“Nessuno si salva da solo”: l’abulimia dei sentimenti

“Nessuno si salva da solo” (2015), Alle spalle di un amore finito: il lungo flashback matrimoniale ingoiato durante una cena.

Delia e Gaetano si conoscono per caso. Quando si incontrano lui pratica la boxe, è un sognatore indefesso. Lei invece è una nutrizionista rigida e scontrosa, lavora nella palestra in cui Gaetano si allena. Inizia la traboccante passione, che divora ogni altra cosa rende i due dolci schiavi di se stessi. Vivono ogni momento con intensità e sincerità reciproche e fanno progetti. Questo almeno all’inizio. L’amore intenso si tramuta in promessa d’eternità quando i due si sposano. Nascono due bimbi: Cosmo, il più grande, e Nico. Dopo innumerevoli dolori e il tradimento clou, i due si separano. Il film si condensa in una lunga cena che, tramite flashback, ripercorre gli episodi centrali di una storia di sentimenti fulgidi e laceranti.

Nessuno si salva da solo è l’ultimo frutto dell’alleanza strategica (ma non sempre del tutto efficace) tra Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini, scrittrice ormai acclamata e amata dal pubblico. Dopo gli ottimi risultati di Non ti muovere (2004) e Venuto al mondo (2012), la coppia sforna ancora un discreto film in cui si descrive amaramente e tramite metafore visive evidenti il drammatico epilogo di un matrimonio tra due quarantenni. Grazie al soggetto di Mazzantini la rievocazione della lunga storia d’amore e di rancore tra i protagonisti è sintetizzata nelle scene di rabbia, liti, ma anche passione travolgente che trascinano il pubblico nel vortice della irrevocabilità del dolore. Come i due giovani sposi si affacciano alla nuova vita insieme, così facciamo tutti, come il mare porta e trae con sé ogni cosa trovi sul suo scialabordare. Castellitto realizza un prodotto cinematografico che potrebbe essere accusato di “muccinismo” per l’esiguità della trama: non si racconta che tramite stralci di ricordi, frasi, episodi esistenziali dei due protagonisti. Manca però l’incisività della scena madre; probabilmente frutto di una scelta intenzionale del regista che riesce comunque ad emozionare il pubblico, anche se spesso a suon di grida e concitati recosoconti.

La cena, fulcro della narrazione cinematografica, è la regina del film ma non regge per molto la sua forza. I flashback che rievocano il passato dei due spengono la forza d’impatto sul pubblico, perché parlano di una relazione sbiadita, svanita nell’armadio dei ricordi. Come se non ci fosse possibilità di scelta per i due, il futuro è una condanna alla catatonia emotiva. La fine è decisa, quasi scontata. Il soggetto di Mazzantini favorisce l’intensità voraginosa degli scambi verbali, tuttavia la pellicola non convince del tutto, permane di tanto in tanto la sensazione del già visto, già sentito. Eppure non manca la marca d’autore. Gli attori sono per lo più convincenti: vince Jasmine Trinca su Scamarcio, quest’ultimo a tratti mostra un’interpretazione un po’ spaesata e semplicistica. La regia di Castellitto non basta raccontare un dramma familiare: l’anoressia di lei, la madre-amica, i genitori hippy di lui, le promesse fatte nella passione rovente dei primi anni, la delusione cocente del dopo matrimonio, la debolezza ansiogena della protagonista, l’edonismo artistico di Scamarcio. Non è sufficiente. Si avvicendano sguardi profondi e comunicativi, momenti di alto, sinuoso e non troppo realistico erotismo, musiche congeniali come quelle  di Arturo Annecchino, e una speciale presenza attoriale di Roberto Vecchioni, uomo saggio innamorato della vita. Non mancano i richiami sostanziali come quello a Pier Paolo Pasolini: un uomo sensibile che adorava sua madre, ottima scelta in questo caso perché ci fa comprendere come Castellitto abbia puntato tutto sulla dimensione sentimentale, interiore della storia.

Con la metafora del cibo Castellitto riesce a rammentare che l’umanità è fatta di solitudini vaganti, affiancate da altre mille solitudini in strada, in pizzeria, dal medico. Ovunque siamo soli e insieme ad altri nella stessa condizione di umana impotenza. Ecco che il regista riesce in questa operazione grazie ai  primi piani sugli occhi scavati dalla depressione, dall’ansia del domani, con inquadrature infilzate nel cibo dalla famelica seduttività o inzuppate nel sarcasmo patologico del gelato in faccia, piuttosto che sui denti inferiori “mangiati” dall’anoressia. Si deduce da una scelta simile una condizione di bulimia affettiva. In effetti, il cibo è uno dei personaggi principali della vicenda. Perlomeno tratteggia l’evolversi della storia tra i due: si va dai bigné alla crema, alle carote e sedano per i bimbi per concludere con una (magra) cena-analisi. Il piatto di spaghetti sul finale sancirà poi la rinascita psicofisica di Delia, l’abbandono al presente. La cena in effetti sembra essere la misura dell’amore durante la quale rabbia, rancore, affetto, repulsione ed attrazione fisica si alternano bruscamente. Si ingoia prima l’amore, e il male che porta con sé, e poi si vomita tutto, dopo aver fatto ingordigia di schifezze. In tal caso Delia e Gaetano si svuotano di un amore terminato, per ricominciare daccapo.

Mangiare sentimenti per divorare l’anima delle persone che amano. Questo fanno Delia e Gaetano. Non si nutrono di ciò che serve per mandare avanti un rapporto di coppia ma eccedono in ogni manifestazione d’amore, strappando l’uno l’altro l’ultimo brandello di serenità. Un film sincero, perché sbatte in faccia allo spettatore dei personaggi che sono prima di tutto persone in cui può immedesimarsi. Perché siamo tutti Delia e Gaetano. Insicuri, fobici, maniacali, soli, estremisti coltivatori di attenzioni, frigidi, imbecilli e un po’ depressi, perennemente condannati alla fragilità dei tempi. Nessuno si salva da solo è il ritratto un po’ manieristico e, dal punto di vista stilistico, autoreferenziale (difetto abbastanza frequente del cinema d0autore italiano) di una generazione che: “Non ha inventato niente”, sbatte la testa ovunque per non ammettere a se stessa un fallimento inevitabile. Però Delia lo riconosce: “Siamo due falliti”.

Ma si tratta solo di questo? Una generazione destinata al più estremo nichilismo? Castellitto ha cercato di sfondare un muro già aperto: quello delle famiglie che non parlano ma urlano, guardando la tv e i nuovi o vecchi eroi (come Mike Tison), stanno ore su facebook, fabbricano idoli nocivi per l’anima. Il film è anche il quadro delle coppie che non sanno più fare l’amore, quello che si adempierebbe solo rinunciando al banale che non conta. Gli amori di questo Castellitto sono finiti ma anche sviscerati, malandati, evirati: manca loro l’equilibrio di un grande affetto che cancella ogni sopruso o vessazione che l’amante pratica all’altro. Questo film è, forse inconsapevolmente, un inno alla famiglia ormai “rubata” dall’effimero.

 

Non ci resta che piangere ritorna al cinema

1983/1984. Siamo nel pieno degli anni Ottanta quando la coppia Benigni e Troisi decide di scrivere la sceneggiatura di quello che diverrà un vero cult del cinema italiano.

Non ci resta che piangere è un film del 1984, diretto ed interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi e scritto dai due con la collaborazione di Giuseppe Bertolucci. Un successo non annunciato e forse nemmeno sperato che inizialmente non convince la critica, ma che sbanca al botteghino. Sono 15 i miliardi che dell’incasso record di quegl’anni.

Dal 2 al 4 marzo 2015, la pellicola cult è stata riproposta in circa 200 sale italiane in versione restaurata e rimasterizzata, permettendo al pubblico che tanto lo ha amato di riscoprirlo e godere della sua visione.

La sceneggiatura scritta dai due comici tra Cortina d’Ampezzo e la Val D’Orcia, ha avuto una storia travagliata ed è stata soggetta a varie modifiche prima di poter trovare la sua linea definitiva. I personaggi principali sono Saverio (Roberto Benigni) un insegnante delle elementari e Mario (Massimo Troisi) bidello nella stessa scuola.

I due amici, tanto diversi quanto uniti e solidali tra loro, si trovano bloccati di fronte ad un passaggio a livello chiuso e per aggirare l’ostacolo decidono di percorrere una strada sconosciuta. La macchina si guasta, arriva il temporale e inspiegabilmente i due si trovano catapultati nel 1492.

Lo shock iniziale destabilizza i due protagonisti che si aggirano disorientati tra le terre di Frittole. I due amici, vestiti con abiti del 1984, come la camicia hawaiana di Saverio ricorda, iniziano ad assistere così ad eventi “irreali” accompagnati poi dai loro dialoghi comici. Saverio è un uomo irriverente e sfrontato, un maestro delle elementari che non ha paura di ammettere di voler bocciare un suo alunno solo per antipatica, che accetta subito di immedesimarsi nella parte dell’uomo del Quattrocento, indossando con spavalderia i costumi e parlando con gli abitanti del luogo, addirittura alla ricerca di un lavoro. Mario invece, timido e riservato, rimane incredulo, timoroso di fronte a questo inspiegabile sbalzo spazio-temporale. Cerca in tutti i modi di ritornare a casa, anche attraverso il metodo della “convinzione”. Insomma forse con la forza della convinzione e della mente , quel qualcuno o quel qualcosa che li ha mandati lì, li potrebbe far ritornare a casa. Ma è tutto vano. Appena aperta la porta, il 1492 irrompe prepotente. La storia continua tra il susseguirsi di gag, scambi verbali “epici” ed incontri storici.

I due amici litigano in continuazione, si disturbano, ma infondo mostrano l’uno verso l’altro profondo rispetto. Anche quando Saverio geloso dell’amore sbocciato tra Mario e la giovane Pia (Amanda Sandrelli), decide di andare a fermare Cristoforo Colombo e impedirgli di scoprire l’America, non viene lasciato solo e l’amico lo seguirà anche in quest’avventura. Tra le scene indimenticabili, la lettera ai Savonarola , chiara e nota citazione della lettera scritta in Totò, Peppino e la malafemmina, che è intensa e molto divertente. L’incontro con Leonardo da Vinci (interpretato da Paolo Bonacelli), intento a far esperimenti in un piccolo laghetto, viene interrotto da Saverio e Mario che cercano di indurlo ad inventare il treno, il lapsus freudiano, il semaforo, ma sembra, con scarsi risultati. La famigerata scena della dogana, quanto mai attuale, che evidenzia l’ottusità dello Stato: «Chi siete? Dove andate? Cosa trasportate? Quanti siete?….. Un Fiorino”» talmente esilarante che nemmeno i due attori sono riusciti a montarla, come da copione, costretti quindi a lasciare il girato che li mostra ridere a crepapelle. Ed è forse questa spontaneità che ha reso la scena una delle più divertenti e memorabili del film. Il finale con l’apparizione del treno a vapore, guidato da Leonardo da Vinci indurrà i due amici ad accettare il loro futuro nel passato, ma con una buona ricompensa. Infondo si era detto di dividere per tre.

Alcuni critici hanno parlato della pellicola come di un esperimento tra i due comici (che non gireranno più altri film insieme), per rodare la loro capacità di interagire e creare quel rapporto di coppia che possa essere stimolante e divertente per il pubblico che li guarda. Ma il pubblico a volte è molto più lungimirante di grandi nomi della critica e ha capito quanto questa storia, se pur con una trama all’apparenza esile, porta con sé la simpatia di due amici dal carattere opposto, l’esilarante susseguirsi di azioni inaspettate, la spontanea mimica di Troisi e la dialettica di Benigni che, unite, hanno creato quella comicità che resta pura e semplice, ben lontana dalle facili e volgari soluzioni di molti film di oggi. Un capolavoro che merita di essere apprezzato da tutte le generazioni e che si conferma nella sua semplicità, un film che fa ridere senza pretese, ma solo per il gusto di farlo.

Addio a Francesco Rosi, regista di denuncia sociale

Si è spento ieri a Roma, all’età di 92 anni Francesco Rosi, tra i più grandi autori cinematografici che l’Italia ha avuto l’onore di avere. Ha raccontato il malaffare e  il potere italiano. Napoletano di nascita, Rosi era vedovo di Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia; lascia una figlia, l’attrice Carolina Rosi. Memorabili i film Le mani sulla città, Il caso Mattei e Cristo si è fermato a Eboli.

Dopo Pino Daniele, Napoli piange un altro suo figlio illustre, il regista Francesco Rosi, scomparso ieri, 10 gennaio durante il sonno, in una recente intervista dichiarava di voler morire mentre non se ne accorgeva; è stato esaudito. Regista impegnato, regista di denuncia, regista di inchiesta, regista di critica sociale e politica. Definizioni queste, che purtroppo oggi non trovano i loro giusti interpreti nel panorama cinematografico italiano.

Basta guardare il capolavoro sulla speculazione edilizia a Napoli negli anni del boom economico, Le mani sulla città datato 1963 per comprendere la grandezza e l’attualità di Francesco Rosi: Eduardo Nottola, impresario edile, vuole presentarsi alle elezioni nelle liste della destra e avvalersi dei suoi appoggi politici per i suoi progetti di speculazione selvaggia nelle aree edificabili. Ma un vecchio stabile crolla causando morti e feriti. Il consiglio comunale chiede la creazione di una commissione di inchiesta e gli amici di Nottola non possono impedire lo scandalo. Ne vengono fuori vigliaccherie, corruzione, omertà, malcostume amministrativo. Il film  risente del periodo in cui si preparava la politica di centrosinistra e tuttavia non esclude un recupero del protagonista, che rappresenta una nuova classe borghese meridionale attiva.

Nato a Napoli il 15 novembre 1922, Rosi è figlio del direttore di un’agenzia marittima appassionato di cinema. A tre anni, il bambino vince un concorso fotografico indetto da una casa di produzione americana che cercava bambini somiglianti a Jackie Coogan (il bambino  protagonista del film di Chaplin, Il monello). Per la premiazione, padre e figlio sarebbero dovuti andare a Hollywood, ma la madre di Rosi si oppone al viaggio in America e sia il piccolo che il padre restano a Napoli. Rosi cresce e studia giurisprudenza, anche se  intraprende una carriera come illustratore di libri per bambini e inizia a lavorare per Radio Napoli, qui fa amicizia con Aldo Giuffré, Raffaele La Capria e Giuseppe Patroni Griffi, con i quali lavorerà molto spesso in ambito teatrale.

Grazie al teatro e alla sua tessera del partito comunista, Rosi entra in contatto con personalità come l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Pian piano si avvicina al mondo del cinema: nel 1948 infatti Luchino Visconti lo assume come assistente per La terra trema. Il grande regista milanese capisce subito che il ragazzo ha talento e che è portato anche per la scrittura cinematografica e così lo coinvolge nella scrittura di film come Bellissima (1951) con Anna Magnani e Senso (1954), con Alida Valli. Rosi è aiuto regista anche in melodrammi come Tormento (1950) con Amedeo Nazzari, in film d’autore come I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni, Proibito (1954) di Mario Monicelli, Domenica d’agosto, Parigi è sempre Parigi e Il bigamo di Luciano Emmer , con Marcello Mastroianni.

Francesco Rosi fa molta gavetta e finalmente nel 1958 è unico regista sul set del film La sfida con Rosanna Schiaffino e Angela Luce, ottenendo consenso di pubblico e di critica; nel 1959, dirige Alberto Sordi nel tragicomico I magliari, film grottesco  che termina la fase di formazione del regista partenopeo, con un Sordi sopra le righe. Il momento di mettere a punto uno standard stilistico-tematico destinato a durare negli anni è giunto: Rosi infatti parte dalla cronaca per  accogliere nuove ipotesi interpretative, come dimostrano i film Salvatore Giuliano (1962, Orso d’oro a Berlino e Nastro d’Argento in Italia), Il caso Mattei che si avvale di un linguaggio antitradizionale e originalissimo per raccontare un personaggio fondamentale della nostra storia, avente come protagonista il grande attore-feticcio Gian Maria Volonté, (1971, Palma d’oro a Cannes ex aequo con La classe operaia va in Paradiso, di Petri) e Lucky Luciano (1973).

Meno convincente è la pellicola Il momento della verità (1965), sorprendente e atipico il favolistico C’era una volta (1967) che, dato il percorso impegnato del regista, è passato immeritatamente in sordina; il fazioso antimilitarista, lontano dallo spirito del libro da cui è stato tratto, Un anno sull’altipiano di Lussu, Uomini contro (1970). Rosi si misura ancora con la letteratura con i film Cadaveri eccellenti (1976) tratto da Il contesto di Sciascia, Cristo si è fermato a Eboli (1979) dal romanzo di Carlo Levi, Tre fratelli (1981), che fanno pensare a I fratelli Karamazov, e Cronaca di una morte annunciata (1987) dal romanzo di Garcia Marquèz.

Il regista ritorna al filone inchiesta nel 1990, con Dimenticare Palermo nel 1990, viene coinvolto nel progetto  dal titolo 12 autori per 12 città, in cui racconta con un cortometraggio la sua Napoli. Il 1997, porta sul grande schermo La tregua che gli fa conquistare il suo ultimo David di Donatello come miglior regista e una candidatura per la sceneggiatura scritta con Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Nel 2000 torna alla regia teatrale, e in particolare quelle di opere del repertorio di Eduardo De Filippo. Nel 2008, ottiene l’Orso d’Oro alla carriera al Festival di Berlino e  la Legion d’Onore. Il 12 maggio 2012, la Biennale di Venezia lo celebre con il Leone d’Oro alla carriera.

Indipendente e disinibito, irruente e vigoroso, lirico e razionale, l’inconsapevole fenomenologo Francesco Rosi ci ha regalato film di elegante fattura, pur essendo popolari nel contenuto, ha raccontato il malaffare italiano, facendone una questione morale e politica (perché fare cinema all’epoca di Rosi voleva dire fare politica), raramente scandendo nella demagogia, senza rinunciare alle emozione e al recupero della sfera privata (come dimostra il film Tre fratelli), alla voce della natura (Cristo si è fermato a Eboli), al gusto per il divertimento (C’era una volta), non lasciandosi tentare da esperienze sperimentali e d’avanguardia. Nel suo scavare a fondo per scoprire le radici del male, Francesco Rosi s’è dovuto arrendere all’ambiguità, non sempre rivelandoci la sostanza (In Salvatore Giuliano, ad esempio, siamo e non siamo a conoscenza della verità), distinguendosi dai neorealisti per il suo essere così accanito da perdere spesso di vista l’oggetto della sua indagine.

20 anni senza Gian Maria Volonté

Venti anni fa, esattamente il 6 dicembre 1994 si spegneva in Grecia, a 61 anni, il grande attore Gian Maria Volonté. Stava girando il suo ultimo film, Lo sguardo di Ulisse per la regia di Theo Anghelopoulos.

Volonté è la dimostrazione di come il mestiere di attore possa contrapporsi al mero intrattenimento, costituendo il valore di un lavoro e attivismo che non fossero solo semplice arte recitativa, ma affermazione di un vero e proprio diritto alla riflessione e alla profondità. Un “pensattore”, come è stato giustamente definito, un volto serio, un volto di chi crede nel potere dell’arte e in quello che fa, simbolo della fusione tra impegno civile e arte, il duttile e scontroso attore nato a Milano ma cresciuto a Torino, ha sempre sposato in pieno le cause dei suoi film, diventando tra i più importanti protagonisti della migliore stagione cinematografica italiana, permettendosi di dire anche dei no a registi come Bernardo Bertolucci che lo voleva nel suo Novecento, a Federico Fellini per Casanova e a Francis Ford Coppola per Il Padrino.

Diplomatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma nel 1957, dopo tre anni di duro e intenso lavoro tra teatro, con le opere di Goldoni e di Shakespeare, e televisione, con L’Idiota di Dostoevskij e il Caravaggio, si aprono per lui  le porte del mondo del cinema.

Nel 1964, dopo aver preso parte a film che non hanno lasciato il segno, se si esclude un piccolo ruolo nel film La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini, accanto a Claudia Cardinale, è chiamato da Sergio Leone nel cast del western Per un pugno di dollari e la sua interpretazione del cattivo fa storia. Ma Volonté non vuole rimanere imbrigliato in ruoli di genere e dà vita ad una serie di personaggi indimenticabili, in un periodo dove furoreggiano attori del calibro di Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman: pensiamo a Paolo Laurana, l’intellettuale di sinistra di A ciascuno il suo (1967) per la regia di Elio Petri, uno dei primi film italiani sulla mafia, al commovente Bartolomeo Vanzetti  di  Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, ma soprattutto al “dottore” capo della Sezione Politica che uccide l’amante che lo tradiva con uno studente facente parte della contestazione attiva che, invece di occultare le prove le rende sempre più evidenti, convinto, nel suo delirio di onnipotenza che invece tradisce profonda insicurezza, che il Potere gli permetta di essere al di sopra di ogni sospetto, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) ancora di Petri, al memorabile Lulù Massa, l’operaio contestatore de La classe operaia va in paradiso (Petri, 1972), primo film italiano che è entrato in fabbrica suscitando molte polemiche, soprattutto a sinistra, e Palma d’oro a Cannes ex aequo con Il caso Mattei, anch’esso interpretato magistralmente da Volonté, per la regia di Rosi che dirigerà ancora l’attore in Cronaca di una morte annunciata nel 1987.

Sono degne di nota anche le seguenti pellicole: Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Giordano Bruno e Lucky Luciano (1973), Il sospetto (1975), il controverso e profetico Todo modo (1976), Cristo si è fermato a Eboli (1979), L’attentato (1973), Il caso Moro (1986), L’opera al nero (1988), il sottovalutato Tre colonne in cronaca (1990), Porte aperte (1990), Una storia semplice (1991). Meno degno di nota il modaiolo (per l’epoca), fazioso e antimilitarista Uomini contro di Rosi (1970), che stravolge il senso del romanzo (Un anno sull’altipiano) di Lussu, da cui è  stato tratto.

Gian Maria Volonté si è posto la questione dell’essere attore a livello esistenziale, stabilendo un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita per cercare di sfuggire alle fauci del potere, come affermava lui stesso, votandosi ad un’idea di giustizia e di tolleranza contro la cultura della morte citando le maschere del potere, dell’ambiguità, della violenza, del torbido, della reticenza, anticipando tutto. Non è mai sceso a compromessi Volonté, è stato un uomo morale, che viveva i suoi personaggi e non si lasciava affascinare dai riti stupidi dello spettacolo. Che sia stato poliziotto, contadino meridionale, magistrato, sindacalista, operaio settentrionale, Volonté è sempre riuscito a far comprendere al pubblico, grazie al suo essere camaleontico, i ruoli sociali chiave e l’Italia stessa, con lucidità, condensando psicologia e cultura; non impersonava i personaggi, ma ne svelava le peculiarità, le nevrosi più nascoste, in un periodo dove il cinema italiano stesso era coraggioso.

Ideologo? Sicuramente, ma non per partito preso, perché fosse testardamente di sinistra (e scomodo anche per la sinistra stessa, che non era e non è immune al malaffare e al malcostume), ma perché ha voluto confrontarsi, calarsi in personaggi straordinari, nel bene e nel male, destreggiandosi tra le tante sfumature dell’animo umano. A 20 anni di distanza, di Volonté oggi mancano soprattutto lo sguardo malinconico, la gestualità e mimica, la tecnica, il modo di costruire i personaggi, l’essere ribelle (spesso litigava con i registi con cui lavorava), l’imporsi contro la struttura stessa dello spettacolo.

Ricordando Vittorio De Sica

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Quarant’anni fa, esattamente il 13 novembre 1974, si spegneva in un ospedale parigino in seguito all’aggravarsi di un intervento chirurgico per un tumore polmonare, il regista e attore Vittorio De Sica, tra i padri del neorealismo, vincitore di quattro premi Oscar, una Palma d’oro ed un Orso d’oro.

Elegante, di classe, poliedrico, giocatore incallito, autoironico, scanzonato, intuitivo, geniale. Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974), che sin da piccolo si dilettava nella recitazione e nel cantare canzoni napoletane, ancora oggi rimane un enigma nel panorama culturale italiano ed internazionale: nessuno come lui, in Italia, a parte Fellini, Rossellini, Visconti ed Antonioni ha lasciato un’eredità così grande ed importante, influenzando scuole, registi e autori. Da Kurosawa a Spielberg, da Chaplin ad Altman, il nome di De Sica ha condizionato e condiziona numerose pellicole straniere e ciò non sorprende se si pensa che un capolavori come Sciuscià e Ladri di biciclette, allo loro uscita, furono snobbati in Italia, mentre all’estero, specialmente in America conobbero un grandissimo successo sia di critica che di pubblico. Ma la leggenda di questo poeta del cinema è segnata da contraddizioni e da mille sfumature, come la sua vita; l’arte e la vita sembrano fondersi una con l’altra, all’insegna della dispersione e del moltiplicarsi di identità. De Sica, prima di diventare regista, è stato attore e cantante (come non ricordarci della canzone Parlami d’amore Mariù), poi attore e regista contemporaneamente (Maddalena zero in condotta, del 1941, Teresa venerdi, dello stesso anno, Un garibaldino in convento, del 1942), ha partecipato a pellicole non degne del suo talento per far fronte ai debiti di gioco, passione che ha riportato in maniera giocosa in diversi suoi personaggi cinematografici, come ne Il conte Max e ne L’oro di Napoli. Divorziato dall’attrice Giuditta Rissone, pur essendosi risposato con l’attrice spagnola Maria Mercader in Francia, De Sica non ha mai saputo rinunciare alla sua prima famiglia e ha avviato così una doppia “relazione”, con doppi pranzi nelle feste.

L’eredità artistica e dispersiva di Vittorio De Sica è strettamente legata alla napoletanità, con il suo romanzo popolare e con la sua sceneggiata, e alle vicende cinematografiche dello sceneggiatore Cesare Zavattini, con il quale ha dato vita a capolavori universali senza mai cadere nella becera ideologia, di cui purtroppo soffrono diversi autori intellettualoidi nostrani, ma andando sempre alla ricerca del dato umano, aspetto che ha fatto sì che i film del regista fossero considerati “un’incarnazione dell’essenza del Cristianesimo”. De Sica ha sempre sentito il bisogno di raccontare la gente e il vero, la realtà, e viveva il proprio mestiere come un dovere morale; sulla stessa onda del suo sceneggiatore Zavattini, del resto. Attraverso il suo cinema, De Sica, come altri neorealisti, ha segnato l’avvento di una nuova estetica nella coscienza collettiva ed esistenziale dell’uomo: si prende atto del disagio ontologico dell’essere umano, quello stato in cui si capisce che non esiste un agire, un fare che possa migliorare la nostra condizione. E questo si riflette nei suoi film. Il contesto in cui sono nate le opere neorealiste è quello del verismo melodrammatico ma la sostanza contiene qualcosa di più profondo e di inatteso: si assiste ad una lucida ed amara riflessione in pubblico senza falsi pudori e moralismi, sulle sofferenze di tutti gli individui, buoni o cattivi che siano.

Vittorio De Sica e Gina Lollobrigia in una scena dal film “Pane amore e fantasia”

Con I bambini ci guardano (1943) di De Sica e con Ossessione, dello stesso anno, di Visconti, infatti non si pronunciano giudizi, si accetta ciò che il destino ci riserva e si pratica la virtù cristiana della compassione anche verso chi, grande novità, non lo merita. Sia De Sica che Visconti si sono trovati sulla medesima strada che in realtà è stata percorsa anche Rossellini. Tutti e tre si sono preoccupati di dissipare quel groviglio di equivoci che la critica ha accumulato riguardo il neorealismo, per il quale non è stata solo questione di girare “dal vero”, in mezzo alla gente, preferendo uomini comuni ad attori professionisti. Questi aspetti non sono altro che conseguenza di un complesso di circostanze, di culture, di costrizioni che il dopoguerra ha rovesciato sul cinema.

Se Rossellini è stato il regista “stoico” del neorealismo, De Sica ne ha rappresentato il lato sentimentale. Ha iniziato come simpatico attore del teatro leggero e delle commedie di Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni…del 1932, Darò un milione del 1935, Il Signor Max del 1937, Grandi Magazzini del 1939) nonché di altre numerose commedie, soprattutto in coppia con la diva Assia Noris, che i “telefoni bianchi” gli hanno offerto; poi l’incontro, che si rivelerà felice, con il grande Zavattini.

 

Uno straordinario Vittorio De Sica nel film “Il Generale Della Rovere”

I film desichiano scorre senza asprezze, sobri anche dei momenti patetici; pensiamo a Sciuscià (1946), vincitore di un Oscar, che narra con immensa delicatezza l’avventura da fiaba di due lustrascarpe romani nel periodo più drammatico del dopoguerra: finirà anch’essa in tragedia. Qui Zavattini si abbandona, nell’invenzione di partenza (i due ragazzi sognano di comprarsi un cavallo bianco con i loro risparmi) alle risorse del suo essere spesso giocoliere, ma De Sica lo tiene a freno, inducendolo a mettere a disposizione la sua fervida fantasia a servizio della drammatica esperienza che vivono di due protagonisti. Due anni dopo De Sica racconta un’altra indimenticabile fiaba metropolitana: Ladri di biciclette. Qui il regista consegna delicatamente la storia di un padre disoccupato e del suo figlioletto, a Roma, alle sue strade, ai suoi mercati, e lo fa con commozione e pudore. Quattro anni dopo il regista asciuga il suo stile, rendendolo meno elegiaco e Zavattini rinuncia al gusto del gioco; insieme allestiscono un contesto reale; nasce un altro capolavoro: Umberto D. (che viene da un’altra fiaba metropolitana, il surreale Miracolo a Milano, del 1951, Palma d’oro al Festival di Cannes. La vicenda dell’anziano pensionato cacciato di casa perché non paga l’affitto non è che un aneddoto. In realtà Umberto D. è un tragico documento sociale, il protagonista e la servetta sono vittime dell’ingiustizia ma non sono abbastanza esperti per opporvisi; i loro nemici sono, senza differenze ed ipocrisie, sia la Roma piccolo-borghese che quella popolare: volgare ed egoista. De Sica vuole essere più oggettivo e ci riesce, il suo sguardo è spietato, appoggiandosi ad un’impostazione narrativa classica di stampo hollywoodiano.

 

Una scena dal film “Umberto D.”

Col passare degli anni il regista, dopo aver riprodotto senza successo ultimi scampoli neorealisti: Il tetto del 1956 Il Giudizio Universale del 1961 (ma è anche diretto magistralmente da Rossellini ne Il Generale Della Rovere del 1959 e recita con Totò ne I due marescialli del 1961) e successi commerciali come Il boom, Ieri, oggi, domani,entrambi del 1963, Matrimonio all’italiana, del 1964, I girasoli del 1970, approda ad un cinema più intenso, manieristico che culmina nell’Oscar per Il giardino dei Finzi Contini del 1970, film della discordia tra lui e lo scrittore Bassani che non riconosceva lo spirito del suo romanzo dell’omonima pellicola.

Ma cosa ricordiamo maggiormente di Vittorio De Sica oltre agli imprescindibili capolavori neorealisti che hanno reso grande in tutto in mondo il nostro cinema, facendo storcere il naso alla D.C., secondo la quale il grande regista, attraverso i suoi film, dava un’immagine che non faceva onore all’Italia? Senza dubbio la sua capacità di far rendere al massimo gli attori che dirigeva, basti pensare alla strepitosa interpretazione, che le è valso l’Oscar, di Sophia Loren nel La ciociara (1960).

Di De Sica attore oggi restano la simpatia del protagonista di Pane, amore e fantasia o de Il processo di Frine, la commozione de Il Generale Della Rovere e una grande umanità che ha saputo trasmettere soprattutto ai suoi attori, primi fra tutti Marcello Mastroianni e Sophia Loren. A chi oggi, vedendo Ladri di biciclette piuttosto che Umberto D., afferma: Dov’è il capolavoro? rispondiamo che la genialità di De Sica sta nell’aver riunito dentro di se tante anime che hanno rappresentato il nostro Paese attraverso i suoi momenti più tragici ed esaltanti, avendo come stella polare un’idea pura del cinema che si manifesta in uno sguardo nitido ed immediato sulla realtà, più potente di un effetto speciale, che lo rende universale ed immortale, che lo pone nell’Olimpo artistico dei “maestri di cinema” e non dei pittori della domenica.

‘Anime Nere’ di Munzi: la nuova frontiera dello stereotipo

Del libro di Gioacchino Criaco, da cui è liberamente ispirata, la pellicola Anime Nere, in concorso a Venezia 2014, ne porta soltanto il titolo. Un prodotto cinematografico confezionato in modo eccellente ma vuoto. Estremamente credibili le performances degli attori, soprattutto delle comparse, tant’è che la linea di confine tra le abilità recitative dei professionisti ed esordienti si assottiglia molto. Cupa e realistica la fotografia, sorretta e sublimata dai paesaggi mozzafiato delle coste della Locride.

Il film di Munzi si tinge di un pragmatismo accademico e superficiale, tenta di affondare il colpo nel ventre della Calabria più oscura, quella delle ‘ndrine e dell’omertà, ma rimane pura lezione didascalica. L’opera rappresenta solo in minima parte la complessità di un fenomeno esteso e secolare come la ‘ndarngheta (e probabilmente non è nemmeno lo scopo principale), accodandosi ad un modello ben riuscito, inaugurato da Gomorra, che aspira al sensazionalismo più che alla narrazione in senso stretto.

La trama di Anime nere è la solita: tre fratelli, Rocco, Luciano e Luigi, tre modi diversificati di vivere la criminalità. Il primo preferisce “lavare” il denaro attraverso i pubblici appalti, siede tra i ranghi dell’alta borghesia capitalizzata e corrotta, il secondo è nel business del traffico internazionale di stupefacenti. L’ultimo, rifiutando di aderire a qualsiasi forma di delinquenza, ha deciso di rimanere “giù”, tra i monti del suo amato paese ad esercitare la professione di veterinario. Il figlio di Luciano, in seguito ad una bravata commessa ai danni di un bar della zona, si trasferisce a Milano dagli zii. Ciò innescherà una catena di eventi drammatici.


Tralasciando la carrellata di luoghi comuni, che suscitano l’impressione di una regione arenata negli anni ’50 (troppa tarantella, troppe donne vestite di nero, troppi “compari”), la pecca maggiore concerne i dialoghi, ovvero l’esigua presenza degli stessi e la faciloneria di cui sono corredati. La scelta di utilizzare i silenzi, forse per dare risalto alle immagini del territorio, o ai volti scavati dei protagonisti, rendono la struttura narrativa lenta fino all’esasperazione. Nulla viene chiarito dalla sceneggiatura, se non l’esposizione caotica e confusa riguardante la storia di un clan mafioso, preda di prevedibili tradimenti e feroce esecutore di brutali vendette. L’opera di Munzi non brilla per originalità. Non si riesce a identificare una cifra stilistica che la renda differente dagli altri prodotti sul genere, ormai consunto e ritrito.

Tutt’altra questione la versione cartacea che si discosta dalla trasposizione digitale, in primis per l’intreccio del racconto. Criaco propone un excursus degli ultimi trent’anni dell’Italia, ma dal punto di vista estremo e violento della ‘ndrangheta. L’analisi dello scrittore non scade in una mera indagine sociologica, né diviene dettagliata ricerca di fatti o eventi. I figli dei boschi sono figure vere, scarnificate di qualsiasi codice morale, capaci di atrocità indicibili e paradossalmente umane, quando si toccano gli affetti familiari. Le anime nere non sono tali a causa di un retaggio culturale, generato e sviluppatosi nell’Aspromonte, luogo natio dell’autore, sono così perché si tratta di una decisione forzata. In una terra in cui rassegnarsi rappresenta un’opzione fin troppo semplice, i tre giovani reagiscono affiliandosi alle cosce locali, ribellandosi ad un’esistenza ricevuta in dote: quella della miseria, dell’emarginazione, dell’indifferenza. Una non scelta, e questo Criaco lo sa bene: “Noi eravamo persone normali solo sui nostri monti, fuori da lì diventavamo belve in cattività, un animale selvatico impazzito, cosa si aspettavano di addomesticarlo? Ci hanno cercati, non siamo andati noi a chiamarli […]. Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone”.

La diva Sophia compie 80 anni

Ha compiuto 80 anni l’ultima diva del cinema, Sophia Loren, festeggiata in tutto il mondo. Ha vinto due volte il Premio Oscar e rimarrà nella storia del cinema soprattutto per le interpretazioni ne “La ciociara” di Vittorio De Sica e “Una giornata particolare” di Ettore Scola.

Conserva ancora il portamento altero, le labbra carnose, gli zigomi alti e lo sguardo sognante di quando era ragazza, Sophia Loren, l’ultima diva del cinema, vera protagonista indiscussa nello scorso Festival di Cannes, che il 20 settembre 2014 ha compiuto 80 anni che non hanno scalfito nè la sua bellezza nè il suo fascino mediterraneo, prorompente e leggera allo stesso tempo, internazionale e napoletana, sofisticata e semplice; sublime nel ruolo di popolana, a suo agio sia nel dramma che nella commedia, convincente in quello di donna borghese; Sophia è stata ed è tutto e il suo contrario cedendo alla sua passione per l’arte cinematografica e recitativa, e il pubblico di tutto il mondo ha ceduto al suo appeal stellare, dando vita ad un rapporto paritario: lei ci ha reso fieri di essere italiani e noi le abbiamo regalato la bellezza immortale delle dive.

Ma la vita di Sophia non è stata facile, per questo non la sivede come una dea irraggiungibile ma come un esempio di ragazza povera che ce l’ha fatta con cui identificarsi; prima di annoverarsi tra le stelle grazie ad impegno, talento, studio, determinazione, tenacia e fortuna, l’attrice di Pozzuoli ha patito la fame e la povertà durante la seconda guerra mondiale, protetta con le unghie e con i denti da una madre, Romilda Villani, che ha sempre sognato per lei un grande avvenire e desiderosa di riscattare la sua famiglia da quell’umiliante miseria.

 

Oscar alla carriera 1991

Sofia Scicolone Villani è nata a Roma, figlia del marchese siciliano Riccardo Scicolone Murillo, che riconobbe la piccola Sophia ma non sposò mai sua madre Romilda. Trascorre la sua tribolata infanzia e adolescenza a Pozzuoli fin quando, trasferitasi a Roma con sua madre, comincia pian piano la sua carriera con una quindicina di piccoli ruoli diretta, tra gli altri, anche da Fellini e Lattuada in Luci del varietà (1950) Mattoli in Tototarzan con Totò, sempre del 1950, Comencini in La tratta delle bianche (1952); poi il concorso di bellezza, che le fa vincere solo la fascia di Miss eleganza ma soprattutto che la fa notare al produttore Carlo Ponti (diverrà suo marito per ben due volte, in Italia e in Francia), che resta ammaliato dalla bellezza della giovanissima Sofia e il contratto di esclusiva che per lui firma nel 1951. Da qui comincia la cavalcata che la porta da Sofia Scicolone a Sofia Lazzaro e da Sofia Lazzaro a Sophia Loren per diventare un’attrice internazionale, passando anche dai fotoromanzi. Recita truccatissima nell‘Aida, di Clemente Fracassi nel 1953, dove canta con la voce di Renata Tebaldi. Ma il primo film destinato a fare storia è Carosello napoletano di Ettore Giannini (1954) poi di nuovo al fianco di Totò in Tempi nostri per la regia Alessandro Blasetti, e in Miseria in nobiltà, e infine con il suo pigmalione e amico Vittorio De Sica, ne L’oro di Napoli, dove interpreta un’indimenticabile e seducente pizzaiola,  e con il suo partner di tanti film, Marcello Mastroianni in Peccato che sia una canaglia ancora di Blasetti.

 

Sophia diventa un’incona, il simbolo erotico dell’Italia del dopoguerra che predilige bellezze opulente e generose come quella della Loren e della sua rivale Gina Lollobrigida, della quale prende anche il posto del terzo episodio della trilogia di Pane, amore e… di Dino Risi, del 1956. Il successo internazionale arriva grazie anche alla celebre copertina di Life che la incorona come emblema della bellezza mediterranea. Carlo Ponti, che intanto convive con lei destando scandalo poiché non può divorziare dalla prima moglie secondo la legge italiana, la accompagna a Hollywood dove trova attori come Cary Grant (suo partner in Un marito per Cinzia), il quale non esita a corteggiarla, ma inutilmente, Frank Sinatra, John Wayne, William Holden, Anthony Perkins, Richard Burton, Burt Lancaster, Gregory Peck, Peter O’ Toole e Marlon Brando con il quale recita ne La Contessa di Hong Kong (1967) per la regia di Charlie Chaplin. Viene diretta da Kramer nel film Orgoglio e passione (1957), da Ritt in Orchidea nera (1958), da Shavelson ne La baia di Napoli (1960), da Curtiz in Olympia (1960). Ma nonostante questa felice avventura americana in cui si confronta alla grande con le dive più popolari come Marilyn Monroe, Liz Taylor ed Ingrid Bergman, è in patria che avviene la consacrazione di Sophia.

 

Il celebre spogliarello del film “Ieri, oggi, domani”

Vittorio De Sica la dirige magnificamente nell’ultimo sussulto neorealista, La ciociara (1960) dove la Loren dà un’interpretazione tragica e sconquassante di Cesira, una giovane vedova e madre che, con la figlioletta Rosetta (Eleonora Brown), durante la guerra cerca rifugio tra i monti della Ciociaria per sfuggire ai bombardamenti. Il film, come sappiamo, è valso il primo Oscar alla Loren come migliore attrice protagonista. In realtà il ruolo di Cesira  fu offerto, in un primo momento, alla grandissima Anna Magnani con la regia di Cukor; alla Loren sarebbe spettato invece il ruolo della figlia.  Ma quando la vulcanica  Magnani, celebre anche per il suo caratteraccio, seppe della scelta del cast si fece una risata dicendo: «La Loren mia figlia? Nella scena dello stupro degli egiziani, ci sarà da star attenti che lei non stupri loro!» e rifiutò la parte.

De Sica continua a valorizzare il talento dell’attrice campana in I sequestrati di Altona (1962) e soprattutto negli indimenticabili Ieri, oggi, domani (1963) che le frutta un altro David, per l’interpretazione di tre personaggi femminili diversi, Matrimonio all’italiana (1964) dove dà vita ad una strepitosa Filumena Marturano, ottenendo un altro David e due nominations per l‘Oscar e i Golden Globe, I girasoli (1970) accanto al suo amico Mastroianni che sarà ancora suo partner ne La moglie del prete (1971) di Risi. Si cimenta anche nel fantasy con C’era una volta…(1967) di Rosi, recita per Monicelli ne La mortadella e  per Huston in Angela, probabilmente il peggior film della carriera della Loren, ma soprattutto con Gassman in Questi fantasmi, per la regia di Eduardo De Filippo.

Una scena del film “La ciociara”

Alla serie di film sbagliati o poco riusciti, a parte il drammatico Cassandra Crossing, si aggiunge un’inchiesta della Tributaria che coinvolge l’attrice e il marito nel 1978. Il caso finisce nel 1982 e la Loren viene incarcerata per 17 giorni nel penitenziario di Caserta per frode fiscale, poi attribuita al suo commercialista. Con la solita tenacia che la contraddistingue, riabilita la sua immagine lavorando in televisione in film tv come Madre coraggio (1986) e la miniserie Mamma Lucia (1988) di Stuart Cooper con John Turturro. Nel 1995 recita accanto a Jack Lemmon e Walter Matthau in That’s Amore – Due improbabili seduttori.

Nel 1991 vince il César onorario e, lo stesso anno si aggiudica anche l‘Oscar alla Carriera con la seguente motivazione dell’Academy: «Uno dei tesori più autentici del cinema mondiale che, nel corso delle sue memorabili interpretazioni, ha portato grande lustro a questa forma d’arte». Nel 1994, arriva l‘Orso d’Oro onorario e il 26 giugno 1996 viene nominata Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Il 1977 Sophia torna a risplendere come ai tempi dei film con De Sica nello struggente capolavoro firmato da Ettore Scola, Una giornata particolare, dove interpreta Antonietta, moglie di un fascista, casalinga trasandata ed infelice e madre di sei figli, che, nell’ultimo giorno di Hitler a Roma, incontra Gabriele (Mastroianni), intellettuale omosessuale destinato al confino. Il film le frutta un David e un Nastro d’Argento.

 

Sophia Loren con Marcello Mastroianni in una scena di “Ieri, oggi, domani”

Nel 1978 Sophia è diretta da Lina Wertmuller in Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova (si sospettano moventi politici). Nel 1994 replica il celebre spogliarello di Ieri, oggi, domani con Marcello Mastroianni, che però stavolta si addormenta in Prêt- à-porter di Robert Altman con Tim Robbins e Julia Roberts, grazie al quale viene nominata al Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Nel 2002 viene diretta da suo figlio Edoardo in Cuori estranei, prende simpaticamente ad alcuni spot pubblicitari e, nel 2007, si regala perfino un Calendario Pirelli. Nel 2009, recita nel (deludente) musical Nine con Daniel Day-Lewis e Nicole Kidman.

Più diva o più attrice? Già, perché alcuni pensano che Sophia Loren non abbia talento, che abbia solo una bellissima ed irresistibile immagine, sapientemente gestita, che abbia avuto successo e abbia vinto premi solo perché sposata con un grande produttore cinematografico che, per amore e stima, le ha costruito una straordinaria carriera. Sophia è stata ed è una diva perché è stata ed è una grande attrice, perché lo ha voluto con tutta se stessa, impegnandosi e migliorandosi di volta in volta, con l’entusiamo di sempre, come dimostra il suo ultimo importante lavoro diretto da suo figlio Edoardo, La voce umana, dello scrittore Jean Cocteau il cui monologo è divenuto già cinema con l’Amore di Rossellini, avente come protagonista una magnifica Anna Magnani.

La Loren ha meritato tutto quello che ha conquistato, perché bellezza, passione e il talento senza ambizione, intelligenza, umiltà e spirito di abnegazione, non bastano per diventare l’attrice italiana più famosa nel mondo, amata per la sua solarità e spontaneità, ben lontana dall’essere una diva altezzosa che non si concede al suo pubblico. Dubitiamo che molte  giovani leve, italiane e non, che tanto vorrebbero somigliarle riescano a percorrere una carriera simile, posando per il Calendario Pirelli a 70 anni. Se volessimo riassumere velocemente la versatilità di Sophia Loren attraverso due fotogrammi, sceglieremmo il ballo con De Sica in Pane, amore, e… e quello che la vede scagliare la pietra contro la camionetta di soldati, dopo la violenza subita dai nord-africani ne La ciociara.

Di Annalina Grasso

Umberto D. di Vittorio De Sica: storia di un capolavoro

Una pietra miliare della storia del cinema, una delle vette del Neorealismo, il capolavoro Umberto D. di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, alla sua uscita, nel 1952,  a sette anni dall’altro capolavoro neorealista Roma città aperta di Roberto Rossellini, è stato oggetto di forti polemiche sia da destra (famoso l’intervento dell’onorevole Giulio Andreotti, che accusò De Sica di eccessivo pessimismo e di non ricordare che l’Italia era anche patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione sociale), sia da sinistra, per la mitologia del “personaggio positivo”, che il film smentiva, non prestandosi a essere semplicisticamente definito “un appello alla solidarietà umana”. Certamente Umberto D. è stato sottovalutato, complici i giudizi provenienti da destra e da sinistra e la crisi dello stesso neorealismo, con l’Italia che si avviava al boom economico, la fortuna che avrebbero avuto da li a poco i film mitologici e la nascita della televisione.

Realizzato grazie al coraggioso produttore Giuseppe Amato, il film  incassa forse la metà di quanto speso e risulta un clamoroso flop del neorealismo italiano. Ma Umberto D. è più che mai una pellicola di successo, un punto di riferimento per moltissimi cinefili ed addetti ai lavori, un monumento della nostra cultura che non smetterà mai di essere celebrato, nè di commuoverci.

Ma come nasce questo capolavoro? La risposta sta proprio nel volume dello sceneggiatore Zavattini, Umberto D. Dal soggetto alla sceneggiatura, divenuto ormai un libro cult per i bibliomani, un testo fondamentale per tutti gli studiosi di scrittura cinematografica. Il modo di scrivere di Zavattini infatti è rivoluzionario, e non solo per l’Italia: lo stesso Martin Scorsese ha ammesso come il cinema italiano abbia profondamente influenzato la sua regia. Con questo libro Zavattini ha voluto dimostrarecome da una semplice idea di poche righe si possa sviluppare un intero film.

Umberto D. racconta la realtà come fosse una storia, tentativo che nasce dall’impegno di Zavattini di porsi contro l’eccezionale a favore del quotidiano senza timori, perchè, secondo lui, “il banale non esiste” e chi fa cinema non deve avere paura del banale. Il percorso della scrittura di Umberto D. è esemplare e propedeutico per chi volesse intraprendere il mestiere dello sceneggiatore. Come Miracolo a Milano e Ladri di biciclette, Umberto D. funge da modello per la personalità di uomo di cinema di Zavattini, così predominante ed originale, che gli ha consentito di conquistare un nuovo stile che risponde ad un preciso mondo morale. In Umberto D. come in tutti i film neorealisti il normale diviene eccezionale, spettacolo; è una banale  e spettacolare avventura quotidiana vissuta da un anziano (interpretato da un professore di glottologia, Carlo Battisti) con il suo fedele cagnolino Flik.

Sullo sfondo di una Roma traboccante di gente produttiva, Umberto D., che abita presso una donna che fitta camere, cerca di affrontare con dignità la miseria economica, la vecchiaia e  la solitudine esistenziale. L’unico rapporto lo instaura con la servetta Maria (Maria Pia Casilio), chiedere la carità per lui, è troppo degradante e umiliante.

Lo sguardo di De Sica è fulgido, catartico in tutta la sua essenzialità, anche quando si tratta dei propositi suicidi del protagonista che sarà salvato proprio dal suo cagnolino, mentre l’ambiente circostante è occupato da bambini (che nel cinema di De Sica hanno sempre un ruolo “purificante”) intenti a giocare: il futuro della società è nelle loro mani…

C’è  ancora speranza? La domanda sembra avere risposta positiva, in riferimento alle nuove generazioni, ma il film tenta un cambio di rotta, segnando un passaggio storico; il mondo infatti stava precipitando nell’incubo del conflitto nucleare, mentre l’Italia era sempre più alle dipendenze degli USA, come dimostrano anche la quantità di film di Hollywood che invadeva le sale italiane.

A proposito del titolo del film, Zavattini afferma: <<Mi venne in mente il titolo Umberto D. come mi sarebbe potuto venire in mente Antonio D. Poi cercai di giustificarlo con una brevissimascena sul Campidoglio in cui Umberto doveva dare il proprio nome e cognome ai dimostranti che avevano scelto casualmente lui con altri quattro o cinque per recarsi dal sindaco a protestare in nome dei proprietari di cani troppo tassati; e Umberto modestamente diceva; “Umberto Domenico Ferrari…ma può scrivere: Umberto D. Ferrari…basta”. Quando sotituii il corteo dei padroni di cani con il corteo dei pensionati, riallacciandomi all’idea del soggetto, misi una situazione quasi identica nell’ospedale dove gli scioperanti della fame raccoglievano firme di solidarietà; infatti il vecchio diceva agli agitati raccoglitori di firme: “Basta Umberto D. Ferrari”. Ma lo sciopero, fu uno dei tagli grossi che De Sica e io decidemmo di fare dopo che il film fu girato>>.

 

 

 

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