.

Kandinskij tramutava la sua pittura in eventi sonori, elaborando una teoria armonica del colore, si può dire che lei, avvalendosi ad esempio della musica di Sakamoto e di Fennesz, voglia scandagliare l’emozionalità e l’interiorità di un mondo assopito e dell’essere umano in relazione all’ambiente in cui vive?
Da più di dieci anni per me l’obiettivo primario è proprio riconnettermi e far comprendere la relazione uomo natura, le parole spesso non bastano e ci vogliono strade diverse. Il dardo emotivo della sinestesia suono immagine, probabilmente arriva più in profondità rispetto a un testo o a dei dati sulle problematiche ambientali, ho passato molti anni a cercare queste chiavi emotive. L’uomo contemporaneo ha una estrema necessità di recuperare la relazione con quello che è più di un luogo che ci ospita.

Prossimi impegni?
Sono tutti legati a tre parole che amo: Arte, Spiritualità, Sostenibilità e naturalmente all’elemento Acqua.

 

Giuseppe La Spada. Il calore della manualità nell’arte digitale

La natura in vitro: sette movimenti per raccontare la storia della Terra nell’opera multimediale di Frans Lanting

Sette movimenti per raccontare la storia dello sviluppo della Terra e della vita su di essa, dalle prime cellule fino agli esseri, al momento, più evoluti. Sette movimenti ispirati a musiche già composte, ma che, insieme, raggiungono una forza emotiva inaspettata, lasciando l’ascoltatore in balia degli elementi naturali e delle creature che popolano e che hanno popolato il mondo. Da Philip Glass non ci si poteva aspettare che questo, un concerto capace di far vibrare ogni molecola del corpo e così sentirsi parte di un cosmo totale e totalizzante. Life: A Journey Through Time, però, non è solo questo. L’opera, concepita come multimediale, non riesce ad esprimersi, se non attraverso la musica, tralasciando quella che in realtà sarebbe dovuta essere la principale protagonista: la fotografia di Frans Lanting.

Frans Lanting, olandese di nascita ma americano d’adozione, è l’incarnazione perfetta dello spirito che anima la rivista National Geographic: seguendo il motto inspiring the people to care about the planet, ha sempre cercato di produrre immagini in grado di smuovere coscienze e che potessero mostrare l’innata bellezza di una natura viva e selvaggia. Molte delle fotografie di Lanting sono entrate di diritto nella storia della fotografia naturalistica, alcune di esse si sono rivelate addirittura importanti per la ricerca scientifica (tra le altre, da ricordare le foto “impossibili” scattate all’Aye Aye, lemure notturno del Madagascar, fino ad allora creatura quasi mitologica), eppure può l’approccio di un fotogiornalista davvero mostrare la natura in tutti i suoi aspetti? Può la sua opera davvero incidere nei comportamenti di coloro che ne vengono a contatto?

La società contemporanea, sempre più immersa in un mare di immagini (dove l’attenzione di ogni persona è costretta a disperdersi tra milioni di input, impossibili da approfondire con ragionamenti e pensieri che vadano oltre il like, la faccina o la più complicata indifferenza) non permette un contatto emotivo vero e proprio con un fotogramma: per quanto di pregevole fattura o straordinariamente “potente”, lo schermo di un computer o di un telefono-non-telefono non può che rendere tutto semplicemente effimero, non lasciando tracce neanche nell’osservatore più attento e preparato. Il social network, divenuto ormai la nuova forma della rivista, lascia spazio solo ai sentimenti più istintivi, costringendo in qualche modo perfino rivista storiche come National Geographic a farsi creatori di contenuti “vendibili”, come video e foto che scatenano la lacrimuccia o il sorrisetto facili, che si perdono nel marasma del web.

Perfino video virali come quello girato da Paul Nicklen, altro fotografo storico di NG, viene presto dimenticato causa le caratteristiche intrinseche del mezzo utilizzato, internet. Come suscitare allora un interesse più profondo, in grado davvero di lasciare tracce? Frans Lanting pubblica nel 2006 Life, la sua opera più completa. 300 pagine di scatti frutto di una longeva carriera tra foreste di ogni tipo, passeggiate su vulcani, isole perdute e oceani d’acqua e ghiaccio. Il libro si presenta come una sorta di sunto illustrato dell’evoluzione della vita sul pianeta Terra, dalla sua formazione ad oggi. Suddiviso in diversi capitoli di diversa entità a seconda delle ere a cui si fa riferimento (i paesaggi inospitali che ricordano gli albori del pianeta occupano più spazio delle immagini in cui compare l’uomo), Life ha la pretesa di porsi come un’enciclopedia del naturale.

Enciclopedia è il termine più esatto: le fotografie non lasciano che un sentore di già visto, perfino laddove cerca di stupire con inquadrature o tecniche particolari, e, soprattutto, di una profonda freddezza nell’approccio. Gli animali, le piante, le montagne, i fiumi, i mari, tutto sembra obbedire alle regole della composizione, della bellezza canonica della fotografia che proprio per questo imprigiona, uccide il soggetto. Tutto è immortalato, tutto è cristallizzato. Non resta niente di veramente vivo, vitale. Lanting, vero e proprio cacciatore, non riesce a presentarci altro che icone lontane, impossibili da conoscere, esotismi scientifici. Perfino le immagini dei pattern naturali che compongono il nostro corpo messo a confronto con quelli presenti nella vegetazione, non restano che fotografie dall’approccio didascalico, che non mostrano altro da ciò che si vede. Il visibile è visibile, l’invisibile resta tale.

Nasce successivamente, forse proprio dalla necessità di voler focalizzare l’attenzione delle persone sul tema “pianeta”, l’idea di uno spettacolo in cui musica e fotografia possano raccontare il tutto. Ed ecco allora Life: A Journey Through Time, opera arrivata nel 2018 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sviluppata con la collaborazione di personaggi del calibro di Michael Riesman e Philip Glass. Nemmeno la musica di quest’ultimo, però, riesce a sostenere le immagini che, soprattutto a causa di un montaggio video a tratti insensato a tratti infantile, probabilmente composto con software gratuiti per smartphone, non riescono a suggerire e suggestionare, ma solo mostrare.
Il fotografo naturalista, cacciatore di “belle fotografie”, cerca di superare gli strati accumulatisi per anni per la sua professione, tentando di trasformare le immagini costate tanta fatica in qualcos’altro. Delude lo spettacolo che mette in risalto il chiudere in provetta campioni di natura selvaggia, attraverso una fotografia che si rifà al principio fondatore del medium ottocentesco: il positivismo.

L’uomo sente il bisogno di possedere e controllare tutto ciò che lo circonda, in un modo o nell’altro, e la fotografia gli permette di incorniciare una parte di quell’essenza (per non andare poi a discutere sulla foto turistica con il monumento, altra ramificazione della necessità di possedimento e prova dell’esistere). La visione allora è estremamente umanizzante, non lascia alcuna possibilità allo spettatore di avvicinarsi davvero al mondo animale o vegetale. Il tentativo di coinvolgere gli osservatori, soprattutto per la causa ambientalista (l’ultimo movimento è ispirato alla teoria di Gaia di James Lovelock), si perde in una messinscena dove lo slancio vitale è morto prima di nascere, dove la sistematicità del metodo scientifico ha sopraffatto sì la lacrimuccia facile da social, ma ha anche sotterrato ogni possibilità di avvicinamento emotivo abbastanza forte da poter far interessare alla causa, alle cose o addirittura alla narrazione stessa. Finito lo spettacolo, si spegne lo schermo, applausi per il PCME di Tonino Battista, si torna alla vita quotidiana, tra social e inquinamento, a sognar isole sperdute solo per vacanze ben organizzate.: è tutto ingabbiato in quei quattro bordi.

 

Dario Pellegrino

 

Le meraviglie del precinema: il cannocchiale anversano e il diorama nello scrigno, tra arte e letteratura

Un mondo sconosciuto agli albori del cinema e della stessa fotografia, ma non meno immaginifico e dinamico di quello inaugurato dai fratelli Lumière. Un universo composto di dettagli, un microcosmo fatto di particolari e finezze che stimolano la fantasia, l’ingegno, il sogno. Certi oggetti (e certi mondi) si scoprono, magari, per caso. Si fa scricchiolare il vecchio parquet di una casa-museo ad Anversa, come potrebbe essere quella del pittore fiammingo Rubens, e si vede spuntare nel mobilio – tra i ritratti, i baldacchini e gli utensìli… – un manufatto unico: si tratta di un grande scrigno di mogano, ancora lucido e intatto, alto e affusolato, con al centro una lente da cannocchiale. Il Seicento è un secolo pieno di cannocchiali, non solo per la fama che ad essi ha dato Galileo, ma perché la loro storia inizia proprio nella vicina Olanda. D’altra parte Emanuele Tesauro, il grande letterato barocco italiano, intitola nel 1654 la sua opera più conosciuta, quasi un “manifesto” del barocco come lo conosciamo, Il cannocchiale aristotelico, dove la metafora, l’acutezza e l’ingegno acquistano per la prima volta nella storia il loro grande prestigio. Il vero problema, tornando al nostro scrigno, è che esso è chiuso. La domanda è: a cosa può mai servire un cannocchiale per vedere all’interno di una scatola chiusa? L’ottica, se lo osserviamo bene, è inversamente proporzionale a quella di Galileo, dove il cannocchiale punta invece verso gli astri, aprendosi all’infinitezza di altri mondi e scoprendo, tra le altre cose, i crateri lunari: qui il cannocchiale – una semplice lente – punta a un interno buio e serrato. Un altro complesso ossimoro dell’età dei riccioli e della meraviglia? Può darsi, ma come in ogni buon ossimoro, dietro c’è una verità.

All’interrogativo “cosa c’è prima del cinema?” molti rispondono: la fotografia. Il cinema(tografo), lo si sa, sembra ormai avere una data di nascita acclarata: 1885. E persino il nome di un “inventore”, anzi due, nel cui luculento suono ormai si confondono le sillabe del cinema stesso, les frères Lumière. D’altra parte senza la fotografia o ciò che ci assomiglia (almeno l’incredibile scoperta del signor Daguerre – il dagherrotipo per l’appunto – che ha reso un servigio immenso alle arti, secondo il pittore francese Delaroche) quale cinema potrebbe mai esistere? Sarebbe un po’ come dire inventare la lampadina prima della scoperta della luce elettrica. In un certo immaginario comune sembra, insomma, che ci sia consequenzialità diretta tra la fotografia e quelle fotografie in movimento che possono diventare un treno a vapore che rischia di fuoriuscire dallo schermo e travolgere l’intero pubblico di una sala cinematografica, e prima di questo nulla. Se allora esistesse una preistoria del cinema – un precinema – con radici salde ben prima dell’Ottocento – nel Settecento, magari nel Seicento –, questa sarebbe storia della fotografia e non tanto del cinema. Niente di più falso.

A cosa puntava quel cannocchiale anversano? Se si guarda all’interno del cannocchiale si può osservare, tramite un gioco di specchi e l’aiuto di una fonte di luce esterna (posizionata dietro allo scrigno), un’immagine viva. Viva non tanto perché in movimento, ma perché tridimensionale. Il gioco funziona tramite la prospettiva e la profondità che da questa deriva. Un esempio che può farci capire meglio questo gioco è quello della profondità di un palcoscenico e della relativa scenografia data dalle quinte teatrali che, stratificandosi una dopo l’altra come una specie di fisarmonica, creano proprio la profondità e la distanza tra gli oggetti. Ma se vi è mai capitato da bambini di avere tra le mani quelli che gli inglesi chiamano pop-up books, si capisce ancora di più cosa si intende. Conosciamo questi “ambienti” con il nome di diorami. Ne esistono tanti e di ogni sorta. Generalmente in carta dipinta a mano o stampata, si possono trovare in miniatura nei negozi di souvenirs, pieghevoli e facilmente montabili e smontabili; si trovano all’interno di teche di vetro, osservabili nella loro varietà e profondità semplicemente posizionando il viso al centro della teca; si trovano all’interno di vecchi scrigni, più pregiati e costosi, proprio come in quello di Anversa, oggi oggetti di un mondo incantato e scomparso patrimonio di musei e di aste d’arte. Raffigurano paesaggi, case, battaglie. Moltissimi sono diorami teatrali, cioè riproducono una scena teatrale in miniatura. Tra questi ultimi ci sono i cosiddetti teatri di carta: l’Ottocento ne è pieno ma, conoscendo l’amore che ha l’inventiva settecentesca e secentesca nel campo dei giocattoli, si può pensare che la sua origine sia più datata. Balocchi, probabilmente per bambini benestanti che li amavano particolarmente (un aneddoto racconta che persino il Re Sole, da bambino, si fece costruire dal suo tutore Camus un cocchio semovente), miniature in scala dei grandi teatri, con tanto di vivaci e ricchi dettagli dipinti su carta e riferimenti a grandi compositori quali Mozart e Rossini o a scrittori come Shakespeare e Cervantes, da osservare a lungo o semplicemente da tenere in casa come oggetti decorativi, talvolta, come nel caso del diorama nello scrigno, particolarmente preziosi e pregiati nella fattura.

La letteratura in lingua italiana a riguardo è assai scarsa. Sappiamo poco su questi oggetti. Un nome però, dietro agli artisti che erano gli architetti di questo mondo onirico e infantile, lo abbiamo, quello del tedesco Martin Engelbrecht, che visse a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Engelbrecht era un incisore, figlio di un venditore di strumenti per pittori. Si occupava essenzialmente di arte ornamentale e, operando inizialmente ad Augusta, in Baviera, col fratello Christian, aveva particolare predilezione proprio per le vedute e i paesaggi, con un gusto spesso onirico e allegorico. Fece centinaia di opere che oggi troviamo davvero sparse dappertutto (in Italia ce ne sono tracce, ad esempio, a Firenze), soprattutto in Germania e in Austria. Non è difficile incappare in un suo lavoro nelle aste o, come nel caso di Anversa, nelle case private dell’epoca.

Il diorama nello scrigno non è l’unico esempio di questa tendenza a miniaturizzare paesaggi o ambienti altrimenti facilmente dimenticabili in assenza di una fotografia che li ricordi. Oltre a quelle particolari immagini dove, tramite un gioco esterno di luci, si poteva osservare la veduta di un paesaggio passare letteralmente dal giorno alla notte (con tanto di finestre delle case illuminate), un caso lampante è quello del cosiddetto Mondo nuovo, altro eccezionale strumento ottico rivolto all’intrattenimento. Data la grandezza rispetto agli oggetti casalinghi già incontrati e data la portata della novità, sappiamo con certezza che il pubblico fu talmente entusiasta di posare gli occhi all’interno di questo strumento, che si pagava chi ne possedeva uno per utilizzarlo, magari anche all’aria aperta. Ce lo attesta Goldoni nella commedia metateatrale I rusteghi, del 1760, dove Lunardo indica proprio tra le sue abitudini giovanili, condivise col padre, proprio quella di pagare per vedere dentro al Mondo nuovo.

Enormi “bauli” di legno per viaggiatori fantasiosi, con all’interno la veduta di un paesaggio illuminata, come sempre, da una fonte di luce esterna. Nell’Europa settecentesca non era difficile trovare chi, spostandosi di paese in paese, si portava letteralmente a tracolla questi grandi cassoni, perché il pubblico curioso potesse osservare quale veduta mostrassero, se di questa o quella città che, chissà, magari avevano solo sentito nominare senza averla mai vista. Un bello spettacolo per chi non ha mai visto Parigi e non può averne una fotografia! Anche le vedute del Mondo nuovo avevano la possibilità “dinamica” di poter essere viste, tramite l’ausilio di luci e fili, con effetto giorno-notte, e persino con l’aggiunta di animazioni marionettistiche. L’atmosfera ricorda ante litteram quello che sarà il kinetoscopio di Thomas Edison del 1888, l’antenato del proiettore cinematografico. Un utilizzo topico del Mondo nuovo fu quello propagandistico che ne fecero coloro che assistettero alla Rivoluzione francese, portando in scena eventi storici reali che documentassero particolari accadimenti, come la stessa decapitazione di Maria Antonietta. Così, d’altra parte, si andava “al cinema” a cavallo tra il secolo dei Lumi e quello dei fratelli Lumière.
Ma se vogliamo avvicinarci alla meta finale, un Mondo nuovo “in negativo” è nient’altro che l’oggetto più celebre di tutto il precinema: la lanterna magica. Perché “in negativo”? Perché funziona esattamente alla maniera inversa del Mondo nuovo: dagli interni inaugurati coi diorami si passa all’esterno, proiettando immagini di solito dipinte su vetro (come delle diapositive) su una parete o su uno schermo. È citato nel Wherter goethiano come termine di una metafora, quella della lanterna magica priva di luce, che assomiglia a un mondo senza amore: figura incantevole che paragona il buio di un mondo senza affetto a quello popolato da immagini ora magicamente apparse grazie a una fiamma che la proietti su uno schermo.

Ci sono lanterne magiche nel Seicento, tramite, forse, un influsso della Cina (dove i giochi di luce sono antichi, celebri e assai suggestivi) e degli arabi, e continuano ad essercene nel Settecento e nell’Ottocento. Le immagini proiettate sono le più varie: immagini di fantasia, storie, vicende storiche, immagini horror e spaventose, immagini pornografiche, immagini didattiche, i draghi come le tigri, gli scheletri come le figure umane, la presa della Bastiglia e le fiabe, i demoni e le fiamme dell’Inferno… La cosa stupefacente è che si proiettano anche le prime immagini in movimento, e Proust, nella Ricerca, parla proprio di queste lanterne magiche, così come ne possiamo osservare una nel bellissimo Fanny e Alexander di Bergman, nella scena in cui i bambini, durante la festa, si ritirano in camera per osservare con la lanterna magica lo spettacolo raccapricciante di un fantasma che fa letteralmente saltare la sorellina dalla paura. Laura Minici Zotti ha raccolto per il Museo del precinema di Padova dozzine di lastre e lanterne magiche meravigliose, alcune a più lenti, oltre che a esemplari di diorama, Mondo nuovo e altri incantevoli oggetti del precinema, quali il taumatropio, il fenachitoscopio, lo stereoscopio, lo zootropio, il prassinoscopio.
Un mondo, quello del precinema, che fa ragionare sulla filosofia che sta dietro al dettaglio, al sogno di chi non guarda le stelle kantiane o gli infiniti mondi di Bruno né di chi prova già le vertigini dei romantici, ma di chi applica alla lettera quella frase pronunciata da Amleto che afferma, nell’atto II della tragedia shakespeariana, di poter vivere confinato nel guscio di una noce e sentirsi monarca di uno spazio senza fine. Osservare all’interno di una scatola i dettagli minuscoli e minuziosi di un incisore, sentire la propria testa più grande del paesaggio che si ha di fronte, ed eppure percepirsi piccolissimi.

Una dialettica tutta intrisa di Barocco, se il Barocco è anche quello dei numeri infinitesimali e delle monadi di Leibniz, veri gusci di noce profondissimi e animatissimi al loro interno, da cui osservare, grazie a un gioco di specchi e di luci e di ombre, tutto il mondo che se ne sta di fuori, nient’altro che la proiezione di una lanterna magica. È strano come un meccanismo così statico e, per questo, anticinematografico come quello dei diorami di Engelbrecht – immagini immobili e chiuse – possa essere capace di un tale dinamismo, che sa già tutto di cinema. In favore di chi viaggia con i piedi per terra, di chi vede una polis in un formicaio e un regno in una noce. La grandezza del piccolo, insomma, la vittoria di Davide contro Golia. Nei dettagli, forse, c’è già tutto il resto?

 

Alessandro Montefameglio-L’intellettuale dissidente

Antonia Pozzi, voce “leggera” del Novecento che ha colto l’essenza della vita e del mondo

Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e…Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia Pozzi cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo.

Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato di Cesare Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia Pozzi chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini.

Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia Pozzi: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.

Nel 1930 Antonia Pozzi entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann.

Antonia Pozzi tra poesia e fotografia

Intanto Antonia Pozzi è divenuta “maestra” in fotografia, che con la poesia rappresenta per Antonia un’altra voce della verità: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.

Come ha giustamente affermato lo studioso Marco della Torre«la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo».Così scriveva qualche anno fa Dino Formaggio, che frequentò intensamente Antonia Pozzi negli anni universitari. Un commento audace, ma ormai sempre più condiviso. Del resto, già molti anni prima, Eugenio Montale annotava nell’edizione mondadoriana di Parole: «Tecnicamente la sua lirica deriva dal verslibrisme del principio del secolo e da certe esperienze di Ungaretti: voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina […]. Un’aerea uniformità era il suo limite più evidente: la purezza del suono e la nettezza dell’immagine il suo dono nativo».

Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.

18 settembre 1937

 

Fonte:

.Biografia

Napoli: ‘le stazioni d’arte’ di Francesco Ferone

Napoli, tra le città più belle e probabilmente tra le più afflitte da stupidi stereotipi al mondo, è l’oggetto della arte del talentuoso fotografo Francesco Ferone, che con il suo lavoro sulle stazioni d’arte partenopee, mette in evidenza l’interazione che si crea tra i viaggiatori delle metropolitane e le rappresentazioni artistiche al loro interno, mostrando come questo rapporto contribuisca ad aggiungere valore alle opere stesse, creando qualcosa di unico.

Il giovane Francesco Ferone si rivolge principalmente a quanti capita quotidianamente di usare mezzi di trasporto quali le metropolitane che in una città caotica come Napoli, si rivelano spesso la scelta migliore; e ci invita a scrutare, abbandonando la fretta l’immenso patrimonio artistico che è nascosto in quei luoghi che tutti i giorni percorriamo. Ferone ci offre una città dinamica, che è sempre altro rispetto agli insopportabili luoghi comuni, una metropoli i cui abitanti, come diceva Pasolini, “sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso –in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte –di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. È un rifiuto sorto dal cuore della collettività contro cui non c’è niente da fare”. L’artista napoletano inoltre, non ci risparmia l’aspetto umano, interiore, invitandoci a guadare dentro noi stessi, a metterci a nudo, a scattare una foto della nostra anima, per poi analizzarla.

Di seguito le fotografie rappresentative del progetto di Francesco Ferone:

“Doppio”

 

In questo scatto assistiamo alla ripetizione del pattern scelto dall’artista che va a richiamare lo sdoppiamento delle figure che scendendo le scale ed i loro riflessi creano appunto un ‘doppio’.

“Doppio 2”

Sempre nella stazione Università come la prima Fotografia, il tema e il concetto sono gli stessi, soltanto la doppia visione è qui legata alla singola figura in movimento che riflette sulla parete, stile che si avvicina alla visione ‘futurista’ della metro.

“Una separazione”

Quest’opera è presente nella stazione Toledo di Napoli e si intitola : Il teatro è vita. La vita è teatro (nome abbreviato). Si tratta di installazioni fotografiche scelte dall’artista Shirin Neshat, mentre gli scatti sono di Luciano Romano, le tematiche spaziano dal sentimento della perdita  e la separazione e la finzione tra teatro e vita. L’uomo ritratto stabilisce un rapporto di ‘separazione’ con la donna ritratta, dove la perdita materiale della propria testa, la parte del corpo deputata ai sentimenti, nella quale insiti, contrastano l’irrazionalità e la razionalità, simboleggia proprio questo. Il volto della donna avvolto dalla disperazione,crea un’ingombrante presenza all’interno dell’immagine diventando soggetto della Foto e in un certo senso volto dell’uomo. Si mescola in questo scenario il rapporto tra realtà e fantasia: le persone ritratte sui fondali sono attori,un po’ come l’uomo di passaggio che in un giorno della sua vita ha deciso di recitare il suo atto nel teatro di questa città.

Una separazione è il titolo dell’opera non soltanto per il contenuto dell’immagine ma è anche un omaggio alla cultura Iraniana, nazione d’origine dell’artista attraverso l’ammiccamento al film ‘Una separazione’ di Asghar Farhadi, che per altro tratta tematiche correlate.

“Bruciate dal fuoco”

In questo scatto la statua in basso è un omaggio alle donne della resistenza, sotto (anche se non si vede) è presente la frase palindroma ‘In girum imus nocte et consumimur igni’; è un’omaggio all’instancabile e ancestrale figura della donna e alla sua centralità nella società, intesta come madre, archetipo di ogni epoca, che le rende per l’appunto ‘bruciate’ dal fuoco della passione e della vita.

“Passaggio”

Il tema di questa fotografia (stazione Dante) è la metafora del Viaggio, inteso come quello fisico, terreno che si va ad intrecciare con quello del pendolare, i colori forti del bambino contrastano con quelli dell’opera di Kounellis, invecchiati; la volatilità della vita: Nascita e morte, giovinezza e vecchiaia.

“Sguardi 2”

Quest’opera è presente nella stazione di Rione Alto, ed ha come tematica la stessa della prima serie (Sguardi 1): l’invito a guardarsi dentro, anche attraverso gli altri, soltanto qua l’uomo è più attento a quello che gli succede intorno, “Conosci te stesso”.

“Sequenza”

Questa istallazione è situazione all’interno della stazione Vanvitelli, rappresenta la serie di Fibonacci, la successione numerica per cui ogni cifra è la somma delle due precedenti è per l’artista la sintesi dei processi di crescita organica del mondo e le figure in movimento richiamano la successione numerica, che insieme  determinano una crescita, in una visione comunitaria.

 

 

 

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