‘La grande abbuffata’: la sempre attuale metafora antropologica di Ferreri

La grande abbuffata è un film del 1973 diretto da Marco Ferreri (I love you, Dillinger è morto, La cagna, Storie di ordinaria follia, Ciao maschio, L’ultima donna, Marcia nuziale, L’ape regina, La donna scimmia). Presentato in concorso al 26° Festival di Cannes, non ambiva a vincere la Palma d’oro, ma a qualcosa di diverso: trasformare in riflessione la sgradevolezza che, a guardarlo, inevitabilmente penetra attraverso gli occhi. E se a distanza di 43 anni siamo ancora qui a parlarne vuol dire non solo che il filtraggio è più che riuscito, ma che purtroppo quella società dei consumi che il regista intendeva colpire è ancora in piedi, saldamente al suo posto. Scritto a quattro mani con Rafael Azcona, La grande abbuffata rappresenta l’archetipo stilistico di Ferreri: vi si ritrovano, infatti, sublimati da immagini potenti e insieme moleste, i temi antropologici tanto cari al regista milanese: nutrizione, copulazione, deiezione. Insomma, è un film per palati forti tutto da consumare. A stomaco vuoto.

La grande abbuffata: trame e contenuti

Non ce l’hanno fatta i protagonisti de La grande abbuffata. Ugo (Ugo Tognazzi), Philippe (Philippe Noiret), Michel (Michel Piccoli) e Marcello (Marcello Mastroianni) non ce l’hanno fatta. Eppure ce l’avevano messa davvero tutta. Erano riusciti a diventare, rispettivamente, uno chef di successo, un giudice, un dirigente televisivo e un pilota di aerei; traguardi professionali di tutto rispetto con cui evidentemente si erano illusi di colmare quei disagi esistenziali atavici che si portavano dietro da sempre, di trovare un senso alle loro vite. Di essere finalmente compresi. Non è andata come speravano. La disillusione può assumere infinite forme e adattarsi perfettamente ad ogni circostanza. Hanno dovuto prenderne brutalmente atto, i quattro amici. A cominciare da Ugo, grande chef, che tuttavia non si sentiva davvero apprezzato, né da clienti solo affamati né soprattutto dalla moglie, sempre pronta a redarguirlo e a soffocare la sua vena artistica. Non andava meglio a Philippe, una vita sacrificata (scontando un deficit relazionale con il gentil sesso) per diventare magistrato inseguendo il sogno della giustizia: aveva scoperto ben presto che la giustizia e l’applicazione della legge raramente coincidono. Triste anche la parabola umana di Michel, un colto dirigente televisivo che non faceva che duellare, perdendo, con l’ignoranza alleata del consumismo che pressava per invadere gli studi televisivi. Per non parlare di Marcello, che aveva persuaso se stesso che la capacità di governare il mezzo più potente, l’aereo, avrebbe avuto un riverbero salvifico sulla sua disfunzione erettile: quanto si sbagliava.

Alla disperata ricerca di un’illusione, i quattro protagonisti de La grande abbuffata si decidono a chiedere aiuto a un caro amico in comune, Marco Ferreri, un regista dalle idee alquanto bizzarre, il quale senza mezzi termini consiglia loro di farla finita. Ma di farla finita in modo particolare, spettacolare. Devono abbandonare questo mondo lasciando il segno, polemicamente. La società non vuole uomini, bensì solo consumatori? Bene, che muoiano consumando, allora! Che si rinchiudano in una casa per appagare tutti i più bassi istinti! E affinché il loro sacrificio non sia inutile, Ferreri si propone di filmare il tutto per lasciarlo ai posteri, con grande onestà e senza prodursi in giudizi morali. Dire che i quattro disillusi si mostrano entusiasti dell’idea pare un po’ eccessivo, tuttavia si convincono dell’assenza di alternative, per cui accettano di buon grado il loro destino e qualche giorno dopo si riuniscono in una casa di proprietà di Philippe per quello che definiranno un “seminario gastronomico”. Mangeranno a tutte le ore del giorno e della notte, daranno fondo a tutta la loro avidità, insceneranno dei veri e propri duelli di consumismo: emblematica, da questo punto di vista, la sfida tra Ugo e Marcello a chi mangia più ostriche nel minor tempo possibile. E’ incredibile la pornografia di cibo stipata in ogni angolo di quella casa dell’edonismo: carne di maiale, pesce, pollame, formaggi, pasta, pizza, dolciumi di tutti i tipi. Le mani sapienti di Ugo sembrano conferire vita a queste leccornie che, insieme all’alcol, seguono i nostri personaggi ad ogni passo, li braccano a tutti gli effetti: a volte sembra che siano le pietanze a mangiare loro, e non viceversa.

Naturalmente il consumatore tipo non può rinunciare al sesso, perciò ad un certo punto si rende necessaria, per il compimento della missione, la presenza femminile. Detto fatto. Si aggiungeranno al banchetto delle prostitute nell’intento di appagare anche le pulsioni sessuali dei quattro; sennonché non tutto va come previsto, perché non tutti riusciranno a goderne appieno, a consumare come si deve. Anzi, magre e frivole, le donne ingaggiate finiranno col giudicare negativamente tutta quell’esagerazione cibaria e molleranno la casa del piacere. Chi, invece, mostrerà una grande comprensione, se non addirittura una sincera compassione per quei poveri consumatori disillusi sarà una maestra di scuola, Andrea (Andréa Ferréol), che, trovandosi nei paraggi della villa con la sua scolaresca, accetterà l’invito ad unirsi al seminario gastronomico.

Un documento antropologico scevro da moralismi ed ideologie

L’ingresso nella casa dell’opulenta e meravigliosa Andrea sarà un vero e proprio atto rivoluzionario: per la prima volta nella loro vita Ugo, Philippe, Marcello e Michel si sentiranno compresi da una donna, che offrirà letteralmente tutta se stessa. Li amerà incondizionatamente. Mangerà con loro e più di loro. Esaudirà tutti i loro desideri. Per questo Ferreri le riserva i primi piani migliori, per immortalare la sua dedizione totale. Ma nonostante la comprensione finalmente trovata, sarà troppo tardi, per i consumatori, tornare indietro e venir meno al patto suicida, anche perché il cibo si è divorato tutte le forze che occorrono per amare. Così, i quattro amici effettivamente si ingozzeranno fino a morire. Prima Marcello, poi Michel, poi Ugo, infine Philippe, il quale aveva persino temuto di tradire i compagni sopravvivendogli; ma gli verrà in soccorso ancora una volta Andrea preparandogli un dolce ipercalorico che si rivelerà fatale per il suo diabete: di lì a poco si accascerà mortalmente su una panchina in giardino. A questo punto tutto lascia supporre che, vista l’ingente quantità di cibo ingurgitata, la prossima a morire sarà proprio Andrea; e invece, come se nulla fosse, la donna entra nella casa lasciata ormai incustodita, e non si sa se per autocompiacersi di essere infinitamente più forte o perché, avendo terminato lì il suo lavoro compassionevole, deve prendere le sue cose e andare a curare altri disillusi. In entrambi i casi, ha vinto lei.

La grande abbuffata è una potente metafora sulla società che tutto divora, se stessa compresa, un racconto sui cambiamenti del costume italiano, senza imitare pedissequamente la realtà e soprattutto senza moralismi ed ideologie. Se nel sottovalutato La carne il regista ci dice l’evoluzione del pensiero e la  civilizzazione impediscono all’uomo di mangiare l’oggetto del proprio amore, ma, in casi di patologia ciò può accadere (l’amante uccide per gelosia o per paura della perdita l’amato/a, e il sesso in fondo è un mangiarsi reciproco), nel censurato La grande abbuffata ci mostra la degradazione (non a caso il Cahiers du cinéma inserì il film in una sorta di ideale “trilogia della degradazione” con Ultimo tango a Parigi  e a La maman et la putain) della nostra società edonista ed ideologica colta nei suoi gesti quotidiani.

La diva Sophia compie 80 anni

Ha compiuto 80 anni l’ultima diva del cinema, Sophia Loren, festeggiata in tutto il mondo. Ha vinto due volte il Premio Oscar e rimarrà nella storia del cinema soprattutto per le interpretazioni ne “La ciociara” di Vittorio De Sica e “Una giornata particolare” di Ettore Scola.

Conserva ancora il portamento altero, le labbra carnose, gli zigomi alti e lo sguardo sognante di quando era ragazza, Sophia Loren, l’ultima diva del cinema, vera protagonista indiscussa nello scorso Festival di Cannes, che il 20 settembre 2014 ha compiuto 80 anni che non hanno scalfito nè la sua bellezza nè il suo fascino mediterraneo, prorompente e leggera allo stesso tempo, internazionale e napoletana, sofisticata e semplice; sublime nel ruolo di popolana, a suo agio sia nel dramma che nella commedia, convincente in quello di donna borghese; Sophia è stata ed è tutto e il suo contrario cedendo alla sua passione per l’arte cinematografica e recitativa, e il pubblico di tutto il mondo ha ceduto al suo appeal stellare, dando vita ad un rapporto paritario: lei ci ha reso fieri di essere italiani e noi le abbiamo regalato la bellezza immortale delle dive.

Ma la vita di Sophia non è stata facile, per questo non la sivede come una dea irraggiungibile ma come un esempio di ragazza povera che ce l’ha fatta con cui identificarsi; prima di annoverarsi tra le stelle grazie ad impegno, talento, studio, determinazione, tenacia e fortuna, l’attrice di Pozzuoli ha patito la fame e la povertà durante la seconda guerra mondiale, protetta con le unghie e con i denti da una madre, Romilda Villani, che ha sempre sognato per lei un grande avvenire e desiderosa di riscattare la sua famiglia da quell’umiliante miseria.

 

Oscar alla carriera 1991

Sofia Scicolone Villani è nata a Roma, figlia del marchese siciliano Riccardo Scicolone Murillo, che riconobbe la piccola Sophia ma non sposò mai sua madre Romilda. Trascorre la sua tribolata infanzia e adolescenza a Pozzuoli fin quando, trasferitasi a Roma con sua madre, comincia pian piano la sua carriera con una quindicina di piccoli ruoli diretta, tra gli altri, anche da Fellini e Lattuada in Luci del varietà (1950) Mattoli in Tototarzan con Totò, sempre del 1950, Comencini in La tratta delle bianche (1952); poi il concorso di bellezza, che le fa vincere solo la fascia di Miss eleganza ma soprattutto che la fa notare al produttore Carlo Ponti (diverrà suo marito per ben due volte, in Italia e in Francia), che resta ammaliato dalla bellezza della giovanissima Sofia e il contratto di esclusiva che per lui firma nel 1951. Da qui comincia la cavalcata che la porta da Sofia Scicolone a Sofia Lazzaro e da Sofia Lazzaro a Sophia Loren per diventare un’attrice internazionale, passando anche dai fotoromanzi. Recita truccatissima nell‘Aida, di Clemente Fracassi nel 1953, dove canta con la voce di Renata Tebaldi. Ma il primo film destinato a fare storia è Carosello napoletano di Ettore Giannini (1954) poi di nuovo al fianco di Totò in Tempi nostri per la regia Alessandro Blasetti, e in Miseria in nobiltà, e infine con il suo pigmalione e amico Vittorio De Sica, ne L’oro di Napoli, dove interpreta un’indimenticabile e seducente pizzaiola,  e con il suo partner di tanti film, Marcello Mastroianni in Peccato che sia una canaglia ancora di Blasetti.

 

Sophia diventa un’incona, il simbolo erotico dell’Italia del dopoguerra che predilige bellezze opulente e generose come quella della Loren e della sua rivale Gina Lollobrigida, della quale prende anche il posto del terzo episodio della trilogia di Pane, amore e… di Dino Risi, del 1956. Il successo internazionale arriva grazie anche alla celebre copertina di Life che la incorona come emblema della bellezza mediterranea. Carlo Ponti, che intanto convive con lei destando scandalo poiché non può divorziare dalla prima moglie secondo la legge italiana, la accompagna a Hollywood dove trova attori come Cary Grant (suo partner in Un marito per Cinzia), il quale non esita a corteggiarla, ma inutilmente, Frank Sinatra, John Wayne, William Holden, Anthony Perkins, Richard Burton, Burt Lancaster, Gregory Peck, Peter O’ Toole e Marlon Brando con il quale recita ne La Contessa di Hong Kong (1967) per la regia di Charlie Chaplin. Viene diretta da Kramer nel film Orgoglio e passione (1957), da Ritt in Orchidea nera (1958), da Shavelson ne La baia di Napoli (1960), da Curtiz in Olympia (1960). Ma nonostante questa felice avventura americana in cui si confronta alla grande con le dive più popolari come Marilyn Monroe, Liz Taylor ed Ingrid Bergman, è in patria che avviene la consacrazione di Sophia.

 

Il celebre spogliarello del film “Ieri, oggi, domani”

Vittorio De Sica la dirige magnificamente nell’ultimo sussulto neorealista, La ciociara (1960) dove la Loren dà un’interpretazione tragica e sconquassante di Cesira, una giovane vedova e madre che, con la figlioletta Rosetta (Eleonora Brown), durante la guerra cerca rifugio tra i monti della Ciociaria per sfuggire ai bombardamenti. Il film, come sappiamo, è valso il primo Oscar alla Loren come migliore attrice protagonista. In realtà il ruolo di Cesira  fu offerto, in un primo momento, alla grandissima Anna Magnani con la regia di Cukor; alla Loren sarebbe spettato invece il ruolo della figlia.  Ma quando la vulcanica  Magnani, celebre anche per il suo caratteraccio, seppe della scelta del cast si fece una risata dicendo: «La Loren mia figlia? Nella scena dello stupro degli egiziani, ci sarà da star attenti che lei non stupri loro!» e rifiutò la parte.

De Sica continua a valorizzare il talento dell’attrice campana in I sequestrati di Altona (1962) e soprattutto negli indimenticabili Ieri, oggi, domani (1963) che le frutta un altro David, per l’interpretazione di tre personaggi femminili diversi, Matrimonio all’italiana (1964) dove dà vita ad una strepitosa Filumena Marturano, ottenendo un altro David e due nominations per l‘Oscar e i Golden Globe, I girasoli (1970) accanto al suo amico Mastroianni che sarà ancora suo partner ne La moglie del prete (1971) di Risi. Si cimenta anche nel fantasy con C’era una volta…(1967) di Rosi, recita per Monicelli ne La mortadella e  per Huston in Angela, probabilmente il peggior film della carriera della Loren, ma soprattutto con Gassman in Questi fantasmi, per la regia di Eduardo De Filippo.

Una scena del film “La ciociara”

Alla serie di film sbagliati o poco riusciti, a parte il drammatico Cassandra Crossing, si aggiunge un’inchiesta della Tributaria che coinvolge l’attrice e il marito nel 1978. Il caso finisce nel 1982 e la Loren viene incarcerata per 17 giorni nel penitenziario di Caserta per frode fiscale, poi attribuita al suo commercialista. Con la solita tenacia che la contraddistingue, riabilita la sua immagine lavorando in televisione in film tv come Madre coraggio (1986) e la miniserie Mamma Lucia (1988) di Stuart Cooper con John Turturro. Nel 1995 recita accanto a Jack Lemmon e Walter Matthau in That’s Amore – Due improbabili seduttori.

Nel 1991 vince il César onorario e, lo stesso anno si aggiudica anche l‘Oscar alla Carriera con la seguente motivazione dell’Academy: «Uno dei tesori più autentici del cinema mondiale che, nel corso delle sue memorabili interpretazioni, ha portato grande lustro a questa forma d’arte». Nel 1994, arriva l‘Orso d’Oro onorario e il 26 giugno 1996 viene nominata Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Il 1977 Sophia torna a risplendere come ai tempi dei film con De Sica nello struggente capolavoro firmato da Ettore Scola, Una giornata particolare, dove interpreta Antonietta, moglie di un fascista, casalinga trasandata ed infelice e madre di sei figli, che, nell’ultimo giorno di Hitler a Roma, incontra Gabriele (Mastroianni), intellettuale omosessuale destinato al confino. Il film le frutta un David e un Nastro d’Argento.

 

Sophia Loren con Marcello Mastroianni in una scena di “Ieri, oggi, domani”

Nel 1978 Sophia è diretta da Lina Wertmuller in Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova (si sospettano moventi politici). Nel 1994 replica il celebre spogliarello di Ieri, oggi, domani con Marcello Mastroianni, che però stavolta si addormenta in Prêt- à-porter di Robert Altman con Tim Robbins e Julia Roberts, grazie al quale viene nominata al Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Nel 2002 viene diretta da suo figlio Edoardo in Cuori estranei, prende simpaticamente ad alcuni spot pubblicitari e, nel 2007, si regala perfino un Calendario Pirelli. Nel 2009, recita nel (deludente) musical Nine con Daniel Day-Lewis e Nicole Kidman.

Più diva o più attrice? Già, perché alcuni pensano che Sophia Loren non abbia talento, che abbia solo una bellissima ed irresistibile immagine, sapientemente gestita, che abbia avuto successo e abbia vinto premi solo perché sposata con un grande produttore cinematografico che, per amore e stima, le ha costruito una straordinaria carriera. Sophia è stata ed è una diva perché è stata ed è una grande attrice, perché lo ha voluto con tutta se stessa, impegnandosi e migliorandosi di volta in volta, con l’entusiamo di sempre, come dimostra il suo ultimo importante lavoro diretto da suo figlio Edoardo, La voce umana, dello scrittore Jean Cocteau il cui monologo è divenuto già cinema con l’Amore di Rossellini, avente come protagonista una magnifica Anna Magnani.

La Loren ha meritato tutto quello che ha conquistato, perché bellezza, passione e il talento senza ambizione, intelligenza, umiltà e spirito di abnegazione, non bastano per diventare l’attrice italiana più famosa nel mondo, amata per la sua solarità e spontaneità, ben lontana dall’essere una diva altezzosa che non si concede al suo pubblico. Dubitiamo che molte  giovani leve, italiane e non, che tanto vorrebbero somigliarle riescano a percorrere una carriera simile, posando per il Calendario Pirelli a 70 anni. Se volessimo riassumere velocemente la versatilità di Sophia Loren attraverso due fotogrammi, sceglieremmo il ballo con De Sica in Pane, amore, e… e quello che la vede scagliare la pietra contro la camionetta di soldati, dopo la violenza subita dai nord-africani ne La ciociara.

Di Annalina Grasso

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