Tre città unite da un’unica vocazione portuale ed un forte rapporto col mare per analizzare il nesso tra sviluppo urbanistico, cartografia e pittura di veduta, sia come testimonianza, sia come interpretazione delle trasformazioni urbane e paesaggistiche. Con questo obiettivo sia scientifico e di ricerca che di divulgazione culturale il Dipartimento di Scienze umanistiche e la Scuola di specializzazione in beni storico artistici dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli hanno promosso il ciclo di incontri su “Città di mare e grandi porti del Mediterraneo nella pittura di veduta tra Sei e Settecento: Genova, Napoli, Messina“.
Approfondimenti ora disponibili on demand sul canale You Tube dell’Ateneo napoletano (www.youtube.com/unisobna), che ha inteso con questa iniziativa continuare nel suo percorso di valorizzazione della Cappella Pignatelli, oggi divenuta, proprio grazie al lavoro di restauro e riapertura del Suor Orsola, “Porta del Centro Antico di Napoli”, in virtù della sua posizione strategica al Largo Corpo di Napoli, allineata lungo il decumano inferiore della città greco-romana, dove si incrociano piazzetta Nilo e San Biagio dei Librai. Una funzione di accoglienza e di narrazione della città che la Cappella di Santa Maria dei Pignatelli, uno degli scrigni più rari della Napoli del Rinascimento, oggi svolge con l’ausilio delle moderne tecnologie avanzate di comunicazione multimediale che al Suor Orsola sono alla base del Corso di laurea magistrale in Digital humanities e delle attività di ricerca del dottorato inHumanities and Technologies.
“Napoli – racconta Pierluigi Leone de Castris, direttore della Scuola di specializzazione in beni storico-artistici dell’Università Suor Orsola Benincasa e coordinatore scientifico dell’iniziativa – è un caso davvero esemplare di questo nostro percorso di analisi della pittura di veduta seicentesca e settecentesca nelle città di mare italiane. Perché Napoli, città di mare tra le più raffigurate da incisori e cartografi tra il Cinquecento e l’Ottocento, non annovera grandi vedute dipinte, con l’eccezione straordinaria della cosiddetta “Tavola Strozzi”, prima degli inizi del Seicento”. Nella prima metà del XVII secolo, tuttavia, si assiste a un grande sviluppo e a una grande fortuna dei dipinti raffiguranti l’intera città dal mare, o anche parti di essa e del golfo, da Posillipo ai Campi Flegrei, evidentemente graditi ai collezionisti del tempo e richiesti per decorare i loro palazzi e le loro raccolte. Protagonisti di questa produzione e di questo “genere” furono soprattutto pittori forestieri, fiamminghi o comunque nordici, giunti spesso in città da Roma, qualche volta in transito ma talora qui insediatisi anche per tutta la vita. La conferenza del Prof. Leone de Castris mette a fuoco in particolare la storia intricata di due di questi artisti, entrambi lorenesi e amici tra loro, François de Nomé e Didier Barra.
L’iconografia dello Stretto di Messina e le vedute di Genova
La conferenza su “L’immagine di Messina in età moderna” propone una accurata selezione di dipinti e disegni che raffigurano Messina e il suo Stretto spaziando in un lungo arco temporale che va dal Quattrocento al Settecento (da Antonello da Messina a Filippo Juvarra), nel tentativo di rintracciare un filo rosso che lega fra loro le immagini. “Sin dall’inizio la raffigurazione della città di Messina – spiega Gioacchino Barbera, già direttore del Museo Regionale di Messina – appare correlata con quella dello Stretto, favorita dalla stupefacente bellezza del sito, caratterizzata dalla inconfondibile forma a falce del suo porto e, nelle vedute da nord-ovest, dalla sagoma maestosa e fumante dell’Etna che spunta in secondo piano. All’immagine di Messina si è quindi via via sovrapposta inevitabilmente l’immagine dello Stretto. E a seconda dei molteplici punti di vista prescelti, lo Stretto finisce per essere, di volta in volta, il fondale scenografico o il proscenio delle numerose vedute della città, mentre la costa calabra, e in particolare Reggio Calabria, viene relegata sempre di più a un ruolo marginale“.
La conferenza di Piero Boccardo, già direttore dei Musei di Strada Nuova di Genova racconta, invece, come le vedute di Genova già dal Medioevo abbiano avuto quale privilegiato punto di vista il mare ed il golfo sul quale si affaccia la città ed abbiano avuto, non solo per questo, nel corso dei secoli alcune analogie con le vedute di Napoli. “Nel Seicento – sottolinea Boccardo – sono principalmente dei precisi fatti storici, a distanza di poco meno di cinquant’anni, prima la costruzione delle Mura nuove (1626-1639) e poi il bombardamento francese (maggio 1684), a dare un notevole impulso alle vedute di Genova, e non solo in forme incise o dipinte, ma perfino nel bronzo. E proprio il secondo episodio sarà l’occasione per la prima veduta invertita, ovvero da terra verso mare, che diverrà poi ben più consueta nel corso del XIX secolo“.
Pasquale Langella, napoletano doc, nasce a Santa Chiara nel 1973, qui frequenta l’Istituto tecnico commerciale Armando Diaz, dove si diploma. All’età di sedici anni viene rapito dal mondo dei libri: quell’estate il giovane Pasquale lavora come “ragazzo del bar”, si reca in una libreria per consegnare il caffè ordinato, raccoglie tutto il suo coraggio e chiede al libraio di farsi regalare un libro. Galeotto fu Cristo si fermò ad Eboli!
Da qui inizia la sua esperienza di lettore e si fa viva la passione per la lettura. Il mondo carta lo seduce al tal punto che Langella inizia a collaborare con la stessa libreria, dapprima portando alle poste i vari pacchetti e poi iniziando a compilare delle schede per catalogare i libri.
A dargli la possibilità di accrescere ulteriormente le sue competenze è una tipografia che si trova proprio difronte alla libreria dove ha l’occasione di sviluppare conoscenze anche nella grafica e nell’impaginazione di un testo. Soltanto dopo 25 anni, riesce a trasformare la sua passione in lavoro. Il 24 settembre 2014 rileva un’attività a Port’Alba, aprendo Langella Libreria.
Proprio nella celebre via dei libri, da sempre, un luogo quasi magico, dove il tempo si ferma. Ad aleggiare tra le bancarelle il dolce profumo della carta che inebria gli appassionati lettori e gli habitué senza mai dimenticarsi di solleticare la curiosità degli ignari passanti.
Librario indipendente ma anche editore: per necessità virtù, il 4 Gennaio 2020, a ridosso proprio del lockdown, nasce a Napoli, Langella Edizioni, con le sue originali collane che traggono il nome dai titoli degli album di Pino Daniele, da Terra mia, A passi d’autore fino a Carte e Cartuscelle.
Il suo motto è “Le piccole librerie e i negozi vanno aiutate quando sono aperte e non commemorate quando chiudono” …Lei nel 2014 ha rilevato un’attività e ha aperto la sua libreria a Port’Alba a Napoli, la celebre via dei libri, dove però oggi purtroppo molte librerie hanno chiuso. Come vanno aiutate secondo lei?
Io penso che per aiutare le “piccole” attività non si debba fare solo chiacchiere o per esempio organizzare inutili flash mob dopo la loro chiusura, non servono a nulla, per aiutarle bisogna frequentarle, non farsi prendere dalla “comodità della velocità” offerta dalle grandi società online.
Oggi anche molti piccoli negozi si sono adeguati e spediscono anche velocemente, quindi anche se non potete raggiungerli, grazie ai corrieri vi possono raggiungere facilmente, bisogna quindi non farsi prendere dall’abitudine o farsi guidare dai vari “algoritmi”.
Ormai quasi nessuno entra in una libreria per girare tra gli scaffali e aspirare quel profumo dicarta e magia che inspiegabilmente a nessuno era ancora venuto in mente di imbottigliare scriveva Carlos Luis Zafòn. Nell’era digitale spopolano gli ebook. Oppure si acquistano libri scorrendo con il dito tra i cataloghi stando comodamente seduti sul divano…Che strategia deve adottare il librario per accattivare il lettore e condurlo all’interno del proprio negozio?
Io penso che molti lettori siano ancora attratti dal fascino della libreria, di sfogliare il libro, odorarlo e non penso ci siano strategie da seguire perché chi ama il libro sa che in libreria troverà disponibilità di un libraio che può anche consigliarvi indipendentemente dalle “mode” del momento. Gli ebook sono un’alternativa al cartaceo e a volte, specialmente per chi ha difficolta visive nel leggere, sono molto utili ma la “carta è la carta” è tutta un’altra cosa.
Lei è librario ma anche editore. Perché e quando ha deciso di aprire una Casa editrice? Qual è la mission del gruppo editoriale? Ha scritto anche un libro. Personalmente che difficoltà incontra o ha incontrato come scrittore e quali come libraio ed editore?
Ho deciso di aprire la mia piccola casa editrice tre anni fa in piena pandemia, un po’ per necessità in quanto avevo scritto lo Stupidario Librario, una raccolta di tutte le richieste assurde che ricevo in libreria, con un’altra casa editrice napoletana, fu un piccolo successo editoriale. Avevo pronto il secondo volume “Casomaicipenso” stavolta però senza la disponibilità della casa editrice, quindi, avendo un po’ di esperienza di grafica editoriale ho deciso di stamparmelo da solo e di creare di conseguenza anche il mio marchio editoriale. Oggi è una piccola realtà editoriale sempre condizionata dal mio essere libraio, in quanto cerco di far riscoprire la mia amata città attraverso vecchi testi ormai esauriti oppure di scoprire testi di viaggiatori o scrittori stranieri, come per esempio H.C. Andersen o A.C. Leffler che sono venuti nella mia città e mai tradotti in italiano.
Editoria e cultura sono un chiasmo imprescindibile… Cosa pensa del mondo dell’editoria odierna? Cosa non deve mancare ad un editore oggi?
Il mondo dell’editoria moderna è ampio e variegato, essendo l’ultimo arrivato non penso di poter dare giudizi sul mondo editoriale, penso che ognuno fa le proprie scelte e si pone i propri obiettivi, il mio è di non stampare tanto per farlo ma cercare di scegliere i testi e di editarli non pensando alla quantità ma alla qualità e far in modo che un giorno possano diventare rarità bibliografiche.
Tra le collane del gruppo editoriale ne spicca una particolarmente suggestiva “Carte e Cartuscelle” che contiene dei libricini, stampati su carta d’Amalfi, rilegati a filo, conservati i un elegante cofanetto. Un prodotto rigorosamente artigianale ma soprattutto made in Napoli, infatti sia la tipografia che la legatoria si trovano nella città partenopea. Si può parlare, in questo senso, di “Editoria a chilometro zero”? Quanto è significativo che realtà locali diverse si intreccino per creare un prodotto comune?
Si è una delle collane a cui tengo di più sono in poche copie numerate e firmate dagli autori, quando è possibile, nata tra via Port’Alba e via San Sebastiano. Una mattina ero al bar con il mio amico tipografo Rosario Mirate e parlando mi disse di essere in possesso di alcuni fogli di una carta pregiata non più in produzione, da qui è partita l’idea di creare qualcosa di artigianale e in poche copie, di conseguenza, abbiamo coinvolto il legatore della zona e l’artigiano per la creazione dei cofanetti e a oggi siamo a 11 titoli prodotti. Coinvolgere le piccole realtà e fare gruppo è importante perché sono convinto che da soli non si va da nessuna parte.
Pino Daniele è il suo mito. Nella sua libreria c’è un angolo celebrativo dedicato alla città di Napoli…Schizzi colorati che raffigurano San Gennaro, il Vesuvio e anche omaggi ai neo Campioni d’Italia. Qual è il suo rapporto con questa città?
Pino è il mio mito oggi e da bambino, sono nato e vivo ancora nel suo stesso quartiere, non sono mai riuscito a incontrarlo ma ho ricordi bellissimi della sua mamma. Quando facevo il garzone di bottega in una salumeria e andavo a casa sua lei conosceva la mia passione e cercava di avvisarmi se Pino quella notte sarebbe venuto a trovarla, e da questo avviso sono partite tante nottate fuori al balcone di un caro amico che abitava di fronte ma nulla mai riuscito a incontrarlo. Oggi l’unico modo che ho per dirgli grazie per le emozioni e per la sua musica è dedicandogli le mie collane editoriali. Sono molto legato alla mia città, cerco di valorizzarla e difenderla sempre, ci vivo da sempre e la vivo nel quotidiano, nonostante le sue difficoltà non è seconda a nessuno per la sua bellezza e per l’umanità dei suoi abitanti quelli veri che la amano e la rispettano come me.
Con Langella Editrice ha pubblicato ‘O cunto d’ ‘a gavina e d’ ‘o gatto ca ’a mparaie a vvulà, la versione partenopea della celebre Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Sepulveda. Perché ha deciso lanciarsi in questa scommessa?
Il mio modo di scegliere i libri da editare è molto condizionato dal fatto di essere prima libraio e poi editore, nella mia libreria uno dei libri più venduti è il Piccolo Principe in napoletano e pensando un’alternativa valida da offrire ai miei clienti il primo titolo che mi è venuto in mente era questo di Sepulveda. Da qui è partito tutto, non è stato facile in quanto l’Autore era morto da poco e gli addetti ai lavori mi prevedevano un “No” da parte degli Eredi. Ma la testa è dura e abbiamo contattato lo stesso l’Agenzia che possiede i diritti degli Eredi dell’Autore, ci siamo presentati per quello che siamo “Una piccola realtà che cerca di fare libri di qualità” e dopo un po’ l’Ok e grazie all’aiuto di Claudio Pennino (traduttore) e Federica Ferri (illustratrice) penso di non aver deluso le aspettative di nessuno e siamo molto contenti del prodotto finale.
Langella Edizioni ha preso parte sia a Napoli Città Libro e a breve anche al Salone Internazionale del libro di Torino. Quanto è importante, per una piccola realtà editoriale, partecipare a questi eventi?
Partecipare a questi eventi è fondamentale, abbiamo partecipato anche a “Ricomincio dai Libri” che si è tenuto presso la Galleria Principe di Napoli e nonostante si sia svolta a 100 metri di distanza dalla mia Port’Alba abbiamo conosciuto e ci siamo fatti conoscere da lettori nuovi, bisogna uscire dal proprio guscio e queste manifestazioni sono il luogo adatto. Ovviamente partecipare a queste manifestazioni non è facile, sia dal punto di vista logistico che economico, ma sono “sacrifici” che aiutano a crescere e creano contatti e collaborazioni importanti. Infatti, dal 18 maggio saremo al Salone di Torino, quest’anno insieme a Colonnese editore, due realtà su due strade comunicanti e con la stessa idea di “Fare gruppo”. Insieme cercheremo di far conoscere le nostre produzioni editoriali e di portare la nostra napoletanità al Salone anche con uno stand artistico disegnato da un giovane artista della nostra città Salvatore Couturier e grazie alle sapienti mani delle Artigiane del filo della Bottega di Gegè ma è una sorpresa che vi sveleremo presto anche sulle nostre pagine.
“Nella travolgente parabola intellettuale, artistica e umana di Pier Paolo Pasolini l’amore appassionato per l’Italia, la sua storia, la sua unicità rappresenta una stella polare costante”. Così lo storico Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa, presenta la giornata di studi che l’Ateneo napoletano ha scelto di dedicare giovedì 20 Ottobre a partire dalle 10 a Pier Paolo Pasolini (1922-1975) nell’anno del centenario della sua nascita.
Per celebrare lo straordinario eclettismo culturale di uno dei più apprezzati intellettuali del Novecento l’Università Suor Orsola Benincasa, con il patrocino del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha pensato ad una giornata di studi multidisciplinare che proverà a ricostruire il sentimento identitario nazionale di Pasolini dalle diverse angolazioni in cui si è dispiegata la sua enorme produzione artistica e culturale.
“In ogni aspetto naturale, sociale, artistico, letterario dell’Italia – evidenzia Capozzi – Pasolini ha cercato avidamente l’eredità di quella cultura contadina e popolare che voleva salvare dalla distruzione ad opera della società di massa e ritrovava nei borghi diroccati così come nelle borgate e periferie delle metropoli. Ecco che allora la giornata di studi organizzata dall’Università Suor Orsola in occasione del centenario della sua nascita, riprendendo la storica citazione (“questa è l’Italia e non è questa l’Italia”) della sua poesia “L’umile Italia”, punta ad evidenziare alcuni nuclei fondamentali in cui quella passione prende forma nell’opera pasoliniana, tra poesia, narrativa, cinema, teatro, scritti critici e politici”.
Giovedì 20 ottobre alle ore 10 nella Biblioteca Pagliara dell’Università Suor Orsola Benincasa (ed in diretta streaming su www.facebook.com/unisob) per discutere di “Storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini” si confronteranno, quindi, studiosi di varie discipline con relazioni che spazieranno dalla storia (L’abisso tra corpo e storia. Croce, Gramsci e i conti con l’ideologia) alla letteratura (L’anti-grand tour pasoliniano), dalla storia dell’arte (Roberto Longhi e Pasolini: Masaccio, i manieristi, Caravaggio e un’idea dell’Italia) al cinema (L’Italia ‘profonda’ al cinema: da Accattone a La ricotta).
Al tavolo dei relatori, coordinato da Alfonso Amendola, docente di Sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno, dopo l’introduzione del Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro, si alterneranno dalle 10 alle 17 lo storico dell’arte Stefano Causa, lo storico del cinema Augusto Sainati, gli italianisti Guido Cappelli, Nunzio Ruggiero, Carlo Vecce e Paola Villani e i giornalisti Alessandro Gnocchi ed Antonio Tricomi. Programma completo degli interventi (www.unisob.na.it/eventi).
Alle 17.30 la giornata dedicata a Pasolini dall’Università Suor Orsola Benincasa proseguirà con la proiezione di uno dei suoi film più noti, Il Decameron, nel Salotto culturale “Le Zifere”, fondato dallo storico dell’arte, Roberto Nicolucci, all’interno di uno dei palazzo storici più prestigiosi della città di Napoli: il Palazzo De Sangro di Vietri in piazzetta Nilo.
Lo scrittore e sceneggiatore napoletano Raffaele la Capria se n’è andato il 27 giugno 2022 all’età di 99 anni. Con lui se ne va un’idea della città di Napoli come metafora della vita, tra vizi e virtù. Lo scrittore legato all’attrice Ilaria Occhini(nipote abiatica per parte materna di Giovanni Papini, scomparsa nel 2019) per 58 anni, che ha raccontato “l’armonia perduta” per spiegare il suo rapporto con la città che “ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”, descritto magnificamente nel suo romanzo più celebre, “Ferito a morte”, che gli valse il Premio Strega nel 1961, considerava quello dello scrittore un atteggiamento cognitivo-emotivo, un lavoro conoscitivo del mondo.
Un giorno di impazienza, il Realismo di La Capria
Già con il primo romanzo Un giorno di impazienza, la Capria si contraddistingue per la sua adesione al Realismo in modo distaccato. Infatti il ragazzo protagonista del romanzo comprende di avere un appuntamento con la realtà che si trova oltre l’adolescenza e nel raccontare la storia, l’autore napoletano lo dice esplicitamente ai lettori identificando la realtà in Mira, la quale guizza da tutti le parti senza farsi prendere.
La Capria lascia rivelare le cose attraverso il corpo, perché il suo protagonista è ansioso di trovare punti fermi e di conoscere se stesso “pura presenza in vuota capienza”, descrivendo l’accesso alla maturità in modo allusivo. La giovinezza è sospesa su un trampolino di possibilità che la protendono nel mondo ma è tutta raccolta in se stessa, mai messa alla prova del salto mortale.
In Amore e Psiche ad un certo punto lo scrittore fa coincidere voce narrante e la mente narrante combaciano, si sovrappongono, perché non è detto che voce narrante e mente combacino e di certo un romanzo è un gesto con il quale si può esprimere la cognizione dell’ignoranza rispetto al destino. In tal senso Amore e Psiche è il romanzo più aperto di La Capria, scritto in presa diretta.
Ferito a morte e il rapporto con Napoli
La vicenda narrata in “Ferito a morte”, elegante romanzo dalla non facile lettura, che parla del declino morale e fisico di Napoli, e di un’epoca, si svolge nell’arco di circa undici anni, dall’estate del 1943, quando, durante un bombardamento, il protagonista Massimo De Luca incontra Carla Boursier, fino al giorno della sua partenza per Roma, all’inizio dell’estate del 1954. Tra questi due momenti il racconto procede per frammenti e flash, ognuno presente e ricordato, ognuno riferito a un anno diverso, anche se tutti sembrano racchiusi, come per incanto, nello spazio di un solo mattino: la pesca subacquea, la noia al Circolo Nautico, il pranzo a casa De Luca… Negli ultimi tre capitoli vi è poi come una sintesi di tutti i successivi viaggi di Massimo a Napoli, disincantati ritorni nella città che «ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme»; nella città che si identifica con l’irraggiungibile Carla, con il mare, con i miti della giovinezza.
Se, come ha scritto E.M. Forster, «il banco finale di prova di un romanzo sarà l’affetto che per esso provano i lettori», quella prova “Ferito a morte” l’ha brillantemente superata: libro definito dal suo stesso autore «non facile», cult per molti critici e scrittori, è stato ed è anche un libro popolare, amato e letto, con grande adesione sentimentale, da lettori che poco sapevano di questioni letterarie, ma vi ritrovavano la loro stessa nostalgia per un paradiso perduto e per una «giornata perfetta». Un libro, insomma, di iniziazione, di rivelazione e di scoperta dal valore universale.
Raffaele la Capria, insieme a Pasolini, Morante, Svevo, Pavese, fa parte di quella geografia letteraria segnata dal bisogno di autodenigrarsi, farsi piccoli, di contrabbandare la propria maturità che si acquisisce con la vita e la scrittura come dimostra anche il romanzo False partenze.
La formazione di La Capria tra istinto, consapevolezza e predilezione per l’indefinito
La storia di la Capria è quella di un lungo apprendistato nel corteggiamento della realtà mediante il linguaggio, la storia di una seduzione che lo ha portato a scrivere anche sceneggiature per film importanti quali Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970) e Ferdinando e Carolina e a vincere oltre al premio Strega, il Premio Campiello alla carriera, il Premio Chiara, sempre alla carriera, il Premio Viareggio per la raccolta L’estro quotidiano, il premio Alabarda d’oro alla carriera per la letteratura e il Premio Brancati.
La cifra di questo grande scrittore sta nell’aver saputo creare sulle pagine armonie acustiche sempre differenti ma riconoscibili, seguendo l’insegnamento di Faulkner, secondo cui la coincidenza tra opera e progetto è impossibile, ed è proprio questa la visione dell’opera di uno scrittore che si rispetti. Di qui il suo impulso a rompere i libri, a decentrarli, ad elevarli come “coraggiosi fallimenti”. Ne risulta spesso una scrittura irrequieta, scaturita da un disordine calcolato, il cui obiettivo è riprodurre le lacune, le ripetizioni cicliche e le asimmetrie della vita vissuta.
Raffaela la Capria è un sistema mobile di configurazioni che protegge nel grigiore le proprie ragioni e i propri sentimenti percettivi della realtà, soprattutto di quella della sua Napoli: usando la sostanza buia cela e dissimula la lucidità dello sguardo il quale si ritrova in uno spazio dispersivo, in cui è difficile orientarsi. La grandezza di La Capria va ricercata non tanto nel romanzo, ma in ciò che ha dato forma al romanzo e quindi anche nel suo apprendistato.
Per molto tempo Raffaele la Capria ha raccontato l’io smarrito, ma da Armonia perduta in poi, lo scrittore diventa più consapevole, più percettivo, senza mai smettere di prediligere l’indefinito, il fortuito, il non totalizzante.
Giovanni Anselmo presenta la sua terza personale presso la Galleria Alfonso Artiaco, a piazzetta Nilo il 17 gennaio prossimo, dalle 10.00 alle 19.00; le precedenti nel 1991, nello spazio di Pozzuoli, e nel 2005 a Palazzo Partanna in piazza dei Martiri a Napoli. La mostra durerà fino al 5 marzo 2022.
Tra i primi nella cerchia dei fondatori del movimento Arte Povera, Anselmo sin dal finire degli anni ‘60 trae la propria ispirazione dall’osservazione degli eventi naturali e dall’energia che ne scaturisce. La sua ricerca radicale combina materiali di diversa natura in continuo dialogo o conflitto, rendendo quasi tangibili le forze che animano l’opera d’arte, manifestandosi attraverso gli effetti sul mondo circostante.
Questo dualismo si traduce in una tensione continua tra visibile e invisibile, tra potenza e atto, tra finito ed infinito. Organico e inorganico, naturale e tecnologico, leggerezza e pesantezza sono solo alcune delle coppie dialettiche sulle quali l’artista lavora in cui l’energia insita nella materia è bloccata in quell’attimo in cui fenomeni opposti collidono e si azzerano.
La mostra presenta una selezione di lavori datati dal finire degli anni ’60 fino ad oggi, in un percorso di opere rappresentative dell’artista.
L’artista
Giovanni Anselmo nasce a Borgofranco d’Ivrea nel 1934 e si avvicina alla pittura da autodidatta. Dal 1967 inizia ad esporre nelle principali mostre di Arte Povera e al 1968 risale anche la sua prima mostra personale sempre presso la Galleria Sperone di Torino.
La fine degli anni Sessanta segna anche l’inizio dell’esperienza internazionale: è infatti invitato a “Prospect ‘68”, Dusseldorf, 1968; “When Attitudes Become Form”, Berna, 1969 e “Conceptual Art – Arte Povera – Land Art”, Torino, 1970.
Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1978, 1980 e nel 1990 dove vince il Leone d’Oro per la Pittura. Le sue opere sono presenti in numerose collezioni pubbliche nazionali e internazionali fra cui GAM di Torino, Museum of Modern Art di New York, Museum of Contemporary Art di Los Angeles e S.M.A.K di Ghent.
Le opere di Anselmo sono installazioni di materiali diversi, spesso opposti, in rapporto di equilibrio e di tensione; si configurano come la materializzazione dell’energia di una situazione o di un evento. In Torsione, del 1968, ad esempio, un panno di fustagno è mantenuto attorcigliato da una barra di ferro, il cui movimento è impedito dalla presenza della parete.
In Senza titolo (Struttura che mangia) un cespo di lattuga è trattenuto tra due blocchi di granito; entrambe le opere visualizzano il concetto di entropia, in base all’interpretazione del filosofo francese Georges Bataille.
Invisibile (1971-75) è un parallelepipedo di granito nero d’Africa su cui è incisa la scritta VISIBILE. Il blocco non è intero ma tagliato su un lato, su cui si presupponeva inscritto il suffisso IN, ovvero la sua parte invisibile, infinita e incommensurabile, quella che renderebbe l’opera finita ma «invisibile». Con un gesto essenziale, Anselmo allude alla possibilità di trovare un completamento in ciò che non vediamo.
Sguardo caldo e mano salda per condurti nei segreti di un’autobiografia, certo, ma anche alla fonte di un cinema sentito dalla prima all’ultima sequenza come necessario. Dunque non a caso Sorrentino costruisce “È stata la mano di Dio” su tre interruttori che danno luce a un affresco perfettamente bilanciato tra reale e immaginario: il mare che rappresenta il vero cielo di Napoli, il miracolo diMaradona e l’avvento di un mentore come il cineasta Antonio Capuano, autoctono per scelta di libertà, il più mansueto degli incazzosi, l’antidoto vivente contro la diffusione dello SPAIP.
Al centro del ritratto estroso e sarcastico della tranquilla vita medioborghese della famiglia Sorrentino alias Schisa, Fabietto, l’alter ego di Paolo, deve però affrontare, manco fosse un eroe omerico, un dolore pressoché insostenibile, un’assurda disgrazia forse destinata a funestare tutti gli anni a venire del già spaesato adolescente.
La scorrevolezza del ritmo, la sobrietà delle musiche, la duttilità della fotografia e la pertinenza di costumi e scenografie riescono a garantire sino al finale il coinvolgimento, però è logico che una cesura così tragica provochi un mutamento delle atmosfere e il connesso adeguamento del respiro e dei toni del film. È pertanto alquanto strano che qualche recensore e qualche spettatore imputino a un film che assomiglia pour cause a un percorso marino contrassegnato dalle sue anse, le sue coste, i suoi approdi e i suoi abissi, l’affievolimento di una presunta “seconda parte”: la quale esiste, ovviamente, sul piano drammaturgico, ma non opera ribaltamenti su quello stilistico.
In un contesto polifonico i contributi degli interpreti non si dovrebbero neanche suddividere, ma il cinema di Sorrentino è spontaneamente generoso, non genera macchiette bensì caratteri, finge la verosimiglianza attaccandovi sempre di sguincio il cartellino del fantastico: Servillo è come al solito impressionante per come è in grado di modellare con cronometrici tocchi l’affabilità cameratesca del pater familias; Teresa Saponangelo, eccezionale in doppia modalità perché recita per il personaggio ma contemporaneamente per come (ri)vive nell’amore del figlio; Luisa Ranieri, oltre che fenomeno da studiare nei convegni di genetica (diventa sempre più bella col passare degli anni), molto concentrata in sequenze nient’affatto facili e via via tutti gli altri, dal Fabietto di Scotti al fratello di Joubert, dal Franco di Gallo al Capuano di Capano, dall’Alfredo di Carpentieri alla Pedrazzi nel ruolo dell’impagabile baronessa: vedere per credere come un episodio estremamente spinto si trasformi in una pagina squisita di cinema, dove, cioè, l’arredamento gremito di polveroso e smorto lusso (non manca la riproduzione in bronzo del pescatorello di Gemito), le movenze da lady Frankenstein della stessa, i suoi comandi da navigatrice esperta nell’atto sconosciuto dell’amplesso fanno davvero percepire in sala il fatidico “odore delle case dei vecchi” che è una delle battute ereditate dai dialoghi sorrentiniani d’eccellenza.
Tra i tanti e straripanti omaggi dedicati al calciatore argentino che volle farsi re, riannodati a un’età d’oro che ha preso la forma di una nuvola di fuoco piazzata sul cono del Vesuvio, quello di Sorrentino è certo il più commovente: niente analisi tecniche o risse da talk show, bensì un’esplosione incontenibile d’ebbrezza popolare, l’orgia della devozione al culto più puro, quello del talento e all’obiettivo finale più nobile, quello della leggenda.
Gol “falso” e gol vero (inestimabili entrambi), cosa importa? La grande bellezza al servizio della nostra condizione di voyeurs assomiglia a quella del cinema, falsa/vera per definizione, magari la stessa del capodopera “C’era una volta in America” che il protagonista cerca ogni volta invano di godersi in cassetta VHS.
L’identico meccanismo che genera l’apparizione del munaciello (ovviamente anch’esso falso/vero) inseguito dal narratore a Marechiaro nei tunnel allagati tra le rovine classiche e gli scogli, ricevendone in premio una sorta di breviario esistenziale: Capuano e la perseveranza, Capuano e la libertà, Capuano e l’indignazione, Capuano che affronta a brutto muso l’adepto… “O tiene ‘nu poco e curaggio?”. Succede proprio così: il coraggio -in questo film universale nonostante o forse a causa delle metafore ossessive e i miti personali- l’acquisisce in extremis proprio l’autore infischiandosene delle pennellate potenzialmente (politicamente) scorrette su donne, desiderio e sesso e cercando sempre e solo di non disunirsi come recita l’ultimo strillo del mentore prima di tuffarsi in mare aperto.
Sì, il mare. Perché la realtà sarà pure scadente ma non lo è il karma di Paolo/Fabietto ricalcato sul capitano della conradiana “Linea d’ombra”, quella che separa la giovinezza dall’ingresso nella maturità e la catartica coscienza di sé.
Napoli come porta dell’Europa, della Magna Grecia, della classicità, della ragione, è questa la città partenopea raccontata del romanzo La pelle dello scrittore toscano Curzio Malaparte, su cui si è concentrata la conferenza tenuta il 19 ottobre alle ore 17.00 presso la Sala Pegaso dell’Hotel Conca Park di Sorrento e organizzato dall’Istituto Torquato Tasso, dal Prof. Emanuele Canzaniellodal titolo “Mitografie della pelle”.
La descrizione che Malaparte offre di Napoli è, come ha sostenuto Canzaniello durante la conferenza, tra le più incisive e riuscite delle letteratura, corrispondente alla città che è entrata dell’immaginario collettivo avulso dai soliti luoghi comuni.
<<Non potevamo scegliere un luogo più pericoloso di Napoli, parte di un’Europa segreta>>, legge ad un certo punto il Prof. Canzaniello dal romanzo La pelle, il quale mostra come Malaparte consideri Napoli una città antica ma mai sepolta, dominata da un senso invincibile di passività, come chi è in balia di una calamità naturale. Ben disposta nei confronti degli Alleati, Napoli non ha mai manifestato tuttavia l’intenzione di affiancarli nelle operazioni belliche contro i nazisti. Malaparte ci dice che questa mancanza di “volontà” è dovuta al solo desiderio di sopravvivenza di Napoli, disposta ad adattarsi a qualsiasi espediente.
La città è vista dallo scrittore pratese come una grande fabbrica dell’appetito, che si vende e si danna quotidianamente, stordendosi in un vortice di irreale frenesia. La guerra ha annientato le risorse materiali e spirituali dei napoletani. Le coscienze e i corpi dei vinti sono martoriate vengono denunciare da Malaparte per il quale l’abisso coincide con la “macchina da guerra”.
Fortemente compromesso con il fascismo, di cui è stato uno dei primi ideologi, Curzio Malaparte si è sempre sentito estraneo ai vari filoni intellettuali che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra sia Italia che in Europa, preferendo affrontarli con il suo mezzo più congeniale, ovvero quello della polemica.
Pochi scrittori sono riusciti ad raccontare il nucleo oscuro del potere degli Stati totalitari come Malaparte: da intellettuale di punta del primo fascismo, ma anche da corrispondente nella Russia sovietica e nell’Europa occupata dalle armate tedesche e terrorizzata da Hitler, lo scrittore ha avvertito e rappresentato la valenza epocale dello scontro tra la potenza tecnologica asservita a fini politici e le persistenti concezioni umanistiche che ancora vedevano l’uomo al centro della sua storia, ribaltando il paradigma che divide in due il Novecento e la modernità, i cui effetti sono ancora visibili.
Emanuele Canzaniello attualmente insegna letteratura francese presso il Dipartimento Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, concentrandosi sullo studio di autori antimoderni. Nel maggio 2013 ha concluso un dottorato presso l’Università di Bari, nell’ambito delle letterature comparate, dove si è proposto di rintracciare un’estetica del romanzo totalitario tra Francia e Italia. Ha tradotto alcuni lavori di Harald Weinrich e pubblicato recensioni cinematografiche e articoli in «Le Parole e le Cose»,«Nazione Indiana» e altre riviste. Un suo saggio sul caso e la letteratura è apparso nel volume Delle coincidenze, ad est dell’equatore, 2012.
Suoi interventi di critica e teoria della letteratura sono apparsi in «Between» e «Status Quæstionis».
La galleria Artiaco di Napoliè lieta di annunciare Giulio Paolini con l’opera Il cielo e dintorni, 1988 a PANORAMA | Procida, mostra diffusa sull’isola di Procida (Napoli) da giovedì 2 a domenica 5 settembre 2021, a cura di Vincenzo de Bellis, direttore associato e curatore per le arti visive del Walker Art Center di Minneapolis.
PANORAMA | Procida è il primo di una serie di appuntamenti espositivi che, sempre con il titolo di PANORAMA, ITALICS dedicherà con cadenza periodica al racconto di alcune tra le località più affascinanti del paesaggio italiano, proseguendo offline lo straordinario viaggio iniziato a ottobre 2020 tra le pagine web della piattaforma Italics.art.
PANORAMA | Procida è un itinerario alla scoperta della bellezza potente dell’isola, in cui arte e natura disegnano un nuovo paesaggio che include la dimensione dell’esperienza. Un happening condiviso che coinvolge l’intero territorio e la sua cittadinanza, costruito in dialogo con Agostino Riitano, direttore di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022.
La mostra si compone di oltre cinquanta opere tra scultura, pittura, video, performance e installazioni provenienti da contesti storici e produttivi diversi tra loro. Il percorso si sviluppa lungo venti siti espositivi diffusi sull’isola, tra architetture pubbliche e private, chiese, palazzi storici e aree popolari, trovando il suo centro catalizzatore nella zona dell’antico borgo fortificato di Terra Murata, dominato da Palazzo d’Avalos (1563) un tempo cittadella carceraria.
Disseminando il progetto sul territorio, PANORAMA presenta le sue opere ma presenta anche le case, le chiese, le strade, le terrazze, le piazze e i cittadini stessi di Procida.
Con PANORAMA, ITALICS rinnova il proprio impegno nella promozione della bellezza del Paese nella sua profonda complessità, attraverso lo sguardo dei galleristi italiani.
PANORAMA | Procida è realizzata grazie a Intesa Sanpaolo, Partner del progetto, e a Tod’s che con questo impegno rinnova il proprio supporto alla giovane creatività contemporanea.
Realizzata con il sostegno della Regione Campania, della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee – museo Madre e in collaborazione con il Museo e Real Bosco di Capodimonte, con il patrocinio del Comune di Procida e “Verso Procida 2022”.