Da Carlo Verdone a Ferzan Ozpetek, da Massimo Ranieri a Maria Grazia Cucinotta. Ci sono le testimonianze di numerosi personaggi della cultura e dello spettacolo nel nuovo volume, “Non ci resta che Massimo”, che il quotidiano “Il Mattino” darà in omaggio ai suoi lettori sabato e domenica 18 e 19 febbraio per celebrare i 70 anni dalla nascita di Massimo Troisi (San Giorgio a Cremano, 19 febbraio 1953 – Roma, 4 giugno 1994).
La presentazione del volume si è svolta all’Università Suor Orsola Benincasa, sede dal 2015 di una prestigiosa Scuola di Cinema e Televisione diretta dal produttore de “La grande bellezza” Nicola Giuliano.
“Dopo le fatiche de “Il postino”, non è stato disatteso il tuo ultimo, spontaneo, genuino saluto: quel “Ricordatevi di me”, sussurrato come un fruscio di foglie, è rimasto appiccicato alla leggerezza della tua anima e ti lascia vivere. Quella richiesta è diventata “legge morale”, capace di dissetare – per noi di questo mondo – l’arsura della tua mancanza”. Le toccanti parole della sorella Rosaria, contenute in una lettera a Massimo Troisi raccolta all’interno del libro de “Il Mattino” hanno aperto la presentazione grazie al reading attoriale di Nadia Carlomagno, direttore del Master in Teatro, pedagogia e didattica dell’Università Suor Orsola Benincasa.
“Ricomincio da tre e mai da zero – ha spiegato il Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro – deve essere la lezione di Troisi da seguire anche per lo sviluppo di una “Scuola pubblica dei mestieri del cinema” in Campania di cui si discute in questi giorni. Una scuola che potrà certamente ‘ricominciare’ il suo lavoro ripartendo dalle istituzioni pubbliche e private già attive da anni in Campania nell’alta formazione nel settore cinema come l’Accademia di Belle Arti di Napoli e l’Università Suor Orsola Benincasa“.
Parole commosse nel ricordo di Massimo Trosi da parte dei curatori del volume. Titta Fiore nel suo intervento ha ricordato l’umiltà e la sobrietà con cui Troisi ritirò alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1989 l’indimenticabile Coppa Volpi che divise ex aequo con Marcello Mastroianni per la miglior interpretazione maschile in “Che ora è” di Ettore Scola. Federico Vacalebre ha ricordato lo straordinario sodalizio amicale e musicale con Pino Daniele che firmò l’indimenticabile colonna sonora di “Pensavo fosse amore …invece era un calesse”.
“Ieri, oggi e domani” è il titolo della collana di libri con la quale da anni il quotidiano “Il Mattino” sta raccontando i personaggi che hanno fatto la storia della città di Napoli attraverso la cultura, il cinema, il teatro o lo sport (da Totò a Maradona, da Sophia Loren a Paolo Sorrentino). E Troisi, come ha ricordato lo storico critico cinematografico de “Il Mattino” Valerio Caprara, “sotto il Vesuvio si trova in un ideale piedistallo su cui troneggiano con lui leicone di Totò ed Eduardo”.
Un attestato di stima travolto dal lunghissimo applauso della Sala degli Angeli del Suor Orsola che ha riunito per il settantesimo compleanno di Troisi giornalisti, studenti, docenti, attori, musicisti e semplici appassionati di ‘Massimo’. Rimasto nel cuore di tutti, come ha ricordato il direttore del Mattino, Francesco De Core,che ha firmato la prefazione del volume“Non ci resta che Massimo” sintetizzandone il senso. “Confesso: non so immaginarmelo Troisi a settant’anni. Magari con i riccioli più radi e imbiancati, e quel volto un po’ scavato che lo avrebbe reso simile a Eduardo. Ma almeno questo la morte, a dispetto della sua lugubre indecenza, può lasciarci a futura memoria: un volto eternamente giovane a far tenera compagnia alle stagioni che passano. Massimo, con le sue intuizioni, le sue battute, il suo spleen, la sua risata, il suo garbo. La mia, la nostra vita, quella di quanti lo hanno conosciuto e sono stati attraversati dalla sua magia, oggi riuniti in questo libro che è insieme omaggio e ricordo. Sì, davvero: non ci resta che Massimo“.
Diversi giornali trattano la morte di Monica Vitti, scomparsa oggi a 90 anni, in relazione alla sua malattia titolando squallidamente “Era irriconoscibile”, “Era malata da tempo”, come se quello che si dovesse ricordare di lei sia il suo cambiamento fisico e la sua malattia, l’ultima parte della sua vita lontano dai riflettori e dal cinema.
Monica Vitti è stata una grande attrice, una professionista, una donna bellissima, simpatica, intelligente, rigorosa, cordiale, amatissima dagli italiani, le sue pellicole rimarranno nella storia e lei continuerà ad essere un punto di riferimento per le aspiranti attrici. Se va un pezzo del nostro cinema tanto apprezzato all’estero, se ne va una figura unica nel panorama del nostro cinema, di tutte le epoche. Non era, né si considerava, un monumento. I ruoli le aderivano come gli abiti che indossava. Tutti. Era tanto intensa, completa, presente a tutta la gamma delle parti, che a volte lasciava la sua bellezza indietro. Era lei che la controllava, e non voleva che invadesse tutto il resto che le apparteneva.
Era di una bellezza fuori dagli schemi, Monica Vitti, nella stagione delle maggiorate. Una bellezza inconsapevole, intellettuale, magnetica e celata, mai esibita, volgare o pacchiana, al servizio dei ruoli che interpretava. Dei film cui ha preso parte come protagonista, celebri sono L’avventura, La notte e L’eclisse, fra il ’60 e il ’62, dove diede vita a quel personaggio triste, ferito, confuso, silente, anaffettivo solo in apparenza.
Michelangelo Antonioni doveva molto a Monica Vitti, sua compagna anche nella vita, considerata cinematograficamente da lui solo in vesti drammatiche. Ma Monica possedeva anche un grande senso dell’ironia che seppe mettere a frutto, cambiando registro. Assunse la commedia con la stessa spigliatezza del dramma. Indimenticabile il ruolo della donna siciliana d’onore che la Vitti ci ha consegnato nel film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, come pure quello di Teresa la ladra.
Monica Vitti in Deserto rosso
Tra “alienazione” ed ironia
Fa donna difficile che non riusciva ad inserirsi nella realtà, a dare ordine alla cose, Monica Vitti diventò l’attrice “brillante” più popolare del cinema italiano degli anni ’60 e ’70, che invece riusciva a dare senso alla realtà avvalendosi di ironia e leggerezza, grazie a film come Alta infedeltà diretto da Luciano Salce, Le bambole di Dino Risi, Ti ho sposata per allegria, ancora di Luciano Salce. Nel 1969 interpretò Amore mio aiutami: fu il primo film di e con Alberto Sordi, che metteva alla berlina la falsa emancipazione del matrimonio in Italia.
L’anno seguente fu la protagonista de Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca diEttore Scola accanto a Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. Si fece dunque strada come la “mattatrice” incontrastata, la risposta femminile al mattatore Vittorio Gassman, unica donna capace di competere con i grandi comici della commedia all’italiana. Nel 1973 fu la protagonista di Polvere di stelle, esilarante commedia cinematografica diretta e interpretata da Alberto Sordi.
Nel 1966 a chiamarla fu un maestro l’americano, Joseph Losey che le assegnò il ruolo di protagonista in Modesty Blaise – La bellissima che uccide, dove Monica era un agente segreto, una sorta di parodia di ‘007.
Nel 1974 venne chiamata da Luis Bunuel ad interpretare la signora Foucauld in Le Fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà). In tutto Monica Vitti ha ricevuto tre Nastri d’argento e cinque David di Donatello. Il teatro è stato un suo grande amore: nel 1986 recitò accanto a Rossella Falk in La strana coppia, per la regia di Franca Valeri; due anni dopo in Prima pagina di Hecht e MacArthur, diretta da Giancarlo Sbragia.
Io so che tu sai che io so
E’ stata autrice di due soggetti cinematografici: Flirt, scritto nel 1983 e Francesca è mia, del 1986. Non contenta di essere diventata l’attrice numero uno delle commedie brillanti all’italiana, nel 1989 diresse anche un film, Scandalo segreto, che interpreta al fianco di Elliott Gould e Catherine Spaak.
Ma cosa pensava Monica Vitti del cinema del suo tempo? In un’intervista ad Oriana Fallaci, l’attrice confessò di amare i film western, si divertiva con i saloon, le sparatorie, le cavalcate e partecipava emotivamente al film che guardava, agitandosi e urlando.
Alla Vitti inoltre, soprattutto nel periodo antonioniano, veniva affiancano il termine alienazione. Alla domanda della Fallaci su cosa fosse l’alienazione, la Vitti rispose che non lo sapeva, neppure si era posta mai il problema di domandarsi da dove provenisse, se dal Capitale di Marx o dai Vangeli e che i giochi intellettuali non era capace a farli, anzi si professava ignorante:
<<Di cosa crede che io parli con Michelangelo (Antonioni, suo compagno)? Di incomunicabilità?>>?
Incomunicabilità, altra parola chiave, non solo del cinema di Antonioni ma del nostro tempo e intorno alla quale la Vitti aveva le idee chiare e le espose in questi termine alla Fallaci:
<<Analizziamo L’eclisse che è il film più difficile. Che storia racconta? Quella di una ragazza che non ama più un uomo e lo pianta. Quando lo ha piantato, ne trova un altro. I due si piacciono, credono alla possibilità di un amore e si danno un appuntamento. A questo punto però ad entrambi prende una paura, quella impegnarsi troppo, forse di farsi imbrogliare, di subire una delusione e non vanno all’appuntamento. Stop. Ma siccome Antonioni è un intellettuale, ci deve essere il sottofondo>>.
L’eclisse
Monica Vitti spiegò candidamente e semplicemente la differenza della funzione dell’attore e del cineasta e di come Antonioni venisse spesso frainteso e anche lei, considerata un’ambizione che pur di fare cinema di spessore, sacrificasse la sua natura di donna estroversa ed ironica, pensiero smentito dal successivo capitolo cinematografico della carriera di Monica Vitti, un’alienata con riserva e di grandissimo talento. Un esempio per tutti coloro che vogliono fare cinema per amore dell’Arte, non per il successo, con passione, e serietà, senza accettare compromessi.
Occuparsi di cinema, realizzare un film è come viaggiare sotto una scia di stelle. Sono due anni che approfondisco il cinema attraverso lo studio di sceneggiatura e regia, “Per le vie del paradiso” è stato il mio primo cortometraggio che mi ha permesso attraverso l’uso delle immagini e di voci narranti di avvicinarmi, ad alcune mitologie della mia vita. Oggi vorrei strettamente parlare di alcune figure importanti, che hanno cambiato il mio pensiero, e la mia vita. Sotto il segno di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano eDiego Armando Maradona.
Che cosa avete contro la nostalgia? L’unico svago che resta contro la paura del futuro”. Su questa frase io mi rispecchio; la bellezza del cinema di Paolo Sorrentino per me, racchiude la debolezza dell’essere umano, con le sue fragilità, una sintesi perfetta dei pensieri scadenti che ognuno di noi fa, assorbito da tale ignoranza di ignorare il bello, cioè tutto quello che ci circonda ma soprattutto la nostra anima veritiera, perché da qui parte tutto.
Un giovanissimo Paolo Sorrentino
Riflettere su se stessi, e sicuramente un allenamento che noi tutti dovremmo fare ogni giorno, cosi come i personaggi sorrentiniani analizzano la loro vita attraverso un grandissimo procedimento di scrittura. La nostalgia dei personaggi la rivediamo nei luoghi, alcune volte influenzano le nostre scelte o addirittura ci posso schiacciare in un buco nero dove difficilmente si riesce a tornare a galla. Il cinema è verità, per me Sorrentino é verità, dove attraverso il suo modo di vedere le cose riesce a trasportarti in una realtà confusa, quindi la realtà di tutti i giorni.
Avvicinandomi al suo cinema qualcosa che sicuramente mi ha impressionato è la forza dei personaggi attraverso lo sdoppiamento di facce (Toni Servillo) che nello stesso tempo fanno riflettere su una caratteristica veritiera della nostra vita, le maschere che indossiamo ogni giorno per essere “perfetti” alla massa senza pensare a noi. Il cinema è senza regole per me, è tutto questo ho capito grazie alle sue pellicole, che si può descrivere la noia, i difetti, i pensieri, la gioia di vivere tutto attraverso un solo binario, quello della verità di essere se stessi, e di non diventare troppo abili per paura di convincersi di sapere tutto dalla vita.
“Non ti disunire” esclama Antonio Capuano a Fabietto Schisa nel film È Stata la mano di Dio. Essere fedeli a se stessi anche quando tutto va male. Parole, gesti e affermazioni, ma alla fine chi siamo noi? Ho conosciuto Antonio Capuano, in un breve incontro cinematografico a Bari. Una persona molto intelligente ma soprattutto un uomo che racconta attraverso una visione incredibile l’essere umano. Cerco di fare le cose con molta onestà. Onestà può essere una parola fastidiosa: cerco di fare le cose come le penso e come le sento, senza nascondigli, come giocano i bambini, questo è Antonio Capuano, dove la verità tocca come corde musicali la nostra anima e ci fa scrivere storie forti, dove attraverso gli occhi puoi toccare il personaggio, addirittura puoi sentirti travolto da tutto questo, perché devi essere accanito della vita. È una magia, come dicevo all’inizio, si perché fuori se alzi gli occhi al cielo senti l’odore della libertà.
“Maradona era una divinità” esclama Paolo Sorrentino in un’intervista. Diego Armando Maradona, dai capelli arruffati, con il volto angelico e un cuore d’oro come i suoi piedi. Il calcio è Diego Armando Maradona. Maradona è uno stato d’animo.
Siamo nel 1984 di un 5 Luglio che resterà nel cuore di tutti gli appassionati di calcio, l’arrivo di Maradona a Napoli, un riscatto, qualcosa di eccezionale che si unisce ad un sogno. L’uomo può superare i suoi limiti, può fondere la sua volontà e arrivare ovunque, quasi a toccare il cielo come ha fatto Maradona, fisico e metafisico questa è la differenza tra gli altri. È difficile raccontare una divinità, perché non la puoi raccontare ma la puoi solo sentire dentro, questo sei per me Diego Armando Maradona.
Sguardo caldo e mano salda per condurti nei segreti di un’autobiografia, certo, ma anche alla fonte di un cinema sentito dalla prima all’ultima sequenza come necessario. Dunque non a caso Sorrentino costruisce “È stata la mano di Dio” su tre interruttori che danno luce a un affresco perfettamente bilanciato tra reale e immaginario: il mare che rappresenta il vero cielo di Napoli, il miracolo diMaradona e l’avvento di un mentore come il cineasta Antonio Capuano, autoctono per scelta di libertà, il più mansueto degli incazzosi, l’antidoto vivente contro la diffusione dello SPAIP.
Al centro del ritratto estroso e sarcastico della tranquilla vita medioborghese della famiglia Sorrentino alias Schisa, Fabietto, l’alter ego di Paolo, deve però affrontare, manco fosse un eroe omerico, un dolore pressoché insostenibile, un’assurda disgrazia forse destinata a funestare tutti gli anni a venire del già spaesato adolescente.
La scorrevolezza del ritmo, la sobrietà delle musiche, la duttilità della fotografia e la pertinenza di costumi e scenografie riescono a garantire sino al finale il coinvolgimento, però è logico che una cesura così tragica provochi un mutamento delle atmosfere e il connesso adeguamento del respiro e dei toni del film. È pertanto alquanto strano che qualche recensore e qualche spettatore imputino a un film che assomiglia pour cause a un percorso marino contrassegnato dalle sue anse, le sue coste, i suoi approdi e i suoi abissi, l’affievolimento di una presunta “seconda parte”: la quale esiste, ovviamente, sul piano drammaturgico, ma non opera ribaltamenti su quello stilistico.
In un contesto polifonico i contributi degli interpreti non si dovrebbero neanche suddividere, ma il cinema di Sorrentino è spontaneamente generoso, non genera macchiette bensì caratteri, finge la verosimiglianza attaccandovi sempre di sguincio il cartellino del fantastico: Servillo è come al solito impressionante per come è in grado di modellare con cronometrici tocchi l’affabilità cameratesca del pater familias; Teresa Saponangelo, eccezionale in doppia modalità perché recita per il personaggio ma contemporaneamente per come (ri)vive nell’amore del figlio; Luisa Ranieri, oltre che fenomeno da studiare nei convegni di genetica (diventa sempre più bella col passare degli anni), molto concentrata in sequenze nient’affatto facili e via via tutti gli altri, dal Fabietto di Scotti al fratello di Joubert, dal Franco di Gallo al Capuano di Capano, dall’Alfredo di Carpentieri alla Pedrazzi nel ruolo dell’impagabile baronessa: vedere per credere come un episodio estremamente spinto si trasformi in una pagina squisita di cinema, dove, cioè, l’arredamento gremito di polveroso e smorto lusso (non manca la riproduzione in bronzo del pescatorello di Gemito), le movenze da lady Frankenstein della stessa, i suoi comandi da navigatrice esperta nell’atto sconosciuto dell’amplesso fanno davvero percepire in sala il fatidico “odore delle case dei vecchi” che è una delle battute ereditate dai dialoghi sorrentiniani d’eccellenza.
Tra i tanti e straripanti omaggi dedicati al calciatore argentino che volle farsi re, riannodati a un’età d’oro che ha preso la forma di una nuvola di fuoco piazzata sul cono del Vesuvio, quello di Sorrentino è certo il più commovente: niente analisi tecniche o risse da talk show, bensì un’esplosione incontenibile d’ebbrezza popolare, l’orgia della devozione al culto più puro, quello del talento e all’obiettivo finale più nobile, quello della leggenda.
Gol “falso” e gol vero (inestimabili entrambi), cosa importa? La grande bellezza al servizio della nostra condizione di voyeurs assomiglia a quella del cinema, falsa/vera per definizione, magari la stessa del capodopera “C’era una volta in America” che il protagonista cerca ogni volta invano di godersi in cassetta VHS.
L’identico meccanismo che genera l’apparizione del munaciello (ovviamente anch’esso falso/vero) inseguito dal narratore a Marechiaro nei tunnel allagati tra le rovine classiche e gli scogli, ricevendone in premio una sorta di breviario esistenziale: Capuano e la perseveranza, Capuano e la libertà, Capuano e l’indignazione, Capuano che affronta a brutto muso l’adepto… “O tiene ‘nu poco e curaggio?”. Succede proprio così: il coraggio -in questo film universale nonostante o forse a causa delle metafore ossessive e i miti personali- l’acquisisce in extremis proprio l’autore infischiandosene delle pennellate potenzialmente (politicamente) scorrette su donne, desiderio e sesso e cercando sempre e solo di non disunirsi come recita l’ultimo strillo del mentore prima di tuffarsi in mare aperto.
Sì, il mare. Perché la realtà sarà pure scadente ma non lo è il karma di Paolo/Fabietto ricalcato sul capitano della conradiana “Linea d’ombra”, quella che separa la giovinezza dall’ingresso nella maturità e la catartica coscienza di sé.
Il film italiano Todo se puede di Marcello Crea, debutterà in prima internazionale in Serbia. La pellicola infatti sarà trasmessa domenica 7 novembre dall’emittente televisiva satellitare Sat TV che oltre ad essere molto seguita a Belgrado, trasmette in gran parte della Serbia.
Il film è stato seguito anche in Italia e in altri Paesi scaricando l’app della popolare piattaforma televisiva Orion TV.
“Todo se puede” è una commedia brillante con molti spunti grotteschi, giocati sul solco del neorealismo. Il progetto si è sviluppato in collaborazione con Nova Academia Alpe Adria – settore cinema e il Comune di Gorizia, città nominata Capitale Europea della Cultura, la collaborazione si è svolta anche dal punto di vista delle location (suggestive le scene interne ed esterne del prestigioso Palazzo Coronini), nonché delle immagini: nel secondo tempo del film, infatti, si vedono i Sindaci (veri) di Gorizia e Nova Gorica che interloquiscono attraverso una rete divisoria che divide i due confini con metà scrivania dalla parte italiana e metà dalla parte slovena.
Todo se puede racconta una storia di provincia completamente nuova, sconosciuta al grande pubblico. Le riprese sono state fatte tra Trieste e Gorizia in una zona culturalmente affascinante, ai confini con la Slovenia, dove si respira ancora quell’aria indimenticabile della Mitteleuropa.
La pellicola è stata girata in piena pandemia tra mille difficoltà e interruzioni, ed ora, dopo due anni finalmente l’esordio. La storia è incentrata su un gruppo squattrinato di artisti di Trieste, i quali attraverso la proposta di un mega sponsor, riescono a realizzare un evento artistico clamoroso con la partecipazione di celebri ospiti internazionali.
Quando ormai l’organizzazione dello spettacolo è in dirittura di arrivo, il grande show viene bruscamente interrotto da un virus che blocca ogni attività nel Paese. I nostri protagonisti, tuttavia, non si arrendono e si rifugiano nella vicina Slovenia. Da qui una nuova e inaspettata avventura li attende…
In un primo momento Todo se puede doveva essere proiettata nelle sale cinematografiche italiane, ma la distribuzione del film ha ritenuto di non prendere in carico le proiezioni per le difficoltà scaturite dall’introduzione della legge sul green pass. Pertanto, almeno per il momento, il film seguirà un percorso televisivo.
Oltre a Marcello Crea (regista ed interprete) il film vede la partecipazione amichevole di Maria Giovanna Elmi e Andro Merkù (imitatore in molti programmi radiofonici e televisivi Mediaset tra cui “Striscia la notizia”, noto anche per i noti scherzi telefonici con numerose celebrità italiane. La consulenza artistica dell’opera è stata affidata a Paolo Magris, figlio d’arte, di recente ospite alla Festa del Cinema di Roma con il film “Il mare negli occhi”.
Marcello Crea – attore – regista – scrittore
Marcello Crea ha lavorato come attore e autore con il Teatro Stabile del F.V.G. e allo Zelig di Milano. Autore regista ed interprete del varietà intitolato “Atmosfere d’Avanspettacolo” (tra gli artisti della compagnia ci fu Gigi Sabani).
Voce recitante in vari recital tra cui “Laboratorio D’Annunzio”, da un’idea di Giorgio Albertazzi, e “C’est pas la la fin du monde”, con testi di Jacques Prevert, spettacolo rappresentato con il Patrocinio dell’Ambasciata di Francia.
Ha lavorato in produzioni Rai e Mediaset e nella soap opera di Canale 5 “Vivere”; è autore insieme a Paolo Magris del libro su Carlo Michelstaedter “Come fosse l’ultimo” (Garzanti Editore), vincitore del Premio Internazionale “Attori in cerca di autore” al Teatro Valle di Roma, ora divenuto una sceneggiatura per il cinema in fase di elaborazione finale, scritta dai medesimi autori.
Come regista ha realizzato diversi film cortometraggi i quali sono scaturiti, in gran parte, a conclusione dei suoi laboratori di recitazione cinematografica e sceneggiatura; corsi da lui tenuti numerose volte presso varie sedi tra cui l’Università di Trieste e la Sala Conferenze della Biblioteca Statale Stelio Crise (Ministero dei beni e delle attività culturali).
Ferrara omaggia il grande regista Florestano Vancini con la mostra intitolata ‘L’Arte nei manifesti del Cinema di Florestano Vancini‘, la prima esposizione permanente dedicata al cinema ferrarese e a uno dei suoi massimi rappresentanti.
L’ inaugurazione avrà luogo domani, sabato 18 settembre, alle ore 18.00, presso lo Spazio Grisù. L’iniziativa di una mostra con manifesti, cimeli, testimonianze storiche di pregio è piaciuta anche alla Regione Emilia-Romagna, che ha selezionato la proposta di Stefano Muroni, attore e organizzatore culturale ferrarese, nell’ambito del Bando regionale sulla memoria, dedicato alle figure che “hanno segnato la storia del territorio emiliano-romagnolo del ‘900, di cui va conservata la memoria storica e garantita la sua trasmissione alle nuove generazioni, oltre a sostenere una ricerca storica approfondita e aggiornata”.
Curatore della mostra permanente sarà Luca Siano, tra i massimi esperti a livello nazionale di pittori del cinema e direttore dell’Archivio Sandro Simeoni. “Abbiamo raccolto ed archiviato – spiega Simeoni – il maggior numero di locandine, foto, buste, soggetti e manifesti riguardanti tutta l’opera cinematografica del grande regista estense, compreso un rarissimo bozzetto originale disegnato da Ermanno Iaia per il corredo pubblicitario de ‘La banda Casaroli’ del 1962. Simeoni, Iaia, Brini, Ferrini, Casaro, sono alcuni dei nomi dei pittori che con la loro arte hanno fatto da tramite tra l’autore ed il suo pubblico, cogliendo l’essenza di quei film e cristallizzandola in una singola immagine dipinta.
Le immagini dipinte evocano parte delle storia del cinema italiano, quel cinema capace di coniugare abilmente l’impegno politico, la narrazione storica e il puro spettacolo, attuando anche un revisionismo storico, insieme a Visconti (Senso) attraverso la pellicola del 1972, “Bronte”, in cui il regista ferrarese abbatte definitivamente il mito consolidato che la tradizione italiana aveva costruito intorno al Risorgimento, periodo che viene visto da Vancini come pieno di aspettative deluse e di occasioni mancate, a cominciare dalla non partorita Repubblica democratica, sostituita da una monarchia sabauda priva di vigore, sia sul piano delle libertà che su quello della giustizia sociale.
Vancini non è riuscito dalla metà degli anni Settanta a tenere alta l’attenzione verso l’analisi della realtà perché il neorealismo stava perdendo vitalità, ma film come Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, La lunga notte del ’43 (suo esordio cinematografico, Amore amaro, rappresentano tentativi esemplari e riusciti di quell’inizio di ricostruzione della storia dalla parte dei vinti e delle classi subalterne che si comincia a fare proprio alla svolta del decennio, capovolgendo non pochi indiscussi stereotipi rimasti troppo a lungo immutati.
La tensione morale e l’ammissione di una insensibilità culturale verso la presa di coscienza della frattura tra passato e presente sono le peculiarità del cinema di Vancini e che purtroppo il cinema italiano di oggi ha smarrito, votandosi alla bieca retorica.
È stata un’estate all’insegna dell’arte quella di Vincenzo Bocciarelli, reduce dallo spettacolo teatrale Senza limite, nato da un’idea di Serenella Bianchini, e che ha riscosso un grande successo. Attore, pittore, conduttore e scrittore. Classe 1974, l’attore nasce il 22 febbraio a Bozzolo, Mantova. Dalla sua città natale si trasferisce a Siena per intraprendere gli studi di recitazione.
Dopo la maturità debutta al Piccolo Teatro di Milano diretto dal maestro Giorgio Strehler, iniziando la carriera come attore teatrale e recitando al fianco di grandi nomi del teatro come Valeria Moriconi, Giorgio Albertazzi, Irene Papas, Roberto Herlizkca, Riccardo Garrone.
Mentre la sua attività teatrale prosegue sul palcoscenico, il pubblico inizia ad apprezzarlo in fiction come Orgoglio, Il bello delle donne ed Incantesimo e al cinema nei film: E ridendo l’uccise di Florestano Vancini, pellicola anticonvenzionale per il cinema italiano sulla celebre congiura di Giulio d’Este, vista attraverso gli occhi del buffone di corte Moschino; L’inchiesta, Nirakazhcha Irakazhcha-La strada dei colori e recentemente nel film campioni d’incassi La scuola più bella del mondo.
Definito <<l’orgoglio del grande cinema dal Messaggero>>, Bocciarelli è da sempre un artista poliedrico, appassionato e zelante, vicino al suo pubblico. A marzo 2020, nel periodo del lockdown ha ideato “il “Bocciarelli Home Theatre” un format digitale, con cui l’attore ha portato il teatro nelle case degli italiani, infondendo loro un messaggio di speranza e di forza. Questa esperienza ha poi ispirato la sua opera prima scrittoria, intitolata Sulle ali dell’arte. L’esperienza del «Bocciarelli home theatre» per sopravvivere ad una pandemia. Ediz. illustrata.
Bocciarelli ha preso parte al cortometraggio di Anna Marcello‘Lockdown love.it’ che ha già ricevuto attenzione a livello internazionale e a Mission Possible, film d’avventura lanciato sulla piattaforma Chili con attori del calibro di John Savage (Il cacciatore, Maria’s Lovers, Il maledetto United, La sottile linea rossa, Il padrino) e James Duval (Donnie Darko), ma sembra che sia il teatro, divino anacronismo, il suo grande amore, probabilmente perché come soleva affermare il grande Vittorio Gassman, il teatro è la zona franca della vita, dove si è immortali.
Il teatro mette a nudo l’ipocrisia e le bassezze dell’animo umano e non è un caso che Bocciarelli sia un eccellente interprete di personaggi di opere shakespeariane, quali La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia, nonché mitologiche come Edipo re e Antigone. Nel curriculum di Bocciarelli si annoverano numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio alle Arti per meriti professionali, che riceverà a breve.
Vincenzo Bocciarelli è la dimostrazione che nel teatro, il visibile e l’invisibile si incontrano e la parola vive di una doppia gloria, come diceva Pasolini. Glorificazione che l’attore è riuscito a trasferire anche sul piccolo e grande schermo. La parola è al contempo, scritta e pronunciata, scritta, come la parola di Omero, e pronunciata come le parole che si scambiano le persone nella vita, nel quotidiano, che a volte restano per sempre, e altre volano via con la vita.
Bocciarelli, a differenza di alcuni che pensano che l’arte del recitare consista solo nell’imparare a memoria testi di altri, ci dice una cosa fondamentale: l’arte deve essere spudorata, sincera e scandalosa come è scandalosa ogni cosa divina e il mistero ad essa legato.
Lockdown love
1 Durante il lockdown ha dato vita ad un format digitale il “Bocciarelli home theatre”, portando nelle case il teatro in un momento storico difficile. Cosa ha tratto da questa esperienza? Come ha risposto il pubblico?
Durante il primo lockdown mi è venuta l’idea di portare l’arte, la poesia, il teatro nelle case del pubblico e così è nato il Bocciarelli home theatre, programma facebook e youtube, in diretta dal soggiorno di casa mia, inizialmente tutti i giorni, poi tre volte alla settimana. Ritengo che il pubblico non sia sprovveduto e cerca cose di qualità e in un momento difficile come quello, ho capito quanto fosse importante entrare nelle case delle persone per donare creatività, e tutto il mio impegno e amore che nutro per l’arte, così da essere di sostegno e anche di compagnia. Ho capito quanto le persone avessero bisogno di sentirsi meno sole e di pensare anche ad altro, entrando in un’altra dimensione, quanto l’arte possa essere utile. Il pubblico ha risposto molto bene, ho ricevuto molti messaggi di stima e affetto; è stata un’esperienza arricchente.
2 Quale pensa sia il mezzo migliore per veicolare l’arte?
Qualunque mezzo è idoneo a divulgare la cultura e l’arte purché si tenga ben presente il significato di questo termine. Non ho pregiudizi di alcuna sorta. La televisione certamente rappresenta il mezzo più comodo, tuttavia io personalmente preferisco il teatro. A prescindere dal successo che si può avere, credo che bisogna metterci tutta la propria passione, da trasmettere a chi ci guarda e ascolta, e cercare di realizzare progetti di qualità, non indirizzare immediatamente il proprio obiettivo all’aspetto commerciale.
3 Il suo libro “Sulle ali dell’arte” in cui racconta proprio l’esperimento Bocciarelli home theatre, è stato definito da qualcuno un anti-covid. Cosa è invece per lei? Che aspettative ha?
Mi è molto piaciuta questa definizione, era il mio obiettivo. Il libro è nato soprattutto grazie al volere e al supporto del Presidente della casa editrice Accademia Edizioni ed Eventi, Giuseppe de Nicola, il quale mi ha proposto di raccontare questa esperienza che è stata sia artistica che socio-culturale. Il libro parla della funzione salvifica dell’arte e dell’importanza di riflettere e far riflettere il pubblico. L’arte possiede un qualcosa di divino e ci aiuta ad entrare nel mistero della vita e nei suoi accadimenti, ma non deve essere un modo per esibirsi in modo narcisistico; è fondamentale che avvenga uno scambio tra attore e spettatore, altrimenti non ha senso. Sono già molto soddisfatto, il libro sta andando bene e non mi aspetto nulla in particolare, quello che viene, insomma.
“Incantesimo”, con Elisabetta Pellini
4 Crede che la letteratura, il cinema e il teatro possano essere davvero una “carezza per l’anima”?
Certamente. Sono tutte discipline unite da un filo rosso e devono toccare l’anima delle persone, scuoterla, smuovere la coscienza, ma soprattutto, come amo ripetere ai miei allievi, la pancia. Credo che molto dipenda anche dal luogo in cui si fa teatro, perché un determinato luogo dà all’attore sensazioni particolari; ecco, ritengo che sia un più un fatto viscerale che mentale. Un attore non può perdersi troppo in elucubrazioni e giochi intellettualistici. “Bisogna metterci il cuore”, come la battuta che faccio ripetere a Serenella Bianchini, una delle interpreti femminili della pièce teatrale “Senza limite” per cui ho curato la regia e sono stato anche interprete, durante un momento di “metateatro”. Ci tengo a ricordare che la prima di questo spettacolo è andata in scena al Castello di Naro, sempre in Sicilia, lo scorso 24 agosto.
5 L’11 settembre 2021 sarà insignito del Premio alle Arti per meriti professionali. Cosa significa ricevere un tale riconoscimento? Cosa pensa dei premi letterari e non? Secondo lei davvero rispecchiano il talento di chi li riceve?
Sono onorato di ricevere questo premio. Credo che i premi siano una conseguenza di quello che si fa, ma non sono il mio obiettivo principale. Ritengo che in Italia ci siano, forse, troppi premi e poche produzioni importanti. Io mi concentrerei su progetti di qualità, piuttosto che sull’organizzazione di concorsi e premi. Devo dire che non sopporto nemmeno lo sciacallaggio che si attua su determinati temi, molto delicati che meriterebbero maggiore lucidità e approfondimento. La missione dell’arte è cercare, scandagliare l’animo umano. Per me conta raccontare qualcosa al pubblico e far conoscere la cultura, essere apprezzato e stimato, il successo, la fama, i soldi vengono successivamente.
Vorrei riportare un esempio: durante il primo lockdown, ho lavorato ad un cortometraggio dal titolo Lockdown love.it, che sarà presentato a festival prestigiosi, e in cui io interpreto un personaggio sui generis. Devo ringraziare tutte le persone che ci hanno creduto insieme a me, soprattutto Anna Marcello. Abbiamo preso tutte le precauzioni e rispettato le misure di sicurezza. Abbiamo lavorato in silenzio della notte, spesso più viva del giorno stesso; è stato bellissimo e suggestivo perché avevamo proprio la sensazione di creare qualcosa all’insaputa di tutti. Trovo meravigliosa la lavorazione di un film, l’atto creativo, prima ancora di vedere il risultato, noi attori, sul grande schermo.
Nel ruolo del marchese Andrea Obrofari con Mary Petruolo in “Orgoglio”
6 Anche quest’anno condurrà il concorso internazionale Musica sacra 2021 per giovani cantanti solisti. In questo periodo storico quanto è importante investire nelle nuove generazioni? Crede che a loro sia offerto il giusto spazio per emergere o si potrebbe fare di più?
Anche questa conduzione è motivo di gratificazione per me, mi piace toccare tutte le dimensioni dell’arte e l’arte sacra certamente è un viatico per avvicinarsi, o quantomeno sfiorare, il mistero divino. Certamente è importante investire nelle giovani generazioni, nei ragazzi e ragazze di talento, purché abbiano spirito di abnegazione, dedizione, amore per l’arte. Potrebbero senza dubbio essere incentivate determinate iniziative, corsi di studi, accademie.
7 L’arte in senso stretto ci dice appunto che oggi, o meglio già da un po’ di tempo, tutto può essere arte. Lei cosa ne pensa?
Non credo che tutto sia arte solo perché qualcuno la possa concepire come tale. Come può non contare la tecnica, un certo virtuosismo? Ma non bastano, bisogna saper emozionare chi ci ascolta e guarda, essere capaci di trasferire lo spirito di un testo in teatro, a cinema, in televisione.
8 Non trova che l’arte dovrebbe essere una fustigatrice del luogo comune invece di rassicurare sempre? Non crede che questo sia il modo per approdare all’eternità?
Nel ruolo di Ippolito d’Este nel film “E ridendo l’uccise”
Certo, recitare vuol dire morire per poi rinascere per l’attore, guardando alla cose con meraviglia, con lo sguardo di un bambino. Io credo che l’arte debba essere spudoratamente sincera, e con questo intendo dire che essa dovrebbe anche ragionare sulla sua propria natura, sulla sua funzione, relazionarsi con le contingenze storiche, con il mito; condurre lo spettatore e il telespettatore in un viaggio sensoriale, nel tempo e nello spazio. In questo senso, ritornando allo spettacolo “Senza limite”, dove ho recitato ai piedi del tempio di Giunone, nella Valle dei Templi di Agrigento, credo sia importante dire che si è trattato di un percorso evocativo e dell’anima, che porta lo spettatore all’Alfa della nostra esistenza, ai primordi della vita, alla creazione, dove tutto è Amore.
9 Tre pellicole per lei imprescindibili?
Bocciarelli: per un addetto ai lavori, per chi fa cinema o per i telespettatori?
Domanda: Per entrambi
Bocciarelli: Direi Effetto notte di Truffaut, capolavoro del meta-cinema, Nella città l’inferno, di Castellani con la grandissima Anna Magnani, che è anche un viaggio nell’Italia del Dopoguerra con quelle tristissime palazzine che fanno da sfondo alla storia. E soprattutto per chi fa cinema o vorrebbe farlo, Birdman, di Inarritu, con uno strepitoso Micheal Keaton che si identifica nel personaggio che ha interpretato in passato e che lo ha portato al successo.
10 Quando recita già si rende conto di presentare al pubblico una cosa nota come se fosse la prima volta che la si vedesse?
Senza dubbio l’arte è questo, non conta tanto la bontà del tema, quanto il modo in cui lo si affronta, è presentare un concetto, ma soprattutto delle emozioni, stati d’animo in modo originale. Purtroppo noto che si parla poco o male, in maniera distorta e faziosa, di metafisica, di trascendenza, di Dio, quasi se ne provasse vergogna.
Corrado Oddi torna sul set: sarà Giovanni Vergane “Il filo segreto”, scritto e diretto da Modestino Di Nenna. Un nuovo personaggio intrigante per l’attore, già interprete del ruolo del Giudice Giovanni Falcone nel docufilm della Rai sul Magistrato.
L’opera cinematografica, promossa dall’Amministrazione Comunale di Altavilla Irpina e dal Sindaco Mario Vanni e nata con la finalità di mettere in evidenza le bellezze naturali e culturali dell’antico borgo, racconterà il passaggio in paese dello scrittore siciliano, che da quel contesto locale rimase talmente entusiasmato e affascinato da lasciarsi ispirare e ambientarvi “Il marito di Elena”, romanzo del 1881 pubblicato da Treves (Milano), in cui vengono abbandonati gli elementi veristici e ripresi i precedenti temi di carattere romantico e passionale.
Come ha giustamente notato Luigi Russo: “Malamente il romanzo è stato interpretato come il dramma di una Bovary verghiana: se il modello del grande artista francese è pur presente, l’interesse del Verga è per il dramma del “filius familias”, che vede crollare un suo sogno di felicità domestica, a causa della vanità e della leggerezza della sua compagna.”
Era infatti il 1882, quando Verga, allora poco più che quarantenne, pubblicò questo romanzo così singolare, sia per essere collocato in Irpinia e non in terra siciliana come la maggior parte delle sue opere sia per trattare temi di carattere romantico e passionale, ben lontani dagli elementi veristici de “I Malavoglia”, il suo capolavoro dato alle stampe soltanto un anno prima.
Nel film documentario il fantasma del giovane Giovanni Verga, interpretato da Corrado Oddi, si incontrerà nel 2021, all’interno del palazzo Baronale De Capua, nel cuore del paese campano, con quello di Costanza di Chiaromonte, che alla fine del Trecento proprio ad Altavilla aveva trovato l’amore eterno con il Conte Andrea De Capua. I due spiriti ripercorreranno le strade del paese riaccendendo in loro vecchi ricordi, in un mix di forti emozioni. Lungo il tragitto incontreranno il fantasma di un minatore che racconterà loro, attraverso la sua voce, la lunga ed interessante storia di Altavilla Irpina.
Le riprese, iniziate il 26 luglio, si svolgeranno tra Palazzo De Capua, Monastero Verginiano (l’attuale Palazzo Comunale), Santuario dei Santi Martiri Pellegrino e Alberico Crescitelli, Via San Francesco D’Assisi, Corso Giuseppe Garibaldi, centro storico, Monte Toro e miniera di zolfo.
Sul set, oltre a Corrado Oddi, ci saranno anche Stefano Masciarelli, Corrado Taranto, Antonio Fiorillo e tanti altri interpreti del panorama cinematografico italiano.