‘Anime Nere’ di Munzi: la nuova frontiera dello stereotipo

Del libro di Gioacchino Criaco, da cui è liberamente ispirata, la pellicola Anime Nere, in concorso a Venezia 2014, ne porta soltanto il titolo. Un prodotto cinematografico confezionato in modo eccellente ma vuoto. Estremamente credibili le performances degli attori, soprattutto delle comparse, tant’è che la linea di confine tra le abilità recitative dei professionisti ed esordienti si assottiglia molto. Cupa e realistica la fotografia, sorretta e sublimata dai paesaggi mozzafiato delle coste della Locride.

Il film di Munzi si tinge di un pragmatismo accademico e superficiale, tenta di affondare il colpo nel ventre della Calabria più oscura, quella delle ‘ndrine e dell’omertà, ma rimane pura lezione didascalica. L’opera rappresenta solo in minima parte la complessità di un fenomeno esteso e secolare come la ‘ndarngheta (e probabilmente non è nemmeno lo scopo principale), accodandosi ad un modello ben riuscito, inaugurato da Gomorra, che aspira al sensazionalismo più che alla narrazione in senso stretto.

La trama di Anime nere è la solita: tre fratelli, Rocco, Luciano e Luigi, tre modi diversificati di vivere la criminalità. Il primo preferisce “lavare” il denaro attraverso i pubblici appalti, siede tra i ranghi dell’alta borghesia capitalizzata e corrotta, il secondo è nel business del traffico internazionale di stupefacenti. L’ultimo, rifiutando di aderire a qualsiasi forma di delinquenza, ha deciso di rimanere “giù”, tra i monti del suo amato paese ad esercitare la professione di veterinario. Il figlio di Luciano, in seguito ad una bravata commessa ai danni di un bar della zona, si trasferisce a Milano dagli zii. Ciò innescherà una catena di eventi drammatici.


Tralasciando la carrellata di luoghi comuni, che suscitano l’impressione di una regione arenata negli anni ’50 (troppa tarantella, troppe donne vestite di nero, troppi “compari”), la pecca maggiore concerne i dialoghi, ovvero l’esigua presenza degli stessi e la faciloneria di cui sono corredati. La scelta di utilizzare i silenzi, forse per dare risalto alle immagini del territorio, o ai volti scavati dei protagonisti, rendono la struttura narrativa lenta fino all’esasperazione. Nulla viene chiarito dalla sceneggiatura, se non l’esposizione caotica e confusa riguardante la storia di un clan mafioso, preda di prevedibili tradimenti e feroce esecutore di brutali vendette. L’opera di Munzi non brilla per originalità. Non si riesce a identificare una cifra stilistica che la renda differente dagli altri prodotti sul genere, ormai consunto e ritrito.

Tutt’altra questione la versione cartacea che si discosta dalla trasposizione digitale, in primis per l’intreccio del racconto. Criaco propone un excursus degli ultimi trent’anni dell’Italia, ma dal punto di vista estremo e violento della ‘ndrangheta. L’analisi dello scrittore non scade in una mera indagine sociologica, né diviene dettagliata ricerca di fatti o eventi. I figli dei boschi sono figure vere, scarnificate di qualsiasi codice morale, capaci di atrocità indicibili e paradossalmente umane, quando si toccano gli affetti familiari. Le anime nere non sono tali a causa di un retaggio culturale, generato e sviluppatosi nell’Aspromonte, luogo natio dell’autore, sono così perché si tratta di una decisione forzata. In una terra in cui rassegnarsi rappresenta un’opzione fin troppo semplice, i tre giovani reagiscono affiliandosi alle cosce locali, ribellandosi ad un’esistenza ricevuta in dote: quella della miseria, dell’emarginazione, dell’indifferenza. Una non scelta, e questo Criaco lo sa bene: “Noi eravamo persone normali solo sui nostri monti, fuori da lì diventavamo belve in cattività, un animale selvatico impazzito, cosa si aspettavano di addomesticarlo? Ci hanno cercati, non siamo andati noi a chiamarli […]. Non volevamo la loro integrazione, il loro progresso, la loro lingua, i loro soldi. Loro hanno aperto le porte al demone”.

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