Walter Nicoletti, premio Oscar 2025: ‘Una realtà di produzione internazionale a Matera vuol dire affermare che la qualità non è una prerogativa dei grandi centri metropolitani’

Walter Nicoletti è stato l’unico italiano a portare a casa un Oscar lo scorso marzo. Il cortometraggio animato In the Shadow of the Cypress, diretto dai registi iraniani Shirin Sohani e Hossein Molayemi, cha conquistato l’Oscar come Miglior Cortometraggio Animato alla 97ª edizione degli Academy Awards, porta anche la sua firma.

Un riconoscimento straordinario che porta con sé un grande orgoglio per Voce Spettacolo, casa di produzione e distribuzione fondata da Walter Nicoletti, appassionato di cinema fin da bambino, con sede a Matera e operativa anche a Los Angeles. La società si è distinta nel panorama cinematografico internazionale, lavorando con determinazione per qualificare il film agli Oscar e garantendone il successo globale.

The Shadow of the Cypress si è contraddistinto per la sua profondità narrativa e la qualità dell’animazione, affrontando tematiche universali con un linguaggio visivo originale che suggerisce invece di risultare didascalico. L’abilità dei registi Sohani e Molayemi nel raccontare storie attraverso l’animazione ha trovato il giusto riconoscimento con la statuetta dorata.

Walter Nicoletti, è anche attore e regista oltre che produttore, nonché membro della Hollywood Creative Alliance e dell’European Film Academy, mostrando come sia possibile anche per una piccola città del sud Italia raggiungere grandi traguardi.

Voce Spettacolo ha infatti consolidato il proprio ruolo come ponte tra l’Italia e Hollywood, contribuendo alla crescita del settore cinematografico e portando il nome di Matera nell’industria cinematografica internazionale.

Un successo che conferma come Matera, già simbolo di cultura e cinema (basti ricordare che nella celeberrima città dei sassi venne girata “La Passione di Cristo” di Mel Gibson), continui a essere un punto di riferimento anche per la settima arte e in tal senso Nicoletti sta rafforzando la propria produzione negli States.

 

Quando hai iniziato ad appassionarti al mondo del cinema?

Il cinema ha sempre avuto un ruolo centrale nella mia vita, sin da quando ero bambino. Ricordo distintamente le prime volte in cui mi sono lasciato trasportare da una storia sullo schermo, sentendo che quel linguaggio visivo ed emotivo aveva qualcosa di universale, capace di parlare a tutti ma anche profondamente intimo. La vera svolta è arrivata quando ho deciso di trasformare questa passione in un lavoro: fondando Voce Spettacolo, una realtà di produzione e distribuzione cinematografica. Da allora, il mio obiettivo è stato quello di far arrivare lontano le storie che meritano di essere viste. Accompagnare un corto fino alla vittoria del Premio Oscar è un’esperienza che cambia per sempre la percezione del cinema: ti rendi conto di quanto sia potente la forza dei sogni.

 

Cinque film che ti hanno ispirato o destabilizzato?

La mia formazione cinematografica è legata a film che hanno scritto la storia del cinema. Ecco cinque titoli che porto con me:

1-Scarface di Brian De Palma: una parabola tragica sulla fame di potere e sulla solitudine, con un Al Pacino leggendario.

2-Carlito’s Way, sempre di De Palma: malinconico, elegante, un gangster movie che parla di redenzione e di destini già scritti.

3-Il Padrino di Francis Ford Coppola: un capolavoro assoluto. Ogni inquadratura, ogni dialogo è parte di una lezione di cinema e umanità.

4-Rambo di Ted Kotcheff: dietro la figura iconica c’è una riflessione potente sulla guerra, il trauma e l’alienazione.

5-Il Signore degli Anelli di Peter Jackson: un viaggio epico, visionario, che mi ha fatto capire quanto il cinema possa costruire mondi e lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo.

Cosa significa per Matera avere una casa di produzione cinematografica internazionale?

Significa sfidare il concetto di periferia. Matera è una città che ha già dimostrato di essere una grande scenografia naturale, ma il mio obiettivo è far sì che da qui partano anche contenuti, idee, progetti. Avere una realtà di distribuzione o produzione internazionale a Matera vuol dire affermare che la qualità non è una prerogativa dei grandi centri metropolitani. È un atto di resistenza culturale e una scelta di radicamento: rimanere con i piedi ben piantati nella propria terra, ma con la testa e la visione orientate al mondo. La sfida è rompere lo stereotipo della provincia come margine creativo. È possibile fare cinema ad alti livelli senza doversi spostare per forza a Roma. E, paradossalmente, è proprio grazie a questa radice profonda che siamo riusciti a raggiungere l’Academy e ad avere un impatto a livello globale.

 

Quali sono le principali criticità del cinema italiano? E quelle del cinema statunitense?

Il cinema italiano fatica a rinnovarsi: c’è ancora troppa dipendenza dai meccanismi dei bandi pubblici, troppa attenzione a dinamiche interne e troppo poca al pubblico. Si rischia di produrre per dovere, non per urgenza creativa. I giovani autori faticano a trovare spazio e il pubblico, a sua volta, si allontana. Bisognerebbe scrivere storie che parlino al mondo attraverso l’analisi di tematiche universali. Il cinema statunitense ha una struttura industriale impressionante, ma anche un sistema molto selettivo, dove tutto ruota intorno alla logica del Box Office. Attualmente Hollywood sta affrontando una crisi senza precedenti, dovuta anche all’avvento dell’AI. Tuttavia, al momento c’è un’energia creativa pazzesca nella scena indie americana, e quando riesci a entrare in quel mondo, scopri una passione per il cinema che è contagiosa soprattutto perché ti accorgi di quanto la macchina sia efficiente e meritocratica.

 

  1. Puoi svelarci qualche retroscena durante la Notte degli Oscar che ti ha coinvolto direttamente?

Uno dei momenti più significativi l’ho vissuto sul Red Carpet, prima dell’ingresso ufficiale nel Dolby Theatre. Ho incrociato diversi esponenti dei più importanti media americani che si occupano dell’Award Season, oltre che le Star hollywoodiane, alcune delle quali hanno apprezzato il nostro lavoro. È stato un momento di legittimazione importante. La campagna Oscar è stata estenuante, a volte anche conflittuale internamente, ma quando mi sono trovato lì, con l’abito da sera a rappresentare l’Italia, mi sono reso conto che ogni notte insonne ha avuto senso.

 

  1. Prossimi progetti?

Stiamo rafforzando la nostra presenza a Los Angeles: abbiamo annunciato il nuovo programma di qualificazione di cortometraggi per la prossima stagione degli Oscar. I registi e produttori interessati possono iscrivere e candidare le loro opere direttamente sul sito di Voce Spettacolo. Al tempo stesso stiamo per avviare una serie di distribuzioni internazionali di opere con partner e produttori americani. Il futuro? Continuare a far volare le storie, da Matera al mondo. Inoltre su Amazon è disponibile ‘Dagli esordi a Hollywood‘, una guida pratica alla distribuzione cinematografica. Si tratta del primo manuale in Italia che racconta la mia decennale esperienza nella distribuzione e nel percorso Oscar, offrendo strumenti concreti per chi vuole entrare in questo mondo con metodo e consapevolezza.

Un libro per Paola Cortellesi e co.

Solitamente i premi cinematografici sono vincenti perché in un modo o nell’altro fanno presa anche su coloro che del cinema non sono appassionati. Tuttavia la premessa per l’edizione 2024 dei David di Donatello (come è stato per gli Oscar del resto) è che la familiarità degli spettatori più o meno consapevoli con determinati film sia aumentata e si riscontra una diffusa familiarità con molti film grazie alla pubblicità dei media.

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Nastri d’Argento 2023: Bellocchio e Moretti guidano le nominations con due film superficiali e fuorvianti

Rapito di Marco Bellocchio e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, sono i film che hanno ottenuto le maggiori candidature ai Nastri d’argento, che saranno consegnati martedì 20 Giugno a Roma nell’arena del Maxxi.

Se il film di Bellocchio racconta di una vicenda nota su cui nel 1996 è stato pubblicato un libro, Prigioniero del Papa Re, di David Kertzer e, più recentemente, Il caso Mortara di Daniele Scalise, da cui è tratto il film, omettendo molte verità per spirito anticlericale, quello di Moretti, dove Moretti uno e trino parla di Moretti in un turbine di spocchia e autoreferenzialità, in riferimento all’insurrezione ungherese, sia pure nell’ottica legittima della finzione, offre una lettura epidermica e fuorviante.

Poco prima che l’estensione dello Stato pontificio fosse ridotta drasticamente dall’Unità d’Italia, nelle Romagne, il bambino ebreo Edgardo Mortara, apparentemente in punto di morte, fu battezzato di nascosto dalla giovane domestica cattolica, in servizio presso la famiglia dei suoi genitori. Venutone a conoscenza, nel 1858 l’Inquisitore della città di Bologna ordinò di sottrarlo con la forza alla famiglia perché fosse educato secondo la dottrina cattolica. Pio IX approvò. In seguito, Edgardo Mortara divenne sacerdote e si attivò per la conversione degli ebrei, fatto Bellocchio evitare di considerare nel suo film, sostenendo come gli ebrei, che la conversione non fu sincera.

Mentre Edgardo cresceva nella fede cattolica, il potere temporale della Chiesa stava per terminare. Tale episodio sembrava proprio essere l’emblema del cambiamento storico, nonché un piatto succulento per Cavour e Napoleone III che avevano in odio la Chiesa. Pio IX, invece, era molto preoccupato per l’ormai imminente fine dello Stato pontificio, soprattutto perché convinto che l’unione tra potere temporale e potere spirituale portasse grande beneficio ai suoi sudditi, e imporre con la forza la “salvezza” del piccolo Mortara gli sembrò un dovere in quel momento.

Un film non è un’opera di storia, e Bellocchio mostra un aspetto umanamente importante della vicenda: Pio IX si affezionò sinceramente ad Edgardo Mortara, ma non mostra come La Storia rese prigioniero il Papa di una concezione errata circa l’uso della forza materiale per imporre un bene spirituale, attribuendo la colpa al cattolicesimo stesso, nemmeno tanto all’uomo Pio IX.

Tuttavia oggi un caso Mortara non potrebbe più ripetersi perché nessun cattolico approverebbe il rapimento di un bambino ebreo battezzato in articulo mortis. All’epoca di Pio IX nello Stato pontificio si praticava la pena di morte, oggi la Chiesa cattolica è in prima linea nel chiederne ovunque l’abolizione.

In Rapito si ignora che è la fede stessa a cambiare i credenti, sono loro a cambiare non essa. Sono gli esseri umani ad evolversi. I dogmi sono i medesimi ma vengono meglio compresi di quanto lo fossero un secolo fa. Muovendosi tra horror e dramma esistenziale costruito su immagini potenti, Rapito è portato avanti da Bellocchio come una storia di identità negata.

Lo stesso Morara affidò al suo Memoriale “Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX”, parole di difesa per Pio IX denunciando le strumentalizzazioni subite da parte liberale, e confessando come non si sia mai sentito privato della propria identità, semmai sempre attratto dal cristianesimo grazie alla presenza della domestica.

La prospettiva cattolica si basa su una gerarchia che non è possibile scartare se non scardinando l’impianto stesso della dottrina della fede: quando un diritto di ordine naturale (quello dei genitori) contrasta con un altro di ordine soprannaturale (il battesimo), è questo, necessariamente a prevalere” e Bellocchio, che pare davvero non abbia letto il Memoriale di Mortara, ha preferito ragionare su altre tematiche, con approccio laicista, piuttosto che focalizzarsi senza pregiudizi sulla sensibilità del XIX secolo.

Nanni Moretti invece scivola sulla questione insurrezione ungherese. Il protagonista di “Il sol dell’avvenire” straccia con un gesto simbolico il ritratto di Stalin, e interpreta ingenuamente o faziosamente, la rivolta del popolo ungherese come un moto d’indipendenza patriottica e la sanguinosa repressione messa in atto dai carri armati sovietici come un tragico errore dello stalinismo. Moretti inoltre, soprassiede sul fatto che le dissociazioni in realtà ci furono, e coinvolsero nomi di autorevoli dirigenti e intellettuali (da Sapegno a Calvino e Silone) venendo, peraltro, subito silenziate dall’ortodossia dominante.

Moretti rievoca frangenti storici che soprattutto in Italia sono stati affrontati solo da Indro Montanelli  ne “I sogni muoiono all’alba” e in Europa dall’ungherese di Màrta Mészàros ne “L’uomo di Budapest”.

Eppure esistono racconti e rivisitazioni di scontri cruenti, esecuzioni sommarie, summit segreti, sequestri, deportazioni del periodo della rivoluzione ungherese che si presterebbero bene a intricate storie sconosciute per il grande schermo.

 

Nastri d’Argento’23: Bellocchio e Moretti in pole ma i due film non convincono – La Discussione

Helmut Berger, bellezza gelida ed inquieta della settima arte

Un incandescente bagliore; è stato questo Helmut Berger nella storia del cinema italiano. L’attore austriaco, scomparso lo scorso 18 maggio, ha legato per sempre il suo nome a quello del grande regista italiano Luchino Visconti, la cui poetica si sposò perfettamente con il talento e la bellezza ultraterrena e inquieta di Berger.

Sotto la direzione di Visconti, Berger interpretò in modo magistrale protagonisti dalla personalità complessa e contorta, che lo rispecchiavano. Dopo di lui, è difficile poter dire con certezza di aver assistito ad una medesima espressione di sentimenti ed emozioni opposte: lo sguardo dell’attore esprimeva una dolcezza infinita mentre l’increspatura delle labbra comunicava cinismo e una certa dose di crudeltà. Il tutto nella stessa inquadratura.

Visconti scavò profondamente nell’interiorità di Helmut Berger fino a fare emergere la sua duplicità caratteriale che lo ha sempre contraddistinto come attore. Dopo Visconti nessun regista è più riuscito a valorizzare le enormi potenzialità istrioniche di Berger, che ha sempre amato definirsi la vedova di Visconti.

Nato a Salisburgo nel 1944  da una famiglia di albergatori, Berger non proseguì mai la strada battuta dai genitori, ma si ritrovò presto, grazie alla sua bellezza seducente ed eterea, a lavorare come modello mentre prendeva lezioni di recitazione. Poi l’arrivo in Italia, inizialmente a Perugia, dove frequentò i corsi di teatro all’Università per stranieri, per poi decidere di tentare la fortuna a Roma.

Fu proprio nelle capitale che Berger iniziò a lavorare come assistente cinematografico e qui, nel 1964, durante le riprese del film Vaghe stelle dell’Orsa, conobbe Luchino Visconti. Fu proprio grazie al sodalizio artistico e personale con il cineasta milanese che Berger ottenne il suo primo ruolo, nell’episodio (diretto da Visconti) La strega bruciata viva del film Le streghe (1967). Appena un anno dopo, nel 1968, arrivò la sua prima parte da protagonista nel film I giovani tigri, diretto da Antonio Leonviola.

Ma il vero successo arrivò con La caduta degli deì (1969), primo capitolo della “trilogia tedesca” di Visconti, dove Berger fu il luciferino e depravato Martin von Essenbeck, ruolo che gli valse una nomination al Golden Globe. Sempre con il regista milanese, vestì i panni dell’infelice Ludovico II di Baviera in Ludwig (1973) e quelli del cinico Konrad in Gruppo di famiglia in un interno del 1974. Qualche anno prima, nel 1970, l’attore ebbe anche l’opportunità di lavorare con Vittorio De Sica nel celebre Il giardino dei Finzi Contini (vincitore del premio Oscar 1972 come miglior film straniero) e, nel 1972, con Nelo Risi nel film La colonna infame.

Con la scomparsa di Visconti, l’attore austriaco iniziò a soffrire di depressione che lo portò a dichiarare di “essere divenuto vedovo a soli 32 anni“. Iniziò ad assumere alcool e sostanze stupefacenti, conducendo una vita sregolata, che lo costrinse a più di una sosta forzata, dopo che nel 1977 rischiò la morte per eccesso di droga.

Le offerte da parte del cinema iniziarono a scarseggiare e Berger decise di gettarsi a capofitto sul piccolo schermo, tornando in scena nell’adattamento televisivo del romanzo Fantomas dell’amico Claude Chabrol (1980), sceneggiato che ebbe il merito di riaccendere su di lui le luci dei riflettori. Durante gli anni Ottanta partecipò poi alla terza stagione statunitense della serie tv Dynasty, nel 1985 al film di guerra Cold Name: Emerald, per poi tornare in Italia nel 1989 e interpretare Egidio nello sceneggiato tv i Promessi Sposi e il ruolo del banchiere svizzero Keinszig ne Il Padrino III di Francis Ford Coppola (1990).

La produttrice Marina Cicogna, ha sempre sostenuto che il rapporto che legava Berger a Visconti era basato sulla crudeltà e che i suoi eccessi facevano parte della vita dell’attore anche prima della morte di Visconti, la persona più autodistruttiva che abbia mai conosciuto la produttrice: portava via quello che poteva dalla casa di Visconti; la situazione si appesantì quando Berger scoprì che, a parte una casa, non aveva avuto una lira da Luchino, che scriveva un testamento dopo l’altro.

«A Helmut non fregava niente di nessuno, dal punto di vista sentimentale», ha inoltre affermato Marina Cicogna. Sembrerebbe che la relazione tra tra Visconti e Berger fosse a tutti gli effetti un legame di subordinazione al regista milanese, d’altronde la maggior parte degli attori coinvolti nelle sue produzione, sono stati marchiati a vita, pagando un dazio artistico, emotivo e psicologico; quasi avessero assorbito l’animo di Visconti, la sua solitudine, il suo ingegno, la sua fatica mentale, i suoi sadismi, le sue mane, le sue concupiscenze, i suoi strazi, la sua stanchezza del sole, come Macbeth. E come Berger, che più di chiunque altro attore viscontiano, è stato l’emanazione all’eccesso del lato più oscuro del regista, il cui unico vero oggetto di adorazione portato verso l’illimite del fanatismo, era sua madre Carla Erba, nipote di Carlo Erba, fondatore dell’omonima industria farmaceutica.

Senza dubbio il legame tra l’attore e il regista, si presta volentieri ad una storia cinematografica che narra di un grande regista pigmalione in analisi con Lacàn e un giovane arcangelo e spietato in cerca di fortuna; l’uno è stato la fortuna per l’altro e viceversa. Un melodramma lirico dai risvolti psicologici alla maniera di Visconti dove Berger è la vera incarnazione del Male, come Martin de La caduta degli dei, gelido e violento, personaggio sadico e sorridente che ricorda Stavrogin dei Demoni di Dostojevskji quando violenta una bambina ebrea e non fa nulla per impedirne il suicidio, e il giovane Torless di Musil, il personaggio di Ludwig, alter-ego di Visconti, esteta decadente, scialacquatore e folle, e al contempo la quintessenza della malinconia e della soave inquietudine propria del personaggio di Alberto nel Giardino dei Finzi-Contini: Lo so a cosa pensi… pensi che mi manca la gioia di vivere. Ma chi… chi me la può dare?

 

 

 

 

“Non ci resta che Massimo” – Domani in edicola con “Il Mattino” il Libro per i 70 anni di Massimo Troisi

Da Carlo Verdone a Ferzan Ozpetek, da Massimo Ranieri a Maria Grazia Cucinotta. Ci sono le testimonianze di numerosi personaggi della cultura e dello spettacolo nel nuovo volume, “Non ci resta che Massimo”, che il quotidiano “Il Mattino” darà in omaggio ai suoi lettori sabato e domenica 18 e 19 febbraio per celebrare i 70 anni dalla nascita di Massimo Troisi (San Giorgio a Cremano, 19 febbraio 1953 – Roma, 4 giugno 1994).

La presentazione del volume si è svolta all’Università Suor Orsola Benincasa, sede dal 2015 di una prestigiosa Scuola di Cinema e Televisione diretta dal produttore de “La grande bellezza” Nicola Giuliano.

“Dopo le fatiche de “Il postino”, non è stato disatteso il tuo ultimo, spontaneo, genuino saluto: quel “Ricordatevi di me”, sussurrato come un fruscio di foglie, è rimasto appiccicato alla leggerezza della tua anima e ti lascia vivere. Quella richiesta è diventata “legge morale”, capace di dissetare – per noi di questo mondo – l’arsura della tua mancanza”. Le toccanti parole della sorella Rosaria, contenute in una lettera a Massimo Troisi raccolta all’interno del libro de “Il Mattino” hanno aperto la presentazione grazie al reading attoriale di Nadia Carlomagno, direttore del Master in Teatro, pedagogia e didattica dell’Università Suor Orsola Benincasa.

Ricomincio da tre e mai da zero – ha spiegato il Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro – deve essere la lezione di Troisi da seguire anche per lo sviluppo di una “Scuola pubblica dei mestieri del cinema” in Campania di cui si discute in questi giorni. Una scuola che potrà certamente ‘ricominciare’ il suo lavoro ripartendo dalle istituzioni pubbliche e private già attive da anni in Campania nell’alta formazione nel settore cinema come l’Accademia di Belle Arti di Napoli e l’Università Suor Orsola Benincasa“.

Parole commosse nel ricordo di Massimo Trosi da parte dei curatori del volume. Titta Fiore nel suo intervento ha ricordato l’umiltà e la sobrietà con cui Troisi ritirò alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1989 l’indimenticabile Coppa Volpi che divise ex aequo con Marcello Mastroianni per la miglior interpretazione maschile in “Che ora è” di Ettore ScolaFederico Vacalebre ha ricordato lo straordinario sodalizio amicale e musicale con Pino Daniele che firmò l’indimenticabile colonna sonora di “Pensavo fosse amore …invece era un calesse”.

“Ieri, oggi e domani” è il titolo della collana di libri con la quale da anni il quotidiano “Il Mattino” sta raccontando i personaggi che hanno fatto la storia della città di Napoli attraverso la cultura, il cinema, il teatro o lo sport (da Totò a Maradona, da Sophia Loren a Paolo Sorrentino). E Troisi, come ha ricordato lo storico critico cinematografico de “Il Mattino” Valerio Caprara, “sotto il Vesuvio si trova in un ideale piedistallo su cui troneggiano con lui le icone di Totò ed Eduardo”.

Un attestato di stima travolto dal lunghissimo applauso della Sala degli Angeli del Suor Orsola che ha riunito per il settantesimo compleanno di Troisi giornalisti, studenti, docenti, attori, musicisti e semplici appassionati di ‘Massimo’. Rimasto nel cuore di tutti, come ha ricordato il direttore del Mattino, Francesco De Core, che ha firmato la prefazione del volume “Non ci resta che Massimo” sintetizzandone il senso. “Confesso: non so immaginarmelo Troisi a settant’anni. Magari con i riccioli più radi e imbiancati, e quel volto un po’ scavato che lo avrebbe reso simile a Eduardo. Ma almeno questo la morte, a dispetto della sua lugubre indecenza, può lasciarci a futura memoria: un volto eternamente giovane a far tenera compagnia alle stagioni che passano. Massimo, con le sue intuizioni, le sue battute, il suo spleen, la sua risata, il suo garbo. La mia, la nostra vita, quella di quanti lo hanno conosciuto e sono stati attraversati dalla sua magia, oggi riuniti in questo libro che è insieme omaggio e ricordoSì, davvero: non ci resta che Massimo“.

In ricordo di Monica Vitti, la sola e unica mattatrice italiana

Diversi giornali trattano la morte di Monica Vitti, scomparsa oggi a 90 anni, in relazione alla sua malattia titolando squallidamente “Era irriconoscibile”, “Era malata da tempo”, come se quello che si dovesse ricordare di lei sia il suo cambiamento fisico e la sua malattia, l’ultima parte della sua vita lontano dai riflettori e dal cinema.

Monica Vitti è stata una grande attrice, una professionista, una donna bellissima, simpatica, intelligente, rigorosa, cordiale, amatissima dagli italiani, le sue pellicole rimarranno nella storia e lei continuerà ad essere un punto di riferimento per le aspiranti attrici. Se va un pezzo del nostro cinema tanto apprezzato all’estero, se ne va una figura unica nel panorama del nostro cinema, di tutte le epoche. Non era, né si considerava, un monumento. I ruoli le aderivano come gli abiti che indossava. Tutti. Era tanto intensa, completa, presente a tutta la gamma delle parti, che a volte lasciava la sua bellezza indietro. Era lei che la controllava, e non voleva che invadesse tutto il resto che le apparteneva.

Era di una bellezza fuori dagli schemi, Monica Vitti, nella stagione delle maggiorate. Una bellezza inconsapevole, intellettuale, magnetica e celata, mai esibita, volgare o pacchiana, al servizio dei ruoli che interpretava. Dei film cui ha preso parte come protagonista, celebri sono L’avventuraLa notte e L’eclisse, fra il ’60 e il ’62, dove diede vita a quel personaggio triste, ferito, confuso, silente, anaffettivo solo in apparenza.

Michelangelo Antonioni doveva molto a Monica Vitti, sua compagna anche nella vita, considerata cinematograficamente da lui solo in vesti drammatiche. Ma Monica possedeva anche un grande senso dell’ironia che seppe mettere a frutto, cambiando registro. Assunse la commedia con la stessa spigliatezza del dramma. Indimenticabile il ruolo della donna siciliana d’onore che la Vitti ci ha consegnato nel film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, come pure quello di Teresa la ladra.

Monica Vitti in Deserto rosso

Tra “alienazione” ed ironia

Fa donna difficile che non riusciva ad inserirsi nella realtà, a dare ordine alla cose, Monica Vitti diventò l’attrice “brillante” più popolare del cinema italiano degli anni ’60 e ’70, che invece riusciva a dare senso alla realtà avvalendosi di ironia e leggerezza, grazie a film come Alta infedeltà diretto da Luciano Salce, Le bambole di Dino Risi, Ti ho sposata per allegria, ancora di Luciano Salce. Nel 1969 interpretò Amore mio aiutami: fu il primo film di e con Alberto Sordi, che metteva alla berlina la falsa emancipazione del matrimonio in Italia.

L’anno seguente fu la protagonista de Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola accanto a Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. Si fece dunque strada come la “mattatrice” incontrastata, la risposta femminile al mattatore Vittorio Gassman, unica donna capace di competere con i grandi comici della commedia all’italiana. Nel 1973 fu la protagonista di Polvere di stelle, esilarante commedia cinematografica diretta e interpretata da Alberto Sordi.

Nel 1966 a chiamarla fu un maestro l’americano, Joseph Losey che le assegnò il ruolo di protagonista in Modesty Blaise – La bellissima che uccide, dove Monica era un agente segreto, una sorta di parodia di ‘007.

Nel 1974 venne chiamata da Luis Bunuel ad interpretare la signora Foucauld in Le Fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà). In tutto Monica Vitti ha ricevuto tre Nastri d’argento e cinque David di Donatello. Il teatro è stato un suo grande amore: nel 1986 recitò accanto a Rossella Falk in La strana coppia, per la regia di Franca Valeri; due anni dopo  in Prima pagina di Hecht e MacArthur, diretta da Giancarlo Sbragia.

Io so che tu sai che io so

E’ stata autrice di due soggetti cinematografici: Flirt, scritto nel 1983 e Francesca è mia, del 1986. Non contenta di essere diventata l’attrice numero uno delle commedie brillanti all’italiana, nel 1989 diresse anche un film, Scandalo segreto, che interpreta al fianco di Elliott Gould e Catherine Spaak.

Ma cosa pensava Monica Vitti del cinema del suo tempo? In un’intervista ad Oriana Fallaci, l’attrice confessò di amare i film western, si divertiva con i saloon, le sparatorie, le cavalcate e partecipava emotivamente al film che guardava, agitandosi e urlando.

Alla Vitti inoltre, soprattutto nel periodo antonioniano, veniva affiancano il termine alienazione. Alla domanda della Fallaci su cosa fosse l’alienazione, la Vitti rispose che non lo sapeva, neppure si era posta mai il problema di domandarsi da dove provenisse, se dal Capitale di Marx o dai Vangeli e che i giochi intellettuali non era capace a farli, anzi si professava ignorante:

<<Di cosa crede che io parli con Michelangelo (Antonioni, suo compagno)? Di incomunicabilità?>>?

Incomunicabilità, altra parola chiave, non solo del cinema di Antonioni ma del nostro tempo e intorno alla quale la Vitti aveva le idee chiare e le espose in questi termine alla Fallaci:

<<Analizziamo L’eclisse che è il film più difficile. Che storia racconta? Quella di una ragazza che non ama più un uomo e lo pianta. Quando lo ha piantato, ne trova un altro. I due si piacciono, credono alla possibilità di un amore e si danno un appuntamento. A questo punto però ad entrambi prende una paura, quella impegnarsi troppo, forse di farsi imbrogliare, di subire una delusione e non vanno all’appuntamento. Stop. Ma siccome Antonioni è un intellettuale, ci deve essere il sottofondo>>.

L’eclisse

Monica Vitti spiegò candidamente e semplicemente la differenza della funzione dell’attore e del cineasta e di come Antonioni venisse spesso frainteso e anche lei, considerata un’ambizione che pur di fare cinema di spessore, sacrificasse la sua natura di donna estroversa ed ironica, pensiero smentito dal successivo capitolo cinematografico della carriera di Monica Vitti, un’alienata con riserva e di grandissimo talento. Un esempio per tutti coloro che vogliono fare cinema per amore dell’Arte, non per il successo, con passione, e serietà, senza accettare compromessi.

 

 

Il regista Giuseppe Gimmi: riflessioni sul cinema, tra Sorrentino, Capuano e Maradona

Occuparsi di cinema, realizzare un film è come viaggiare sotto una scia di stelle. Sono due anni che approfondisco il cinema attraverso lo studio di sceneggiatura e regia, Per le vie del paradiso” è stato il mio primo cortometraggio che mi ha permesso attraverso l’uso delle immagini e di voci narranti di avvicinarmi, ad alcune mitologie della mia vita. Oggi vorrei strettamente parlare di alcune figure importanti, che hanno cambiato il mio pensiero, e la mia vita. Sotto il segno di Paolo Sorrentino, Antonio Capuano e Diego Armando Maradona
Che cosa avete contro la nostalgia? L’unico svago che resta contro la paura del futuro”. Su questa frase io mi rispecchio; la bellezza del cinema di Paolo Sorrentino per me, racchiude la debolezza dell’essere umano, con le sue fragilità, una sintesi perfetta dei pensieri scadenti che ognuno di noi fa, assorbito da tale ignoranza di ignorare il bello, cioè tutto quello che ci circonda ma soprattutto la nostra anima veritiera, perché da qui parte tutto.
Un giovanissimo Paolo Sorrentino
Riflettere su se stessi, e sicuramente un allenamento che noi tutti dovremmo fare ogni giorno, cosi come i personaggi sorrentiniani analizzano la loro vita attraverso un grandissimo procedimento di scrittura. La nostalgia dei personaggi la rivediamo nei luoghi, alcune volte influenzano le nostre scelte o addirittura ci posso schiacciare in un buco nero dove difficilmente si riesce a tornare a galla. Il cinema è verità, per me Sorrentino é verità, dove attraverso il suo modo di vedere le cose riesce a trasportarti in una realtà confusa, quindi la realtà di tutti i giorni.
Avvicinandomi al suo cinema qualcosa che sicuramente mi ha impressionato è la forza dei personaggi attraverso lo sdoppiamento di facce (Toni Servillo) che nello stesso tempo fanno riflettere su una caratteristica veritiera della nostra vita, le maschere che indossiamo ogni giorno per essere “perfetti” alla massa senza  pensare a noi. Il cinema è senza regole per me, è tutto questo ho capito grazie alle sue pellicole, che si può descrivere la noia, i difetti, i pensieri, la gioia di vivere tutto attraverso un solo binario, quello della verità di essere se stessi, e di non diventare troppo abili per paura di convincersi di sapere tutto dalla vita.
“Non ti disunire” esclama Antonio Capuano a Fabietto Schisa nel film È Stata la mano di Dio. Essere fedeli a se stessi anche quando tutto va male. Parole, gesti e affermazioni, ma alla fine chi siamo noi? Ho conosciuto Antonio Capuano, in un breve incontro cinematografico a Bari. Una persona molto intelligente ma soprattutto un uomo che racconta attraverso una visione incredibile l’essere umano. Cerco di fare le cose con molta onestà. Onestà può essere una parola fastidiosa: cerco di fare le cose come le penso e come le sento, senza nascondigli, come giocano i bambini, questo è Antonio Capuano, dove la verità tocca come corde musicali la nostra anima e ci fa scrivere storie forti, dove attraverso gli occhi puoi toccare il personaggio, addirittura puoi sentirti travolto da tutto questo, perché devi essere accanito della vita. È una magia, come dicevo all’inizio, si perché fuori se alzi gli occhi al cielo senti l’odore della libertà.
“Maradona era una divinità” esclama Paolo Sorrentino in un’intervista. Diego Armando Maradona, dai capelli arruffati, con il volto angelico e un cuore d’oro come i suoi piedi. Il calcio è Diego Armando Maradona. Maradona è uno stato d’animo.
Siamo nel 1984 di un 5 Luglio che resterà nel cuore di tutti gli appassionati di calcio, l’arrivo di Maradona a Napoli, un riscatto, qualcosa di eccezionale che si unisce ad un sogno. L’uomo può superare i suoi limiti, può fondere la sua volontà e arrivare ovunque, quasi a toccare il cielo come ha fatto Maradona, fisico e metafisico questa è la differenza tra gli altri. È difficile raccontare una divinità, perché non la puoi raccontare ma la puoi solo sentire dentro, questo sei per me Diego Armando Maradona.
Giuseppe Gimmi

‘È stata la mano di Dio’, il cinema necessario di Paolo Sorrentino tra reale e immaginario

Sguardo caldo e mano salda per condurti nei segreti di un’autobiografia, certo, ma anche alla fonte di un cinema sentito dalla prima all’ultima sequenza come necessario. Dunque non a caso Sorrentino costruisce “È stata la mano di Dio” su tre interruttori che danno luce a un affresco perfettamente bilanciato tra reale e immaginario: il mare che rappresenta il vero cielo di Napoli, il miracolo di Maradona e l’avvento di un mentore come il cineasta Antonio Capuano, autoctono per scelta di libertà, il più mansueto degli incazzosi, l’antidoto vivente contro la diffusione dello SPAIP.

Al centro del ritratto estroso e sarcastico della tranquilla vita medioborghese della famiglia Sorrentino alias Schisa, Fabietto, l’alter ego di Paolo, deve però affrontare, manco fosse un eroe omerico, un dolore pressoché insostenibile, un’assurda disgrazia forse destinata a funestare tutti gli anni a venire del già spaesato adolescente.

La scorrevolezza del ritmo, la sobrietà delle musiche, la duttilità della fotografia e la pertinenza di costumi e scenografie riescono a garantire sino al finale il coinvolgimento, però è logico che una cesura così tragica provochi un mutamento delle atmosfere e il connesso adeguamento del respiro e dei toni del film. È pertanto alquanto strano che qualche recensore e qualche spettatore imputino a un film che assomiglia pour cause a un percorso marino contrassegnato dalle sue anse, le sue coste, i suoi approdi e i suoi abissi, l’affievolimento di una presunta “seconda parte”: la quale esiste, ovviamente, sul piano drammaturgico, ma non opera ribaltamenti su quello stilistico.

In un contesto polifonico i contributi degli interpreti non si dovrebbero neanche suddividere, ma il cinema di Sorrentino è spontaneamente generoso, non genera macchiette bensì caratteri, finge la verosimiglianza attaccandovi sempre di sguincio il cartellino del fantastico: Servillo è come al solito impressionante per come è in grado di modellare con cronometrici tocchi l’affabilità cameratesca del pater familias; Teresa Saponangelo, eccezionale in doppia modalità perché recita per il personaggio ma contemporaneamente per come (ri)vive nell’amore del figlio; Luisa Ranieri, oltre che fenomeno da studiare nei convegni di genetica (diventa sempre più bella col passare degli anni), molto concentrata in sequenze nient’affatto facili e via via tutti gli altri, dal Fabietto di Scotti al fratello di Joubert, dal Franco di Gallo al Capuano di Capano, dall’Alfredo di Carpentieri alla Pedrazzi nel ruolo dell’impagabile baronessa: vedere per credere come un episodio estremamente spinto si trasformi in una pagina squisita di cinema, dove, cioè, l’arredamento gremito di polveroso e smorto lusso (non manca la riproduzione in bronzo del pescatorello di Gemito), le movenze da lady Frankenstein della stessa, i suoi comandi da navigatrice esperta nell’atto sconosciuto dell’amplesso fanno davvero percepire in sala il fatidico “odore delle case dei vecchi” che è una delle battute ereditate dai dialoghi sorrentiniani d’eccellenza.

Tra i tanti e straripanti omaggi dedicati al calciatore argentino che volle farsi re, riannodati a un’età d’oro che ha preso la forma di una nuvola di fuoco piazzata sul cono del Vesuvio, quello di Sorrentino è certo il più commovente: niente analisi tecniche o risse da talk show, bensì un’esplosione incontenibile d’ebbrezza popolare, l’orgia della devozione al culto più puro, quello del talento e all’obiettivo finale più nobile, quello della leggenda.

Gol “falso” e gol vero (inestimabili entrambi), cosa importa? La grande bellezza al servizio della nostra condizione di voyeurs assomiglia a quella del cinema, falsa/vera per definizione, magari la stessa del capodopera “C’era una volta in America” che il protagonista cerca ogni volta invano di godersi in cassetta VHS.

L’identico meccanismo che genera l’apparizione del munaciello (ovviamente anch’esso falso/vero) inseguito dal narratore a Marechiaro nei tunnel allagati tra le rovine classiche e gli scogli, ricevendone in premio una sorta di breviario esistenziale: Capuano e la perseveranza, Capuano e la libertà, Capuano e l’indignazione, Capuano che affronta a brutto muso l’adepto… “O tiene ‘nu poco e curaggio?”. Succede proprio così: il coraggio -in questo film universale nonostante o forse a causa delle metafore ossessive e i miti personali- l’acquisisce in extremis proprio l’autore infischiandosene delle pennellate potenzialmente (politicamente) scorrette su donne, desiderio e sesso e cercando sempre e solo di non disunirsi come recita l’ultimo strillo del mentore prima di tuffarsi in mare aperto.

Sì, il mare. Perché la realtà sarà pure scadente ma non lo è il karma di Paolo/Fabietto ricalcato sul capitano della conradiana “Linea d’ombra”, quella che separa la giovinezza dall’ingresso nella maturità e la catartica coscienza di sé.

 

E’ STATA LA MANO DI DIO

 

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