Croccolo addio, Napoli ti saluta!

Si è spento oggi all’eta di 92 anni Carlo Croccolo, artista napoletano con un curriculum di tutto rispetto nel grande schermo. Attore, doppiatore, regista e sceneggiatore, conosciuto ai più per il suo ruolo nella popolare serie televisiva “Capri” in cui vestiva i panni dell’amabile marinaio Totonno. Non meno per le sue notissime apparizioni accanto ai grandi del cinema napoletano; in primis Totò e i fratelli De Filippo.

Biografia

Carlo Croccolo nasce a Napoli il 9 aprile del 1927. Esordisce in radio, all’età di circa 23 anni, con la commedia “Don Ciccillo si gode il sole”. Successivamente calca il palcoscenico teatrale ne “L’Anfiparnaso” diretto dal regista torinese Mario Soldati. Nel 1950 l’attore napoletano recita nel film comico del tolentino Mario Mattoli, “I cadetti di Guascogna”, nelle vesti di Pinozzo. Ma è nell’89 che arriva la prima gratificazione: il David di Donatello per il film “O Re” diretto da Luigi Magni.

Alla fama, quella vera, Croccolo giunge accanto agli illustri comici napoletani Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, in film come “Totò lascia o raddoppia?”,”47 morto che parla”, “Signori si nasce” (diretto nuovamente da Mattoli), “Miseria e nobiltà”, e ancora “Ragazze da marito” e “Non è vero..ma ci credo” (tratto dall’omonima commedia in tre atti scritta proprio da Peppino).

Croccolo e il doppiaggio

Il poliedrico artista napoletano vanta una carriera eccelsa composta da numerose perfomance teatrali e che sfiora la vetta di oltre 100 film. Risulta fervente e intensa inoltre la sua attività di doppiaggio. Croccolo presta infatti la sua voce al notissimo duetto comico Stanlio e Ollio (interpretati dall’inglese Stan Laurel e dallo statunitense Oliver Hardy), nei film “L’eredità”, “Tempo di pic-nic”, “Un marito servizievole”, etc. Nei primi anni ’50 doppia, con grande orgoglio, proprio lo stesso Totò (si dice addirittura che fosse stato l’unico ad avere questo privilegio), e altri celebri personaggi come Vittorio De Sica ne “I due marescialli”, Renato Carosone in “Caravan petrol”, Nino Taranto in “Stasera mi butto” e molti altri.

Napoli probabilmente darà l’ultimo saluto a suo figlio domani presso la Chiesa di San Ferdinando. “Addio, Carlo, la tua arte resterà eterna.”

 

Ricordando Vittorio De Sica

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Quarant’anni fa, esattamente il 13 novembre 1974, si spegneva in un ospedale parigino in seguito all’aggravarsi di un intervento chirurgico per un tumore polmonare, il regista e attore Vittorio De Sica, tra i padri del neorealismo, vincitore di quattro premi Oscar, una Palma d’oro ed un Orso d’oro.

Elegante, di classe, poliedrico, giocatore incallito, autoironico, scanzonato, intuitivo, geniale. Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974), che sin da piccolo si dilettava nella recitazione e nel cantare canzoni napoletane, ancora oggi rimane un enigma nel panorama culturale italiano ed internazionale: nessuno come lui, in Italia, a parte Fellini, Rossellini, Visconti ed Antonioni ha lasciato un’eredità così grande ed importante, influenzando scuole, registi e autori. Da Kurosawa a Spielberg, da Chaplin ad Altman, il nome di De Sica ha condizionato e condiziona numerose pellicole straniere e ciò non sorprende se si pensa che un capolavori come Sciuscià e Ladri di biciclette, allo loro uscita, furono snobbati in Italia, mentre all’estero, specialmente in America conobbero un grandissimo successo sia di critica che di pubblico. Ma la leggenda di questo poeta del cinema è segnata da contraddizioni e da mille sfumature, come la sua vita; l’arte e la vita sembrano fondersi una con l’altra, all’insegna della dispersione e del moltiplicarsi di identità. De Sica, prima di diventare regista, è stato attore e cantante (come non ricordarci della canzone Parlami d’amore Mariù), poi attore e regista contemporaneamente (Maddalena zero in condotta, del 1941, Teresa venerdi, dello stesso anno, Un garibaldino in convento, del 1942), ha partecipato a pellicole non degne del suo talento per far fronte ai debiti di gioco, passione che ha riportato in maniera giocosa in diversi suoi personaggi cinematografici, come ne Il conte Max e ne L’oro di Napoli. Divorziato dall’attrice Giuditta Rissone, pur essendosi risposato con l’attrice spagnola Maria Mercader in Francia, De Sica non ha mai saputo rinunciare alla sua prima famiglia e ha avviato così una doppia “relazione”, con doppi pranzi nelle feste.

L’eredità artistica e dispersiva di Vittorio De Sica è strettamente legata alla napoletanità, con il suo romanzo popolare e con la sua sceneggiata, e alle vicende cinematografiche dello sceneggiatore Cesare Zavattini, con il quale ha dato vita a capolavori universali senza mai cadere nella becera ideologia, di cui purtroppo soffrono diversi autori intellettualoidi nostrani, ma andando sempre alla ricerca del dato umano, aspetto che ha fatto sì che i film del regista fossero considerati “un’incarnazione dell’essenza del Cristianesimo”. De Sica ha sempre sentito il bisogno di raccontare la gente e il vero, la realtà, e viveva il proprio mestiere come un dovere morale; sulla stessa onda del suo sceneggiatore Zavattini, del resto. Attraverso il suo cinema, De Sica, come altri neorealisti, ha segnato l’avvento di una nuova estetica nella coscienza collettiva ed esistenziale dell’uomo: si prende atto del disagio ontologico dell’essere umano, quello stato in cui si capisce che non esiste un agire, un fare che possa migliorare la nostra condizione. E questo si riflette nei suoi film. Il contesto in cui sono nate le opere neorealiste è quello del verismo melodrammatico ma la sostanza contiene qualcosa di più profondo e di inatteso: si assiste ad una lucida ed amara riflessione in pubblico senza falsi pudori e moralismi, sulle sofferenze di tutti gli individui, buoni o cattivi che siano.

Vittorio De Sica e Gina Lollobrigia in una scena dal film “Pane amore e fantasia”

Con I bambini ci guardano (1943) di De Sica e con Ossessione, dello stesso anno, di Visconti, infatti non si pronunciano giudizi, si accetta ciò che il destino ci riserva e si pratica la virtù cristiana della compassione anche verso chi, grande novità, non lo merita. Sia De Sica che Visconti si sono trovati sulla medesima strada che in realtà è stata percorsa anche Rossellini. Tutti e tre si sono preoccupati di dissipare quel groviglio di equivoci che la critica ha accumulato riguardo il neorealismo, per il quale non è stata solo questione di girare “dal vero”, in mezzo alla gente, preferendo uomini comuni ad attori professionisti. Questi aspetti non sono altro che conseguenza di un complesso di circostanze, di culture, di costrizioni che il dopoguerra ha rovesciato sul cinema.

Se Rossellini è stato il regista “stoico” del neorealismo, De Sica ne ha rappresentato il lato sentimentale. Ha iniziato come simpatico attore del teatro leggero e delle commedie di Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni…del 1932, Darò un milione del 1935, Il Signor Max del 1937, Grandi Magazzini del 1939) nonché di altre numerose commedie, soprattutto in coppia con la diva Assia Noris, che i “telefoni bianchi” gli hanno offerto; poi l’incontro, che si rivelerà felice, con il grande Zavattini.

 

Uno straordinario Vittorio De Sica nel film “Il Generale Della Rovere”

I film desichiano scorre senza asprezze, sobri anche dei momenti patetici; pensiamo a Sciuscià (1946), vincitore di un Oscar, che narra con immensa delicatezza l’avventura da fiaba di due lustrascarpe romani nel periodo più drammatico del dopoguerra: finirà anch’essa in tragedia. Qui Zavattini si abbandona, nell’invenzione di partenza (i due ragazzi sognano di comprarsi un cavallo bianco con i loro risparmi) alle risorse del suo essere spesso giocoliere, ma De Sica lo tiene a freno, inducendolo a mettere a disposizione la sua fervida fantasia a servizio della drammatica esperienza che vivono di due protagonisti. Due anni dopo De Sica racconta un’altra indimenticabile fiaba metropolitana: Ladri di biciclette. Qui il regista consegna delicatamente la storia di un padre disoccupato e del suo figlioletto, a Roma, alle sue strade, ai suoi mercati, e lo fa con commozione e pudore. Quattro anni dopo il regista asciuga il suo stile, rendendolo meno elegiaco e Zavattini rinuncia al gusto del gioco; insieme allestiscono un contesto reale; nasce un altro capolavoro: Umberto D. (che viene da un’altra fiaba metropolitana, il surreale Miracolo a Milano, del 1951, Palma d’oro al Festival di Cannes. La vicenda dell’anziano pensionato cacciato di casa perché non paga l’affitto non è che un aneddoto. In realtà Umberto D. è un tragico documento sociale, il protagonista e la servetta sono vittime dell’ingiustizia ma non sono abbastanza esperti per opporvisi; i loro nemici sono, senza differenze ed ipocrisie, sia la Roma piccolo-borghese che quella popolare: volgare ed egoista. De Sica vuole essere più oggettivo e ci riesce, il suo sguardo è spietato, appoggiandosi ad un’impostazione narrativa classica di stampo hollywoodiano.

 

Una scena dal film “Umberto D.”

Col passare degli anni il regista, dopo aver riprodotto senza successo ultimi scampoli neorealisti: Il tetto del 1956 Il Giudizio Universale del 1961 (ma è anche diretto magistralmente da Rossellini ne Il Generale Della Rovere del 1959 e recita con Totò ne I due marescialli del 1961) e successi commerciali come Il boom, Ieri, oggi, domani,entrambi del 1963, Matrimonio all’italiana, del 1964, I girasoli del 1970, approda ad un cinema più intenso, manieristico che culmina nell’Oscar per Il giardino dei Finzi Contini del 1970, film della discordia tra lui e lo scrittore Bassani che non riconosceva lo spirito del suo romanzo dell’omonima pellicola.

Ma cosa ricordiamo maggiormente di Vittorio De Sica oltre agli imprescindibili capolavori neorealisti che hanno reso grande in tutto in mondo il nostro cinema, facendo storcere il naso alla D.C., secondo la quale il grande regista, attraverso i suoi film, dava un’immagine che non faceva onore all’Italia? Senza dubbio la sua capacità di far rendere al massimo gli attori che dirigeva, basti pensare alla strepitosa interpretazione, che le è valso l’Oscar, di Sophia Loren nel La ciociara (1960).

Di De Sica attore oggi restano la simpatia del protagonista di Pane, amore e fantasia o de Il processo di Frine, la commozione de Il Generale Della Rovere e una grande umanità che ha saputo trasmettere soprattutto ai suoi attori, primi fra tutti Marcello Mastroianni e Sophia Loren. A chi oggi, vedendo Ladri di biciclette piuttosto che Umberto D., afferma: Dov’è il capolavoro? rispondiamo che la genialità di De Sica sta nell’aver riunito dentro di se tante anime che hanno rappresentato il nostro Paese attraverso i suoi momenti più tragici ed esaltanti, avendo come stella polare un’idea pura del cinema che si manifesta in uno sguardo nitido ed immediato sulla realtà, più potente di un effetto speciale, che lo rende universale ed immortale, che lo pone nell’Olimpo artistico dei “maestri di cinema” e non dei pittori della domenica.

La diva Sophia compie 80 anni

Ha compiuto 80 anni l’ultima diva del cinema, Sophia Loren, festeggiata in tutto il mondo. Ha vinto due volte il Premio Oscar e rimarrà nella storia del cinema soprattutto per le interpretazioni ne “La ciociara” di Vittorio De Sica e “Una giornata particolare” di Ettore Scola.

Conserva ancora il portamento altero, le labbra carnose, gli zigomi alti e lo sguardo sognante di quando era ragazza, Sophia Loren, l’ultima diva del cinema, vera protagonista indiscussa nello scorso Festival di Cannes, che il 20 settembre 2014 ha compiuto 80 anni che non hanno scalfito nè la sua bellezza nè il suo fascino mediterraneo, prorompente e leggera allo stesso tempo, internazionale e napoletana, sofisticata e semplice; sublime nel ruolo di popolana, a suo agio sia nel dramma che nella commedia, convincente in quello di donna borghese; Sophia è stata ed è tutto e il suo contrario cedendo alla sua passione per l’arte cinematografica e recitativa, e il pubblico di tutto il mondo ha ceduto al suo appeal stellare, dando vita ad un rapporto paritario: lei ci ha reso fieri di essere italiani e noi le abbiamo regalato la bellezza immortale delle dive.

Ma la vita di Sophia non è stata facile, per questo non la sivede come una dea irraggiungibile ma come un esempio di ragazza povera che ce l’ha fatta con cui identificarsi; prima di annoverarsi tra le stelle grazie ad impegno, talento, studio, determinazione, tenacia e fortuna, l’attrice di Pozzuoli ha patito la fame e la povertà durante la seconda guerra mondiale, protetta con le unghie e con i denti da una madre, Romilda Villani, che ha sempre sognato per lei un grande avvenire e desiderosa di riscattare la sua famiglia da quell’umiliante miseria.

 

Oscar alla carriera 1991

Sofia Scicolone Villani è nata a Roma, figlia del marchese siciliano Riccardo Scicolone Murillo, che riconobbe la piccola Sophia ma non sposò mai sua madre Romilda. Trascorre la sua tribolata infanzia e adolescenza a Pozzuoli fin quando, trasferitasi a Roma con sua madre, comincia pian piano la sua carriera con una quindicina di piccoli ruoli diretta, tra gli altri, anche da Fellini e Lattuada in Luci del varietà (1950) Mattoli in Tototarzan con Totò, sempre del 1950, Comencini in La tratta delle bianche (1952); poi il concorso di bellezza, che le fa vincere solo la fascia di Miss eleganza ma soprattutto che la fa notare al produttore Carlo Ponti (diverrà suo marito per ben due volte, in Italia e in Francia), che resta ammaliato dalla bellezza della giovanissima Sofia e il contratto di esclusiva che per lui firma nel 1951. Da qui comincia la cavalcata che la porta da Sofia Scicolone a Sofia Lazzaro e da Sofia Lazzaro a Sophia Loren per diventare un’attrice internazionale, passando anche dai fotoromanzi. Recita truccatissima nell‘Aida, di Clemente Fracassi nel 1953, dove canta con la voce di Renata Tebaldi. Ma il primo film destinato a fare storia è Carosello napoletano di Ettore Giannini (1954) poi di nuovo al fianco di Totò in Tempi nostri per la regia Alessandro Blasetti, e in Miseria in nobiltà, e infine con il suo pigmalione e amico Vittorio De Sica, ne L’oro di Napoli, dove interpreta un’indimenticabile e seducente pizzaiola,  e con il suo partner di tanti film, Marcello Mastroianni in Peccato che sia una canaglia ancora di Blasetti.

 

Sophia diventa un’incona, il simbolo erotico dell’Italia del dopoguerra che predilige bellezze opulente e generose come quella della Loren e della sua rivale Gina Lollobrigida, della quale prende anche il posto del terzo episodio della trilogia di Pane, amore e… di Dino Risi, del 1956. Il successo internazionale arriva grazie anche alla celebre copertina di Life che la incorona come emblema della bellezza mediterranea. Carlo Ponti, che intanto convive con lei destando scandalo poiché non può divorziare dalla prima moglie secondo la legge italiana, la accompagna a Hollywood dove trova attori come Cary Grant (suo partner in Un marito per Cinzia), il quale non esita a corteggiarla, ma inutilmente, Frank Sinatra, John Wayne, William Holden, Anthony Perkins, Richard Burton, Burt Lancaster, Gregory Peck, Peter O’ Toole e Marlon Brando con il quale recita ne La Contessa di Hong Kong (1967) per la regia di Charlie Chaplin. Viene diretta da Kramer nel film Orgoglio e passione (1957), da Ritt in Orchidea nera (1958), da Shavelson ne La baia di Napoli (1960), da Curtiz in Olympia (1960). Ma nonostante questa felice avventura americana in cui si confronta alla grande con le dive più popolari come Marilyn Monroe, Liz Taylor ed Ingrid Bergman, è in patria che avviene la consacrazione di Sophia.

 

Il celebre spogliarello del film “Ieri, oggi, domani”

Vittorio De Sica la dirige magnificamente nell’ultimo sussulto neorealista, La ciociara (1960) dove la Loren dà un’interpretazione tragica e sconquassante di Cesira, una giovane vedova e madre che, con la figlioletta Rosetta (Eleonora Brown), durante la guerra cerca rifugio tra i monti della Ciociaria per sfuggire ai bombardamenti. Il film, come sappiamo, è valso il primo Oscar alla Loren come migliore attrice protagonista. In realtà il ruolo di Cesira  fu offerto, in un primo momento, alla grandissima Anna Magnani con la regia di Cukor; alla Loren sarebbe spettato invece il ruolo della figlia.  Ma quando la vulcanica  Magnani, celebre anche per il suo caratteraccio, seppe della scelta del cast si fece una risata dicendo: «La Loren mia figlia? Nella scena dello stupro degli egiziani, ci sarà da star attenti che lei non stupri loro!» e rifiutò la parte.

De Sica continua a valorizzare il talento dell’attrice campana in I sequestrati di Altona (1962) e soprattutto negli indimenticabili Ieri, oggi, domani (1963) che le frutta un altro David, per l’interpretazione di tre personaggi femminili diversi, Matrimonio all’italiana (1964) dove dà vita ad una strepitosa Filumena Marturano, ottenendo un altro David e due nominations per l‘Oscar e i Golden Globe, I girasoli (1970) accanto al suo amico Mastroianni che sarà ancora suo partner ne La moglie del prete (1971) di Risi. Si cimenta anche nel fantasy con C’era una volta…(1967) di Rosi, recita per Monicelli ne La mortadella e  per Huston in Angela, probabilmente il peggior film della carriera della Loren, ma soprattutto con Gassman in Questi fantasmi, per la regia di Eduardo De Filippo.

Una scena del film “La ciociara”

Alla serie di film sbagliati o poco riusciti, a parte il drammatico Cassandra Crossing, si aggiunge un’inchiesta della Tributaria che coinvolge l’attrice e il marito nel 1978. Il caso finisce nel 1982 e la Loren viene incarcerata per 17 giorni nel penitenziario di Caserta per frode fiscale, poi attribuita al suo commercialista. Con la solita tenacia che la contraddistingue, riabilita la sua immagine lavorando in televisione in film tv come Madre coraggio (1986) e la miniserie Mamma Lucia (1988) di Stuart Cooper con John Turturro. Nel 1995 recita accanto a Jack Lemmon e Walter Matthau in That’s Amore – Due improbabili seduttori.

Nel 1991 vince il César onorario e, lo stesso anno si aggiudica anche l‘Oscar alla Carriera con la seguente motivazione dell’Academy: «Uno dei tesori più autentici del cinema mondiale che, nel corso delle sue memorabili interpretazioni, ha portato grande lustro a questa forma d’arte». Nel 1994, arriva l‘Orso d’Oro onorario e il 26 giugno 1996 viene nominata Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Il 1977 Sophia torna a risplendere come ai tempi dei film con De Sica nello struggente capolavoro firmato da Ettore Scola, Una giornata particolare, dove interpreta Antonietta, moglie di un fascista, casalinga trasandata ed infelice e madre di sei figli, che, nell’ultimo giorno di Hitler a Roma, incontra Gabriele (Mastroianni), intellettuale omosessuale destinato al confino. Il film le frutta un David e un Nastro d’Argento.

 

Sophia Loren con Marcello Mastroianni in una scena di “Ieri, oggi, domani”

Nel 1978 Sophia è diretta da Lina Wertmuller in Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova (si sospettano moventi politici). Nel 1994 replica il celebre spogliarello di Ieri, oggi, domani con Marcello Mastroianni, che però stavolta si addormenta in Prêt- à-porter di Robert Altman con Tim Robbins e Julia Roberts, grazie al quale viene nominata al Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Nel 2002 viene diretta da suo figlio Edoardo in Cuori estranei, prende simpaticamente ad alcuni spot pubblicitari e, nel 2007, si regala perfino un Calendario Pirelli. Nel 2009, recita nel (deludente) musical Nine con Daniel Day-Lewis e Nicole Kidman.

Più diva o più attrice? Già, perché alcuni pensano che Sophia Loren non abbia talento, che abbia solo una bellissima ed irresistibile immagine, sapientemente gestita, che abbia avuto successo e abbia vinto premi solo perché sposata con un grande produttore cinematografico che, per amore e stima, le ha costruito una straordinaria carriera. Sophia è stata ed è una diva perché è stata ed è una grande attrice, perché lo ha voluto con tutta se stessa, impegnandosi e migliorandosi di volta in volta, con l’entusiamo di sempre, come dimostra il suo ultimo importante lavoro diretto da suo figlio Edoardo, La voce umana, dello scrittore Jean Cocteau il cui monologo è divenuto già cinema con l’Amore di Rossellini, avente come protagonista una magnifica Anna Magnani.

La Loren ha meritato tutto quello che ha conquistato, perché bellezza, passione e il talento senza ambizione, intelligenza, umiltà e spirito di abnegazione, non bastano per diventare l’attrice italiana più famosa nel mondo, amata per la sua solarità e spontaneità, ben lontana dall’essere una diva altezzosa che non si concede al suo pubblico. Dubitiamo che molte  giovani leve, italiane e non, che tanto vorrebbero somigliarle riescano a percorrere una carriera simile, posando per il Calendario Pirelli a 70 anni. Se volessimo riassumere velocemente la versatilità di Sophia Loren attraverso due fotogrammi, sceglieremmo il ballo con De Sica in Pane, amore, e… e quello che la vede scagliare la pietra contro la camionetta di soldati, dopo la violenza subita dai nord-africani ne La ciociara.

Di Annalina Grasso

Umberto D. di Vittorio De Sica: storia di un capolavoro

Una pietra miliare della storia del cinema, una delle vette del Neorealismo, il capolavoro Umberto D. di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, alla sua uscita, nel 1952,  a sette anni dall’altro capolavoro neorealista Roma città aperta di Roberto Rossellini, è stato oggetto di forti polemiche sia da destra (famoso l’intervento dell’onorevole Giulio Andreotti, che accusò De Sica di eccessivo pessimismo e di non ricordare che l’Italia era anche patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione sociale), sia da sinistra, per la mitologia del “personaggio positivo”, che il film smentiva, non prestandosi a essere semplicisticamente definito “un appello alla solidarietà umana”. Certamente Umberto D. è stato sottovalutato, complici i giudizi provenienti da destra e da sinistra e la crisi dello stesso neorealismo, con l’Italia che si avviava al boom economico, la fortuna che avrebbero avuto da li a poco i film mitologici e la nascita della televisione.

Realizzato grazie al coraggioso produttore Giuseppe Amato, il film  incassa forse la metà di quanto speso e risulta un clamoroso flop del neorealismo italiano. Ma Umberto D. è più che mai una pellicola di successo, un punto di riferimento per moltissimi cinefili ed addetti ai lavori, un monumento della nostra cultura che non smetterà mai di essere celebrato, nè di commuoverci.

Ma come nasce questo capolavoro? La risposta sta proprio nel volume dello sceneggiatore Zavattini, Umberto D. Dal soggetto alla sceneggiatura, divenuto ormai un libro cult per i bibliomani, un testo fondamentale per tutti gli studiosi di scrittura cinematografica. Il modo di scrivere di Zavattini infatti è rivoluzionario, e non solo per l’Italia: lo stesso Martin Scorsese ha ammesso come il cinema italiano abbia profondamente influenzato la sua regia. Con questo libro Zavattini ha voluto dimostrarecome da una semplice idea di poche righe si possa sviluppare un intero film.

Umberto D. racconta la realtà come fosse una storia, tentativo che nasce dall’impegno di Zavattini di porsi contro l’eccezionale a favore del quotidiano senza timori, perchè, secondo lui, “il banale non esiste” e chi fa cinema non deve avere paura del banale. Il percorso della scrittura di Umberto D. è esemplare e propedeutico per chi volesse intraprendere il mestiere dello sceneggiatore. Come Miracolo a Milano e Ladri di biciclette, Umberto D. funge da modello per la personalità di uomo di cinema di Zavattini, così predominante ed originale, che gli ha consentito di conquistare un nuovo stile che risponde ad un preciso mondo morale. In Umberto D. come in tutti i film neorealisti il normale diviene eccezionale, spettacolo; è una banale  e spettacolare avventura quotidiana vissuta da un anziano (interpretato da un professore di glottologia, Carlo Battisti) con il suo fedele cagnolino Flik.

Sullo sfondo di una Roma traboccante di gente produttiva, Umberto D., che abita presso una donna che fitta camere, cerca di affrontare con dignità la miseria economica, la vecchiaia e  la solitudine esistenziale. L’unico rapporto lo instaura con la servetta Maria (Maria Pia Casilio), chiedere la carità per lui, è troppo degradante e umiliante.

Lo sguardo di De Sica è fulgido, catartico in tutta la sua essenzialità, anche quando si tratta dei propositi suicidi del protagonista che sarà salvato proprio dal suo cagnolino, mentre l’ambiente circostante è occupato da bambini (che nel cinema di De Sica hanno sempre un ruolo “purificante”) intenti a giocare: il futuro della società è nelle loro mani…

C’è  ancora speranza? La domanda sembra avere risposta positiva, in riferimento alle nuove generazioni, ma il film tenta un cambio di rotta, segnando un passaggio storico; il mondo infatti stava precipitando nell’incubo del conflitto nucleare, mentre l’Italia era sempre più alle dipendenze degli USA, come dimostrano anche la quantità di film di Hollywood che invadeva le sale italiane.

A proposito del titolo del film, Zavattini afferma: <<Mi venne in mente il titolo Umberto D. come mi sarebbe potuto venire in mente Antonio D. Poi cercai di giustificarlo con una brevissimascena sul Campidoglio in cui Umberto doveva dare il proprio nome e cognome ai dimostranti che avevano scelto casualmente lui con altri quattro o cinque per recarsi dal sindaco a protestare in nome dei proprietari di cani troppo tassati; e Umberto modestamente diceva; “Umberto Domenico Ferrari…ma può scrivere: Umberto D. Ferrari…basta”. Quando sotituii il corteo dei padroni di cani con il corteo dei pensionati, riallacciandomi all’idea del soggetto, misi una situazione quasi identica nell’ospedale dove gli scioperanti della fame raccoglievano firme di solidarietà; infatti il vecchio diceva agli agitati raccoglitori di firme: “Basta Umberto D. Ferrari”. Ma lo sciopero, fu uno dei tagli grossi che De Sica e io decidemmo di fare dopo che il film fu girato>>.

 

 

 

Il cinema secondo Cesare Zavattini

Cesare Zavattini (Luzzara, 20 settembre 1902 – Roma, 13 ottobre 1989) è stato tra i più grandi sceneggiatori che il cinema italiano abbia mai avuto, grazie a lui l’Italia ha scoperto “l’attualità” anche nei film. Capolavori come Ladri di biciclette, Umberto D., I bambini ci guardano, Quattro passi tra le nuvole, Sciuscià, Miracolo a Milano, portano la sua firma di sceneggiatore. Sono di estremo interesse le sue riflessioni sul cinema, le quali ci fanno comprendere meglio anche la stagione neorealista e le sue origini. Il nostro cinema, grazie alla guerra, ha scoperto la quotidianità, la fame, la miseria e lo sfruttamento. Ciò che permetteva di scoprire l’attualità era, come lo definiva lo stesso Zavattini, lo “spirito d’inchiesta”, che ci permette di analizzare dietro un episodio o anche un semplice oggetto.

La caratteristica più importante del Neorealismo, secondo Zavattini, è quella di essersi accorto che la necessità della storia non era altro che un modo inconscio di nascondere una nostra sconfitta umana e che l’immaginazione si occupava di sovrapporre degli schemi morti a dei fatti socialmente vivi. Ma non bisogna meravigliarsi se il cinema ha sempre sentito l’urgenza naturale di una storia da inserire nella realtà, per renderla più appetibile e appassionante per lo spettatore che spesso vuole evadere dalla realtà. Ma la realtà, afferma Zavattini, è enormemente ricca , basta saperla guardare.

Secondo lo sceneggiatore di Luzzara, il compito dell’artista non è quello di portare l’uomo ad indignarsi e a commuoversi per dei traslati, ma quello di portarlo a riflettere sulle cose che fa e che gli altri fanno, sulle cose reali. Dice lo stesso Zavattini durante una conversazione con il regista Michele Gandin per conto della “Rivista del cinema italiano”, poi riportata nel libro di Zavattini, Dal soggetto alla sceneggiatura, come si scrive un capolavoro: Umberto D. del 2005: “Per me si tratta di una conquista enorme. Vorrei esserci arrivato molti anni prima. Invece ho fatto questa scoperta solo alla fine della guerra. Si tratta di una scoperta morale, di un richiamo all’ordine. Ho visto finalmente cosa avevo davanti e ho capito che tutto quello che si faceva evadendo dalla realtà era un tradimento”. Da un’inconsapevole sfiducia nella realtà, quindi si passa ad una fiducia sconfinata nei fatti e negli uomini, ciò comporta la necessità di andare a fondo nelle cose, di scavare di conferire potenza alla realtà, questo è il neorealismo, il quale si differenzia profondamente dal cinema americano come spiega acutamente Zavattini. Al cinema italiano, nota lo sceneggiatore, interessa la realtà confinante con noi stessi, e ci interessa conoscerla direttamente, gli americani, invece, si interessano ad una conoscenza edulcorata. Per questo motivo nel nostro cinema non si è mai potuto parlare di una crisi di soggetti, poiché da noi non c’è mai stata carenza di realtà; pensata una scena, si sente l’esigenza di rimanere in quella scena perché in essa ci sono infinite possibilità di creare nuovi spettacoli, ogni momento della nostra vita quotidiana, secondo Zavattini, contiene da solo materia sufficiente per fare un film.

Il neorealismo nasce da un impulso morale e Zavattini è convinto che il mondo vada male perché non si conosce a fondo la realtà, bisogna avere attenzione sociale e la vera funzione del cinema, secondo Zavattini, non è raccontare favole, ma quella di esprimere la necessità del loro tempo. Senza dubbio vi sono modi favolosi di analizzare la realtà ma anch’essi sono delle espressioni naturali. Il cinema, da questo punto di vista, ha un grandissimo potere da cui deriva anche una responsabilità non indifferente, prima di tutto bisogna cercare di rendere perfetto ogni fotogramma, o meglio penetrare nella quantità e nella qualità della realtà.

Zavattini ritiene che bisogna rendere il discorso elementare, prendiamo ad esempio il capolavoro Ladri di biciclette: il bambino segue il padre lungo la strada, ad un certo punto sta per andare sotto un’automobile, ma il padre non se ne accorge nemmeno. Questo è un episodio inventato, come spiega Zavattini, ma inventato con l’intenzione di inventare un fatto quotidiano, minimo, ma carico di vita. I film neorealisti contengono alcune cose di una poesia e significatività assoluta che non escludono una dimensione psicologica, altro dato della realtà, secondo lo sceneggiatore che pone un’ altra importante questione, quella relativa alla povertà raccontata nei suoi film. Si sa che il neorealismo descrive la miseria ma secondo Zavattini credere o fingere che con una mezza dozzina di film sulla povertà il tema sia stato esaurito, è un grosso errore. Tale tema bisogna essere scandito in tutti i suoi dettagli poiché in caso contrario si rifiuta di conoscere la realtà.
Zavattini cerca anche di dare delle risposte a continui interrogativi, ponendo un’urgenza, ma non spetta a lui indicare la soluzione. Ciò che fanno i suoi film è chiamare in causa lo spettatore.

Per Zavattini il cinema ha un valore formativo culturale importantissimo, non può e non deve essere solo svago; esso deve creare la storia guardando alla contemporaneità, lasciando che lo spazio tra vita e spettacolo diventi nulla, poiché siamo tutti dei personaggi e Zavattini non ha mai fatto mistero di mal sopportare gli eroi. La poesia quindi bisogna farla sulla realtà, sulla bellezza sociale e sul suo approfondimento, aspetto che molto spesso gli sceneggiatori trascurano.

 

 

Dal romanzo al film: ‘Il giardino dei Finzi-Contini’, la pellicola della discordia tra De Sica e Bassani

Giorgio (L. Capolicchio) e Malnate (F. Testi) sono tra i pochi frequentatori della casa dei Finzi Contini, aristocratica famiglia ebraica che vive in una lussuosa villa di Ferrara circondata da un vasto giardino. Alberto ama la bella Micol, la quale pur volendo bene Giorgio non esita a concedersi a Malnate. La dolce vita dei Finzi-Contini e le pene d’amore di Giorgio sono interrotte dalla seconda guerra mondiale e dalla politica di discriminazione razziale.

Il giardino dei Finzi-Contini, romanzo del 1962 dello scrittore bolognese Giorgio Bassani è stato non poco osteggiato alla sua uscita da diversi esponenti nella Neoavanguardia italiana che consideravano l’opera costruita attraverso una manovra palesemente ideologica che mira ad un trattamento preferenziale dell’io narrante, ovvero di Giorgio, il protagonista della storia. Una storia di amore (tra Micòl e Giorgio) e di salvazione (quella di Giorgio, la cui buona e cattiva coscienza è incarnata dallo sguardo decadente rivolto al passato dei ricchi Finzi-Contini e da Malnate, amico della famiglia, con le sue scelte politiche e di vita).

Ma se Bassani ha potuto consolarsi con il successo del suo romanzo, contando su una buona parte di estimatori, ben poco ha potuto di fronte alla sceneggiatura del film diretto nel 1970 da Vittorio De Sica, sceneggiatura, stesa da Pirro e Bonicelli, che ha suscitato un fortissimo dissenso nello scrittore, il quale ha chiesto ed ottenuto che venisse tolto il suo nome dai titoli di coda della pellicola. I motivi di tale conflitto sono presto detti: diversamente dal romanzo, il film non utilizza la tecnica dell’Io narrante e si chiude con l’episodio della deportazione mentre Bassani aveva fatto fuggire Giorgio in tempo all’estero, per poter raccontare e rievocare i fatti e la storia della sua giovinezza e del suo amore non corrisposto, a distanza di 14 anni.

È lo stesso Bassani ad esprimere il resoconto della travagliata vicenda della trasposizione filmica del suo romanzo nel 1970 sull’<<Espresso>> con il titolo eloquente de Il giardino tradito: il progetto di rispettare i due differenti piani temporali, il passato (attraverso dei flashes in bianco e in nero) e il presente non era stato tenuto in considerazione, secondo Bassani, da Ugo Pirro. La sceneggiatura di Pirro, in effetti, è instradata in fatti su un solo piano temporale, quello del passato e ha l’effetto di ridurre l’importanza e il significato del ruolo del protagonista; secondo lo scrittore infatti l’attore Capolicchio compie il suo dovere <<ma il film, incerto sempre se rappresentare la storia d’amore tra lui e Micòl, o se dare un quadro documentario dell’Italia mussoliniana alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, o se descrivere le persecuzioni antisemitiche attuate dal fascismo, ne fa un personaggio sbiadito, minore, di nessun rilievo morale>>. E nel romanzo Bassani usa anche mezzi “sleali” per elevare moralmente Giorgio, facendo terra bruciata intorno agli altri personaggi e rendendo funzionale al processo di salvazione dell’io narrante persino il problema ebraico.

Bassani protesta anche contro la rappresentazione del padre di Giorgio proposta sul grande schermo, il quale viene fatto partire per i campi di sterminio nazisti dopo aver detto alla bella Micòl che Giorgio si era salvato. Le incongruenze e le approssimazioni del film sono evidenti, come una certa freddezza che pervade l’illustrativo e smorzato film. Ma il lavoro di De Sica, al quale non può essere fatta una colpa (come del resto nemmeno a Bassani se non si è riconosciuto nella trasposizione cinematografica) se ha voluto realizzare un’ opera autonoma, ha anche dei meriti, uno su tutti quello di aver proposto uno spettacolo nuovo, per nulla volgare o kitsch come è stato ingiustamente definito, attraversato da una luce crepuscolare che nasce proprio dai sentimenti di speranza (e di inganno) di Giorgio e Micòl. In fondo i protagonisti del film subiscono un estraniamento che si avverte nelle pagine del romanzo, i personaggi di Bassani sono dei fantasmi di un passato perduto, (e in quanto ebrei, avvertono ancora di più lo sradicamento, la perdita di identità), la loro quotidianità fatta di piccole cose si scontra con la grandezza della Storia.

Il regista ha cercato di bilanciare l’ambiguità e la nostalgia dei personaggi con la storia d’amore, con gli eventi storici che trasformano tutto in tragedia, e con le ragioni commerciali. Ne è emerso un film più che decadente, neoromantico, dipinto ad acquerello dove l’ineluttabilità del destino opprime la vita dei personaggi, incapaci di vivere la realtà; De Sica dà maggiore spazio alla splendida protagonista, l’unica che capisce davvero cosa avverrà di li a poco, la cui relazione con Malnate risulta poco credibile. Nonostante i suddetti difetti che però non bastano a decretarne la stroncatura, Il giardino dei Finzi-Contini si è aggiudicato l’Oscar per il miglior film straniero nel 1971 e altri numerosi premi e nominations.

 

Il giardino dei Finzi-Contini-scheda film
Anno: 1970
Regia: Vittorio De Sica
Cast: Lino Capolicchio (Giorgio), Dominique Sanda (Micòl Finzi-Contini), Helmut Berger (Alberto Finzi-Contini), Fabio Testi (Giampaolo Malnate), Romolo Valli (padre di Giorgio).
Sceneggiatura: Vittorio Bonicelli, Ugo Pirro.
Fotografia: Ennio Guarnieri
Musiche: Manuel De Sica
Produzione: Gianni Hecht LucariI, Arthur Cohn per DOCUMENTO FILM ROMA, CCC FILMKUNST (BERLINO)
Distribuzione: TITANUS- MONDADORI VIDEO, SAN PAOLO AUDIOVISIVI (IL GRANDE CINEMA), DE AGOSTINI
Paese: Italia
Durata: 93 Min

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