Non ci resta che piangere ritorna al cinema

1983/1984. Siamo nel pieno degli anni Ottanta quando la coppia Benigni e Troisi decide di scrivere la sceneggiatura di quello che diverrà un vero cult del cinema italiano.

Non ci resta che piangere è un film del 1984, diretto ed interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi e scritto dai due con la collaborazione di Giuseppe Bertolucci. Un successo non annunciato e forse nemmeno sperato che inizialmente non convince la critica, ma che sbanca al botteghino. Sono 15 i miliardi che dell’incasso record di quegl’anni.

Dal 2 al 4 marzo 2015, la pellicola cult è stata riproposta in circa 200 sale italiane in versione restaurata e rimasterizzata, permettendo al pubblico che tanto lo ha amato di riscoprirlo e godere della sua visione.

La sceneggiatura scritta dai due comici tra Cortina d’Ampezzo e la Val D’Orcia, ha avuto una storia travagliata ed è stata soggetta a varie modifiche prima di poter trovare la sua linea definitiva. I personaggi principali sono Saverio (Roberto Benigni) un insegnante delle elementari e Mario (Massimo Troisi) bidello nella stessa scuola.

I due amici, tanto diversi quanto uniti e solidali tra loro, si trovano bloccati di fronte ad un passaggio a livello chiuso e per aggirare l’ostacolo decidono di percorrere una strada sconosciuta. La macchina si guasta, arriva il temporale e inspiegabilmente i due si trovano catapultati nel 1492.

Lo shock iniziale destabilizza i due protagonisti che si aggirano disorientati tra le terre di Frittole. I due amici, vestiti con abiti del 1984, come la camicia hawaiana di Saverio ricorda, iniziano ad assistere così ad eventi “irreali” accompagnati poi dai loro dialoghi comici. Saverio è un uomo irriverente e sfrontato, un maestro delle elementari che non ha paura di ammettere di voler bocciare un suo alunno solo per antipatica, che accetta subito di immedesimarsi nella parte dell’uomo del Quattrocento, indossando con spavalderia i costumi e parlando con gli abitanti del luogo, addirittura alla ricerca di un lavoro. Mario invece, timido e riservato, rimane incredulo, timoroso di fronte a questo inspiegabile sbalzo spazio-temporale. Cerca in tutti i modi di ritornare a casa, anche attraverso il metodo della “convinzione”. Insomma forse con la forza della convinzione e della mente , quel qualcuno o quel qualcosa che li ha mandati lì, li potrebbe far ritornare a casa. Ma è tutto vano. Appena aperta la porta, il 1492 irrompe prepotente. La storia continua tra il susseguirsi di gag, scambi verbali “epici” ed incontri storici.

I due amici litigano in continuazione, si disturbano, ma infondo mostrano l’uno verso l’altro profondo rispetto. Anche quando Saverio geloso dell’amore sbocciato tra Mario e la giovane Pia (Amanda Sandrelli), decide di andare a fermare Cristoforo Colombo e impedirgli di scoprire l’America, non viene lasciato solo e l’amico lo seguirà anche in quest’avventura. Tra le scene indimenticabili, la lettera ai Savonarola , chiara e nota citazione della lettera scritta in Totò, Peppino e la malafemmina, che è intensa e molto divertente. L’incontro con Leonardo da Vinci (interpretato da Paolo Bonacelli), intento a far esperimenti in un piccolo laghetto, viene interrotto da Saverio e Mario che cercano di indurlo ad inventare il treno, il lapsus freudiano, il semaforo, ma sembra, con scarsi risultati. La famigerata scena della dogana, quanto mai attuale, che evidenzia l’ottusità dello Stato: «Chi siete? Dove andate? Cosa trasportate? Quanti siete?….. Un Fiorino”» talmente esilarante che nemmeno i due attori sono riusciti a montarla, come da copione, costretti quindi a lasciare il girato che li mostra ridere a crepapelle. Ed è forse questa spontaneità che ha reso la scena una delle più divertenti e memorabili del film. Il finale con l’apparizione del treno a vapore, guidato da Leonardo da Vinci indurrà i due amici ad accettare il loro futuro nel passato, ma con una buona ricompensa. Infondo si era detto di dividere per tre.

Alcuni critici hanno parlato della pellicola come di un esperimento tra i due comici (che non gireranno più altri film insieme), per rodare la loro capacità di interagire e creare quel rapporto di coppia che possa essere stimolante e divertente per il pubblico che li guarda. Ma il pubblico a volte è molto più lungimirante di grandi nomi della critica e ha capito quanto questa storia, se pur con una trama all’apparenza esile, porta con sé la simpatia di due amici dal carattere opposto, l’esilarante susseguirsi di azioni inaspettate, la spontanea mimica di Troisi e la dialettica di Benigni che, unite, hanno creato quella comicità che resta pura e semplice, ben lontana dalle facili e volgari soluzioni di molti film di oggi. Un capolavoro che merita di essere apprezzato da tutte le generazioni e che si conferma nella sua semplicità, un film che fa ridere senza pretese, ma solo per il gusto di farlo.

“Interstellar”, il fantasy originale di Nolan

Interstellar, ultimo originale lavoro diretto da Christopher Nolan (Il cavaliere oscuro, Inception, Memento) è un film ambientato in America, in un futuro dalle coordinate spazio temporali non ben definite e in una situazione catastrofica di apocalisse mondiale. Il pianeta Terra sta attraversando la sua inevitabile discesa verso la distruzione e l’estinzione della razza umana, soffocata nella polvere e senza quasi più né cibo né acqua. La civiltà tecnologica che conosciamo si piega di fronte la fine del mondo e fare l’agricoltore sembra essere l’unica professione utile alla sopravvivenza. La scienza viene messa da parte, le scoperte scientifiche diventano leggende a cui non bisogna credere. L’uomo non è mai stato sulla Luna e non esistono altre galassie. L’uomo è solo. L’ingegnere aerospaziale Cooper (Matthew McConaughey), costretto come altri ad adeguarsi alla tragica situazione, diviene un agricoltore che cerca però di sovvertire le regole di questo futuro che sembra passato. I due figli, Murphy (Jessica Chastain) e Tom (Casey Affleck), affrontano in maniera differente e parallela questa condizione limitante. La curiosità della piccola Murphy si contrappone all’atteggiamento accomodante del fratello maggiore.

L’essere umano però  è un animale razionale. In quanto animale, è caratterizzato da un forte istinto di sopravvivenza, in quanto razionale userà tutta la sua capacità di ragionamento per salvarsi. Cooper verrà a conoscenza di un piano, progettato dal professor Brand (Michael Caine) e il suo team della NASA costituito da scienziati, tra i quali la figlia Amelia Brand (Anne Hathaway), che permetterebbe di salvare la specie umana trasferendo o ripopolando un pianeta simile alla Terra, ma facente parte di un’altra galassia. Grazie ad un warmhole, un passaggio intergalattico che “qualcuno” ha posto nello spazio, sarebbe infatti possibile arrivare in un nuovo pianeta vivibile e salvare così la razza umana.

Nolan, tra i registi più audaci del cinema americano contemporaneo, si mette in gioco e attraverso il genere fantascientifico cerca di esplorare i confini dello spazio, ma soprattutto del tempo. Il confronto con il grande capolavoro di Stanley Kubrik 2001: Odissea nello spazio (USA-GB, 1968) appare inevitabile. Le atmosfere che questa pellicola richiama soprattutto quando la scena si svolge nello spazio sono molto vicine al capolavoro del 1968,  come il richiamo all’immensità e le grandi strutture aerospaziali che si librano nel vuoto cosmico. Interessante anche la presenza di TARS, chiaro omaggio del noto monolite protagonista di 2001, che pur essendo un robot, quindi del tutto privo di sentimenti, è l’unico “personaggio” che permette ai protagonisti alcune importanti riflessioni.

Un altro elemento che colpisce è il silenzio, quasi assordante, dello spazio che avvolge lo spettatore. Quando ci si trova in una sala cinematografica, circondati dalle più avanzate tecnologie audio e si passa dall’assordante rumore al vuoto silenzio, la suggestione arriva ad altissimi livelli. Anche il tempo perde i suoi punti di riferimento e come i protagonisti, la sua relatività disorienta il pubblico che non sa più “quando” si trova. Passato, presente e futuro si mescolano, i percorsi di vita si dividono prendendo binari paralleli. Le leggi della fisica sono messe in discussione, l’uomo si trova solo nell’immensità, sovrastato da enormi onde e ghiacciai senza fine e soprattutto da qualcosa che appare più grande di lui. L’essere umano però riserva mille sorprese e Nolan sfrutta al massimo il montaggio parallelo per rappresentare il contatto tra chi si trova in mezzo all’infinito e il nulla e  chi sulla Terra cerca di sopravvivere. Al di là delle lamiere dell’ Endurance (la navicella spaziale), esiste solo ciò che può uccidere l’uomo e allo stesso tempo sulla Terra gli abitanti stanno morendo per quello che si trova al di qua dell’atmosfera. In un caso o nell’altro i protagonisti sono in trappola. L’uomo e la scienza dovranno fare i conti con forze più potenti, non quantificabili, inspiegabili e starà alla sua forza di volontà credere che una soluzione sia possibili nonostante tutto.

La fotografia, curata dall’olandese Hoyte Van Hotyte, presenta passaggi cromatici che vanno dal giallo senape delle deserte coltivazioni assediate dalle tempeste di sabbia sulla Terra, al freddo bianco-ghiaccio dello spazio, il tutto accompagnato dalla suggestiva colonna sonora dell’ormai celebre Hans Zimmer, che  durante le scene che si svolgono nello spazio intervalla intensi silenzi a sinfonie solenni. Un viaggio nel relativo futuro e un’immagine dell’uomo alle prese con se stesso e la sua sopravvivenza. Non un banale film sulle catastrofi naturali che si abbattono sul nostro pianeta come Hollywood ci ha abituati a vedere, perché è chiaro che “l’umanità è nata sulla Terra, ma non è destinata a morirci”. Questa è una pellicola che permette spunti di riflessioni sulle domande che hanno perseguitato l’uomo per millenni  e tra queste  la più insondabile “L’uomo è solo in questo universo?”.

‘Anime Nere’ di Munzi: la nuova frontiera dello stereotipo

Del libro di Gioacchino Criaco, da cui è liberamente ispirata, la pellicola Anime Nere, in concorso a Venezia 2014, ne porta soltanto il titolo. Un prodotto cinematografico confezionato in modo eccellente ma vuoto. Estremamente credibili le performances degli attori, soprattutto delle comparse, tant’è che la linea di confine tra le abilità recitative dei professionisti ed esordienti si assottiglia molto. Cupa e realistica la fotografia, sorretta e sublimata dai paesaggi mozzafiato delle coste della Locride.

Il film di Munzi si tinge di un pragmatismo accademico e superficiale, tenta di affondare il colpo nel ventre della Calabria più oscura, quella delle ‘ndrine e dell’omertà, ma rimane pura lezione didascalica. L’opera rappresenta solo in minima parte la complessità di un fenomeno esteso e secolare come la ‘ndarngheta (e probabilmente non è nemmeno lo scopo principale), accodandosi ad un modello ben riuscito, inaugurato da Gomorra, che aspira al sensazionalismo più che alla narrazione in senso stretto.

La trama di Anime nere è la solita: tre fratelli, Rocco, Luciano e Luigi, tre modi diversificati di vivere la criminalità. Il primo preferisce “lavare” il denaro attraverso i pubblici appalti, siede tra i ranghi dell’alta borghesia capitalizzata e corrotta, il secondo è nel business del traffico internazionale di stupefacenti. L’ultimo, rifiutando di aderire a qualsiasi forma di delinquenza, ha deciso di rimanere “giù”, tra i monti del suo amato paese ad esercitare la professione di veterinario. Il figlio di Luciano, in seguito ad una bravata commessa ai danni di un bar della zona, si trasferisce a Milano dagli zii. Ciò innescherà una catena di eventi drammatici.


Tralasciando la carrellata di luoghi comuni, che suscitano l’impressione di una regione arenata negli anni ’50 (troppa tarantella, troppe donne vestite di nero, troppi “compari”), la pecca maggiore concerne i dialoghi, ovvero l’esigua presenza degli stessi e la faciloneria di cui sono corredati. La scelta di utilizzare i silenzi, forse per dare risalto alle immagini del territorio, o ai volti scavati dei protagonisti, rendono la struttura narrativa lenta fino all’esasperazione. Nulla viene chiarito dalla sceneggiatura, se non l’esposizione caotica e confusa riguardante la storia di un clan mafioso, preda di prevedibili tradimenti e feroce esecutore di brutali vendette. L’opera di Munzi non brilla per originalità. Non si riesce a identificare una cifra stilistica che la renda differente dagli altri prodotti sul genere, ormai consunto e ritrito.

Tutt’altra questione la versione cartacea che si discosta dalla trasposizione digitale, in primis per l’intreccio del racconto. Criaco propone un excursus degli ultimi trent’anni dell’Italia, ma dal punto di vista estremo e violento della ‘ndrangheta. L’analisi dello scrittore non scade in una mera indagine sociologica, né diviene dettagliata ricerca di fatti o eventi. I figli dei boschi sono figure vere, scarnificate di qualsiasi codice morale, capaci di atrocità indicibili e paradossalmente umane, quando si toccano gli affetti familiari. Le anime nere non sono tali a causa di un retaggio culturale, generato e sviluppatosi nell’Aspromonte, luogo natio dell’autore, sono così perché si tratta di una decisione forzata. In una terra in cui rassegnarsi rappresenta un’opzione fin troppo semplice, i tre giovani reagiscono affiliandosi alle cosce locali, ribellandosi ad un’esistenza ricevuta in dote: quella della miseria, dell’emarginazione, dell’indifferenza. Una non scelta, e questo Criaco lo sa bene: “Noi eravamo persone normali solo sui nostri monti, fuori da lì diventavamo belve in cattività, un animale selvatico impazzito, cosa si aspettavano di addomesticarlo? Ci hanno cercati, non siamo andati noi a chiamarli […]. Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone”.

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