Guerra in Ucraina. È sul fronte dell’informazione la battaglia che tutti dobbiamo combattere

I russi non conoscono la realtà della tragedia ucraina; molti italiani hanno idee sbagliate sulla crisi climatica. Censura e fake news distorcono la percezione, vanno contrastate con la conoscenza e la partecipazione.    

Lo hanno scritto in molti: l’invasione russa dell’Ucraina ha scatenato una doppia guerra. La prima si combatte sul campo, la seconda sui mezzi di informazione. La propaganda ha da sempre accompagnato i conflitti, ma in questo caso colpisce la sproporzione delle condizioni. Nei Paesi liberi abbiamo accesso a tutte le notizie e le dichiarazioni diffuse da entrambe le parti. In Russia, il Cremlino mantiene un ferreo controllo: nonostante i terribili eccidi che le sue truppe compiono in Ucraina e le sconfitte sul campo, Vladimir Putin non sta affatto perdendo il suo supporto tra la popolazione russa. È facile spiegare che questo si deve al totale dominio sui mezzi di comunicazione di massa: social media bloccati, stampa di opposizione chiusa, televisione completamente controllata dal regime.

Accanto agli indispensabili aiuti all’Ucraina che combatte, sarebbe importante riuscire a perforare questa barriera offrendo alla popolazione russa una informazione credibile e alternativa. Lo si è fatto durante la Guerra fredda con Radio free Europe, che trasmetteva al blocco sovietico in una ventina di lingue. I comunisti contrattaccavano con Radio Tirana, anche in italiano, che trasmetteva musiche balcaniche, come cantava Franco Battiato, ma anche tanta propaganda, udibile persino in Africa e in Sud America. Radio free Europe esiste ancora, e diffonde anche istruzioni per bypassare il blocco delle trasmissioni voluto da Mosca, ma evidentemente non basta per raggiungere la popolazione russa. Oggi certamente esistono mezzi più sofisticati, ma non mi sembra che a questo tema si dedichi adeguata attenzione.

In un contesto che (per fortuna) è totalmente diverso, la distorsione delle informazioni riguarda anche l’Italia. È sconfortante apprendere dalla ricerca “Media e fake news”, svolta da Ipsos per Idmo (Italian digital media observatory) e segnalata da “Media e dintorni”, la bella rubrica di Radio radicale, che il 39% degli italiani ritiene “la comunità scientifica molto divisa sul tema del cambiamento climatico”. Si tratta della percentuale più alta, tra le affermazioni scelte dagli intervistatori per verificare le posizioni nella categoria “Accordo con fatti falsi”. E si abbina, nella categoria “disaccordo con fatti veri”, con le affermazioni “L’acqua del rubinetto è salutare quanto quella in bottiglia” (30% che non ci crede) e “L’Italia è il Paese con la percentuale più alta di riciclo dei rifiuti in Europa” (29% che lo nega).

Pochi giorni dopo la diffusione della ricerca, è stata pubblicata la terza parte del rapporto Ipcc, dedicata alla mitigazione. Accanto alla precedente pubblicazione sulle politiche di adattamento, mostra che tra gli scienziati c’è invece un larghissimo consenso, su un messaggio complessivo di grande drammaticità: se vogliamo mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro 2°C, meglio ancora 1,5°C, le emissioni devono diminuire già dal 2025, altrimenti il mondo si avvia verso un aumento di oltre i 3 gradi a fine secolo. Si stima che per raggiungere il limite di 1.5°C i flussi finanziari per la transizione energetica devono aumentare di sei volte entro il 2030; di tre volte, invece, se intendiamo restare al di sotto di 2°C; obiettivi non impossibili, vista la quantità di denaro liquido disponibile sul mercato, con effetti positivi anche su economia e occupazione.

Anche quanto si sta facendo per l’adattamento, cioè per fronteggiare le conseguenze comunque inevitabili del cambiamento climatico, non è sufficiente a proteggere le popolazioni. Questo vale soprattutto per i più poveri, per quel 50% della popolazione mondiale responsabile (ricorda l’Ipcc) solo del 15% delle emissioni, mentre possiamo immaginare che il 10% più ricco e che emette il 40% dei gas serra troverà il modo di proteggersi meglio.

Anche se molti hanno idee sbagliate, la gente è preoccupata per la crisi climatica. Gli Stati Uniti certamente non sono all’avanguardia nella battaglia per la transizione ecologica: il loro livello di consumi, se imitato in tutto il mondo, brucerebbe ogni anno le risorse prodotte da cinque pianeti, rispetto alla media mondiale di 1,7, ci dice l’Earth overshoot day. Eppure la popolazione americana è tutt’altro che insensibile: un recente sondaggio Gallup ci informa che da sette anni il 45% degli statunitensi si dice “molto preoccupato” e una altro 27% “abbastanza preoccupato” per le condizioni dell’ambiente.

Analoghe ricerche in Italia ci danno indicazioni simili, anche se alla preoccupazione non corrispondono adeguate conoscenze e disponibilità ad agire. C’è poco da stupirsi: il Risk report che fornisce ogni anno, per conto del World economic forum, un sondaggio sui più gravi timori di mille leader mondiali, colloca sistematicamente, in testa a tutte le altre, le preoccupazioni per l’ambiente. Anche quando infuriava il Covid, i timori per la pandemia erano solo al sesto posto, mentre restavano in cima alla classifica l’allarme per la mancanza di accordi sul clima, per la perdita di biodiversità e per i fenomeni meteorologici estremi. Insomma, tutti si preoccupano per il clima, anche i big delle imprese e della politica, ma pochi hanno chiaro che cosa bisogna fare, o hanno il coraggio e la disponibilità a mettere in atto le ricette che pure esistono.

Torniamo all’Italia. Il rapporto Ipcc ha avuto un’ampia copertura su stampa e televisioni, compatibilmente con il prevalente e comprensibile orientamento dell’attenzione verso la crisi ucraina, ma penso che, anche se avesse avuto più spazio, non avrebbe inciso significativamente sull’atteggiamento dell’opinione pubblica e tanto meno su quello dei politici. Si pone dunque la domanda: se la diffusione dei fatti attraverso i media tradizionali non basta, che cosa dobbiamo fare per promuovere un salto di consapevolezza degli italiani sulle misure necessarie per fronteggiare una crisi come quella del clima, incombente e gravissima, che potrebbe compromettere il futuro delle nuove generazioni se non anche il nostro?

Certo, annunci politici condivisi che sensibilizzino sulla gravità della situazione e sulla necessità di fare whatever it takes per combattere la crisi climatica potrebbero raggiungere lo scopo. Gli italiani sono anche pronti a sacrifici e a cambiare idea se necessario, come rivela il sondaggio Ipsos – Repubblica a seguito della crisi ucraina, presentato in un articolo di Concetto Vecchio:

Quasi nove italiani su dieci (86,6 per cento) si dicono disposti a ridurre i propri consumi in caso di una crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina. Quasi sei su dieci (58,5 per cento) sono pronti ad accettare l’utilizzo del carbone e il 51,3 per cento si dichiara disponibile a discutere l’ipotesi di un’Italia che torni a investire nel nucleare.

Questo però avviene solo per temi sui quali l’opinione pubblica è stata fortemente sensibilizzata e sui quali avverte una sostanziale unità di buona parte della leadership politica. Non è così sulle misure per il clima, dove si verifica un circolo vizioso: gli italiani sono poco informati su quello che si dovrebbe fare veramente per la mitigazione e l’adattamento; i politici per timore di perdere consenso non si espongono se non con affermazioni generiche. Non informano e non decidono.

C’è dunque una grande battaglia da combattere sul fronte della informazione e in buona parte andrà condotta sui social mediaanche perché l’indagine Ipsos – Idmo già citata ci informa che

La stragrande maggioranza degli italiani (7 su 10) si informa esclusivamente tramite fonti gratuite o solo 1 su 4 è disposto a pagare per accedere ad informazioni di cui si fida.

social, però, spesso contribuiscono a consolidare convinzioni sbagliate, anche perché gli utenti tendono a scambiarsi informazioni tra persone con le stesse idee, creando conventicole contrapposte. La soluzione, come dice la stessa indagine, è il debunking, cioè lo “sfatamento”, l’attività di distinguere il vero dal falso attraverso un adeguato fact checkingNell’indagine si afferma che “il 90% degli italiani dichiara di fare almeno un’attività di controllo davanti a un’informazione trovata online”, ma sulla efficacia di questa attività si possono avere dubbi, se si considera che

il 60% degli italiani ritiene che una notizia sia più affidabile quando condivisa da tante persone (quota più alta tra i più giovani e i meno istruiti) e il 55% (ben più di 1 cittadino su 2) ritiene che sia più affidabile se condivisa da un amico molto attivo suisocial (quota che sale tra i più giovani e tra i meno istruiti, mentre scende nella fascia d’età 31-50 anni e tra i più istruiti).

Insomma, anche le chiacchiere da bar, se sono condivise, tendono a essere considerate vere.

Per contrastare questo effetto si devono impostare battaglie ben precise e mirate, basate su informazione e coinvolgimento. È urgente, ad esempio, promuovere la sensibilizzazione delle comunità locali sulla necessità di accelerare l’installazione delle energie rinnovabili, operazione resa ancor più importante dalla scelta di liberarci per quanto possibile dalla dipendenza dal gas russo. I progetti ci sono, ma spesso sono paralizzati dall’“effetto nimby” (not in my backyard – non nel mio cortile), che in molti casi nascono dalla mancanza delle informazioni necessarie per compiere una adeguata valutazione costi – benefici. Abbiamo scritto più volte che sono necessari interventi governativi (peraltro parzialmente avviati) per snellire gli iter burocratici che condizionano le autorizzazioni. Ma difficilmente l’obiettivo di un grande sviluppo delle rinnovabili entro il 2030 potrà essere raggiunto senza un adeguato impegno sul fronte della informazione e della partecipazione locale. I cittadini devono sentirsi partecipi delle decisioni: di questo tema, “La costruzione partecipativa delle città del domani”, si è parlato il 7 in un webinar di QN città future, organizzato con la collaborazione dell’ASviS.

Un aiuto alla transizione energetica, elemento determinante della protezione ambientale, è arrivato all’inizio di quest’anno dalla modifica dei principi fondamentali della Costituzione che ha introdotto appunto “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, tra i principi della Carta. Se n’è discusso in un evento dell’ASviS il 5 aprile, arrivando anche in questa sede a una conclusione che ci impegna per il futuro: gli strumenti per la transizione ecologica ci sono, ora più che mai, ma adesso bisogna farli conoscere e agire di conseguenza.

 

Fonte dell’immagine: industryview/123rf

 

Donato Speroni

La guerra civile ucraina del 1917-21 vista dallo scrittore Bulgakov. Il caos di Kiev

Durante la guerra civile che imperversò in Ucraina tra il 1917 e il 1921 – ribattezzata dagli studiosi Ukranian-Soviet War – le sorti dei soldati, fossero essi “rossi”, “bianchi” o nazionalisti ucraini, erano nelle mani degli ufficiali medici che seguivano le eterne avanzate e ritirate di tutti gli schieramenti: alcuni di questi medici erano volontari, altri erano obbligati a servire per l’una o l’altra parte pena la morte. È quanto accadde allo scrittore Michail Afanas’evič Bulgakov nel 1919: com’è stato possibile che i Volontari arruolassero uno
scrittore? Come è possibile far coincidere la figura dell’autore del romanzo Il Maestro e Margherita con quella del medico reazionario dei Volontari di Denikin?

La più completa biografia su Michail Bulgakov uscì nel 1988 ad opera di Marietta Čudakova che vi lavorò incessantemente dal 1966, anno della prima pubblicazione sovietica de Il Maestro e Margherita. L’interesse e l’entusiasmo che seguirono alla pubblicazione del romanzo resero palese la totale mancanza di informazioni riguardo il suo autore: non solo non era conosciuto come letterato ma non si sapeva nemmeno chi fosse, dove fosse nato o cosa avesse fatto nella vita.

L’anonimato in cui visse e morì – nel 1940 – Michail Bulgakov affonda le sue radici negli anni ’30 del Novecento, anni turbolenti e pericolosi in un’Unione Sovietica alle porte delle purghe staliniane: in quel periodo, a seguito di numerosi problemi con la censura, Bulgakov scrisse una lettera al Governo dell’URSS chiedendo che gli fosse concesso di vivere pienamente e di scrivere – quindi di espatriare per poterlo fare – oppure che gli fosse dato un lavoro con cui sostentarsi, costringendosi di fatto al silenzio. Stalin stesso rispose a questa lettera con una telefonata, con la quale concesse al letterato un lavoro presso il Teatro dell’Arte di Mosca. Da quel momento in poi, Bulgakov sarebbe caduto nell’oblio fino al 1966.

Riscoprendo la biografia di Michail Bulgakov – nonostante i tentativi sovietici di presentarlo come uno scrittore in linea con il partito
– in aggiunta ad ulteriori opere che sono andate ad arricchire le pagine della letteratura russa e mondiale, sono venuti alla luce stralci
di una vita fuori dall’ordinario.

Il ritrovamento del primo articolo dichiaratamente “bianco” – pubblicato dallo scrittore nel 1920 – e delle Lettere al Governo dell’URSS (1930), ci possono far finalmente apprezzare appieno l’originale pensiero bulgakoviano, inserendolo nel giusto
contesto storico-politico; grazie inoltre alla ripubblicazione del suo primo romanzo La Guardia Bianca – dai tratti autobiografici – è stato possibile comprendere il caos che imperversò a Kiev negli anni tra il 1917 e il 1920.

Attraverso questi scritti è possibile illustrare la Guerra Civile Europea da un punto di vista inedito ma altrettanto vero poiché essi, nonostante siano il contraltare degli scritti rivoluzionari, giacché usciti dalla penna di un intellettuale “bianco” e quindi vinto, descrivono una realtà “diabolica” e mostruosa quanto quella descritta dai vincitori.

Il soggiorno a Groznyj portò con sè l’occasione per Michail Bulgakov di pubblicare su un giornale locale il suo primo articolo. Quest’ultimo cadde nell’oblio ancor prima del suo autore – e per mano di esso – dal momento che, trionfando la Rivoluzione, uno scritto estremamente anti-rivoluzionario avrebbe condannato definitivamente Bulgakov al confino o alla morte.

Egli stesso cercò in ogni modo di nascondere l’articolo reazionario alla vista dei commissari del popolo e agli occhi della polizia segreta: le ricerche della sua biografa, però, l’hanno riportato alla luce negli anni ’70, grazie alle testimonianze di un suo amico e della sua prima moglie che ben ricordavano lo scritto. L’articolo era rimasto sepolto e conservato nella Biblioteca Scientifica dell’Archivio di Stato che aveva tra il materiale raccolto tutti i numeri del giornale su cui era stato pubblicato.

L’articolo, pubblicato il 26 Novembre 1919 e firmato M.B., sintetizza crudamente gli ultimi due anni di guerra civile e il titolo – “Prospettive Venture” – non può che suonare come un ossimoro poiché, non solo l’articolo guarda al passato e alle disgrazie accadute – come fa l’Angelus Novus di Klee nelle tesi di Walter Benjamin – ma non esprime alcuna speranza per un futuro incerto nel quale le colpe dei padri ricadranno sui figli che dovranno pagare “[…] tutto con onestà [e serbare] eterna memoria della rivoluzione sociale!”.

Il testo è un’analisi lucida e consapevole della disgrazia occorsa all’Impero Russo, una catastrofe talmente grande “[…] che viene voglia di chiuderli, gli occhi e dalla quale non ha scampo nemmeno il futuro poiché – secondo Bulgakov – il popolo russo dovrà combattere
ancora per riconquistare tutte le città andate perse nello scontro con i bolscevichi: “Palmo a palmo gli eroici Volontari strappano la terra russa dalle mani di Trockij”, scrive Bulgakov per il quale nessuna delle parti in lotta è legittima se non quella dei “bianchi”.

Egli, infatti, abborre la “rivoluzione sociale” (“la nostra patria sventurata ha toccato il fondo nel baratro della vergogna e della sciagura nelle quali l’ha costretta la grande rivoluzione sociale”) e, allo stesso modo, non può appoggiare i nazionalisti ucraini colpevoli – forse ancor più dei bolscevichi – di voler staccare Kiev, la madre delle città russe, dall’Impero.

Bulgakov è russo e non può tollerare che un’insensato nazionalismo trionfi sull’ancestrale legame che tiene insieme Kiev e la Grande Russia. Non è disposto a compromessi nel momento in cui scrive:

“Ma dovremo combattere, e molto sangue scorrerà, giacché dietro a Trockij si accalcano i pazzi armati che ha accalappiato, e la nostra non sarà vita, ma uno scontro mortale./ Dobbiamo combattere. […] Pazzi e canaglie verranno cacciati, dispersi, annientati. / E la guerra finirà”.

Queste parole riportano alla mente quelle di un altro russo dalla parte opposta del fronte, il rivoluzionario Victor Serge, che nel suo Ville en danger – pubblicato anch’esso nel 1919 – descrive i meccanismi di questo “annientamento del nemico”:

“Guerra a morte senza ipocrisia umanitaria, in cui non c’è Croce Rossa, in cui non sono ammessi i barellieri. Guerra primitiva, guerra di sterminio, guerra civile. […] La legge è: uccidere o essere uccisi”.

 

Caterina Mongardini

Cristo non sfilerebbe mai al Pride. Se ‘Dio è morto’, l’uomo insieme a lui, tra le mode anticlericali

Ed ecco, di nuovo, il Pride. Noioso come un gioco di ruolo di tre generazioni fa, variazione sul tema di guardie e ladri da giocarsi tra finti indignati e finti tolleranti. Non parliamone troppo, ché l’irrilevanza dell’evento si potrebbe riassumere nelle stesse due righe che bastano alla trama di una qualsiasi puntata di Don Matteo.

Oltre alla polvere, però, il Pride condivide con la geriatrica fiction Rai anche la teologia: lo stesso cristianesimo scemo e zuccheroso, ma rivoltato al contrario. Ovvero, una blasfemia scema e zuccherosa, senza idee, che si riduce ogni volta alle stesse ovvie trovate. Gesù coi tacchi, insomma, e altri imbarazzi del genere.

Veniamo da due secoli di straordinaria, potente blasfemia, abbiamo letto Nietzsche proclamarsi l’unico Dio e tutti gli altri dèi nei biglietti della follia, possiamo ubriacarci di Bataille fino al vomito, e anche da noi almeno un superficiale Inno a Satana o uno sforzato Totò che visse due volte si trovano. Ma Gesù coi tacchi no, e soprattutto non da giustificare col solito glitterato catechismo LGBT+.

Mettiamo le cose in chiaro: Cristo non sfilerebbe affatto al Pride, ma non perché ci sono gli omosessuali. Perché il Pride, per quando legittimo in certe sue rivendicazioni, non è una battaglia per i deboli, per gli ultimi. Ce lo raccontano ancora, ma è falso da un pezzo: tra le sex worker unico lascito formativo dell’Erasmus ad Amsterdam e le prostitute di Galilea c’è un abisso sociologico – forse non esistenziale, ma adesso stiamo facendo politica.

E c’è anche fra i gay di Stonewall e i gay di oggi. In mezzo alla spaghettata di assi di oppressione che l’intersezionalità ci offre, quello che attraversa l’orientamento sessuale nell’Occidente contemporaneo sembra sottilissimo di fronte a povertà ed esclusione sociale.

Brutalmente: fra i manifestanti del Pride c’è tanta gente che sta benissimo; gli operai che scioperavano davanti al Lidl di Biandrate, invece, stavano tutti male. Cristo crocifisso accanto a Adil Belakhdim, il sindacalista ucciso, avrebbe avuto senso. Cristo arcobaleno no.

Ma questa pretesa vittimistica assomiglia, dopotutto, a quella di certi cristiani da combattimento, stile Adinolfi, che di mestiere annunciano la fine dei tempi, laddove famiglia e religione stanno mutando, come sempre, in nuove forme di normalità borghese. Due squadre speculari di privilegiati mediatici intenti a scambiarsi volée di chiacchiere – ma Dio non gioca a dadi e nemmeno a tennis.

D’altra parte, non è che ci si possa indignare davvero se qualcuno deride ancora l’uomo della Croce: è un elemento fondamentale della sua narrativa, dai tempi del ladrone miscredente – la scala dei santi si sale fra gloria e scherno, scrive T.S. Eliot.

Quindi la riflessione si riduce alla perplessità: se la blasfemia non sensibilizza nessuno, non offende nessuno, non fa arte, allora a che serve? Serve, come tutto l’attivismo progressista, a vantarsi in pubblico. E basta. Qualche early millennial può ancora ricordare l’epoca in cui dichiararsi anticlericali a scuola suonava vagamente trasgressivo – atei per assenza d’opinioni in merito, invece, lo erano già tutti.

Figure bonariamente caratteristiche, letterarie alla maniera di Stefano Benni, si presentavano con la maglietta di Marilyn Manson o equivalente e ciarlavano di come la religione avesse provocato tutti i mali del mondo. Altri, invece, andavano in palestra per farsi gli addominali, altri ancora derapavano senza casco col motorino.

L’anticlericalismo, però, ha il vantaggio di valere come posizione politica prêt-à-porter, venduta in pratici kit del depensante da associazioni che hanno già pensato al posto degli iscritti, UAAR su tutte.

Insomma, quando c’è da scegliere un mulino contro cui sprecare la propria esistenza, la Chiesa è un’opzione invitante. Innanzitutto perché concettualmente, alla buona, è nemica della scienza (falso), e la scienza piace alla gente che piace.

Poi perché sembra un’istituzione potente, se si ignora l’ininterrotto tracollo dal Rinascimento in poi. Quel relativo poco di potere che resta è oltremondano, ma non nel senso delle chiavi di Pietro. Piuttosto, come i dinosauri di Magrelli: “orfani del futuro, tristi animali da congedo, belve della malinconia”.

La struggente dolcezza di questa lunga estinzione dovrebbe emergere molto più che i lagnosi dibattiti sull’IMU e le scuole paritarie: ma i progressisti, si sa, non hanno senso estetico. In effetti, quando Fedez chiede di abolire il Concordato non si tratta tanto di una persona stupida che esprime un’opinione stupida, quanto di una cosa brutta perché ammuffita: fa un po’ schifo e un po’ ridere questo anticlericalismo coi baffi a manubrio, pre-breccia di Porta Pia, è fastidiosa questa tendenza a invocare lo stato laico come soluzione, quando invece è l’inizio di un problema fondamentale.

Il problema della teologia politica, misteriosamente perso per strada: “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, dice Carl Schmitt.

Facciamola breve, però: l’intervento della Chiesa è stato legittimo e inutile, ugualmente legittime – effetti collaterali della libertà di espressione – e inutili le fanfare di tutti questi bersaglieri in ritardo.

Dunque non ci arrischiamo a rispondere alle domande complesse che emergono, quali per esempio: può uno stato essere davvero laico, senza fondare il potere sovrano sulla metamorfosi del sacro? No; oppure: il ddl Zan andrebbe approvato? Nemmeno.

Sul fondo del Pride, la questione è un’altra: bestemmiare, oggi, non serve a niente come non serve a niente pregare, credenti a parti ovviamente. Ecco i due fuochi nell’ellisse del nichilismo: la morte dell’uomo e la morte di Dio.

Ma tanti supergiovani opinionisti non hanno ancora ammesso la fine dell’essere umano, decostruito dal post-strutturalismo, divenuto incidente della storia.

Ci credono ancora, come le vecchie vedove che parlano alla foto del marito, e fra le conseguenze del delirio c’è la feroce caccia al prete di questi giorni.

La sinistra progressista è tale solo rispetto all’età vittoriana, calendario fisso al 1901 e da lì la retorica apocalittica, che non cambia mai: i gay sono sempre a un passo dal triangolo rosa, l’Italia dalla sovversione fascista e i liberi pensatori dai processi del Santo Uffizio.

Verrebbe da dire che, se siamo ancora ridotti così, potevano risparmiarsi un secolo di fatica. Ma non è vero, perché ci sono state battaglie necessarie, una volta.

Adesso sono finite, ed è cambiato anche il concetto di battaglia politica: i gay non sono discriminati, ma il mondo moderno li inchioda all’ipervisibilità, li totemizza come animali araldici della democrazia; il razzismo è diventato l’influenza coloniale del mercato sulle culture marginali; la religione è ridotta al cratere del Cristianesimo e all’incomunicabilità con l’Islam.

Avremmo bisogno di una sinistra che non viva di rendita, se fosse possibile. Almeno, avremmo bisogno che i ribelli sbattezzati non fossero così anacronistici. Perché, ricorda Sergio Quinzio, “il nichilismo l’abbiamo già alle spalle, di fronte abbiamo il nulla”.

 

Claudio Chianese

Mascherine fasulle, in Veneto l’azienda che svela le truffe sulle FFP2

Sempre più mascherine contraffatte sul mercato, a Padova l’azienda Clariscience ha una business unit che verifica la documentazione. Stefano Pagnutti, il Ceo. “La presenza del marchio CE non basta, occorre sempre seguire l’intera catena documentale”. Il mini-vademecum: così il consumatore può capire se la mascherina è a norma.

Sono decine di milioni le mascherine fasulle che girano per l’Italia. Molti sono i truffatori che hanno approfittato della situazione di emergenza e del fatto che molte aziende hanno per questo deciso di avviare procedure di importazione.
Le norme, a volte, non vengono rispettate e negli ultimi giorni le cronache parlano di casi di truffe. Per questo, molti consumatori chiedono ai rivenditori certezze. I professionisti in grado di capire se una mascherina, e specificamente anche le FFP2, possa essere stata immessa in commercio irregolarmente hanno sede a Padova. L’azienda si chiama Clariscience e garantisce la supply chain del benessere e della salute: con le loro conoscenze permettono al settore medicale di comunicare nel modo più corretto e a chi produce o distribuisce dispositivi medici e di protezione individuale di immettere i propri prodotti sul mercato nel rispetto delle normative.
Da inizio pandemia sono stati contattati da una trentina di aziende, da quelle più piccole ai colossi della distribuzione, interessate a introdurre mascherine FFP2 sul mercato, soprattutto importandole da paesi extra UE. “Tra di loro, almeno una decina gli importatori che ci hanno chiesto supporto nel valutare, da un punto di vista documentale, i prodotti che avrebbero voluto importare”, spiega il Ceo, Stefano Pagnutti. “Abbiamo dovuto dedicare parte delle nostre risorse a questa attività molto specifica, anche se in linea con quanto facciamo normalmente, occupandoci di offrire servizi di natura regolatoria a fabbricanti, importatori e distributori di diverse tipologie di dispositivi”, ha aggiunto Pagnutti.
Va precisato che Clariscience analizza i documenti, mentre le analisi tecniche volte a capire se una mascherina filtri esattamente come dovrebbe sono eseguite da laboratori specializzati. Se fasulli, i documenti che accompagnano i dispositivi sono spesso preparati da esperti: in questo caso è possibile capire che si tratta di un falso solo contattando direttamente l’organismo notificato che risulta avere emesso i certificati.
“Ci sono delle regole, non tutte sono semplici da capire: per questo chi opera nel mondo del commercio delle mascherine e desidera avviarne l’importazione può meglio tutelare i consumatori chiedendo l’aiuto ai professionisti del settore”, dice ancora Pagnutti. “Si tratta di un’attività di verifica preliminare importante perché permette di individuare in anticipo dispositivi non accompagnati dalla adeguata documentazione evitando così la loro commercializzazione”.
Per aiutare aziende e consumatori a districarsi nella complessità delle regole e delle leggi, Clariscience ha redatto una sorta di mini-vademecum messo a disposizione sul sito dell’azienda a questo link.

SCHEDA CLARISCIENCE

Clariscience ha sede operativa a Padova e legale a Milano. L’azienda è stata fondata nel 2013, i dipendenti sono dieci e nell’anno del Covid il fatturato è passato da 900 mila euro a 1,1 milioni (+22%). Sono i professionisti che garantiscono la supply chain del benessere e della salute, e con le loro conoscenze permettono al settore medicale di comunicare nel modo più corretto e a chi produce o distribuisce dispositivi medici di immettere i propri prodotti sul mercato nel rispetto delle normative.
Clariscience è organizzata intorno a due business unit: quella degli “Affari regolatori e sistemi per la gestione della qualità”, dedicata al settore dei dispositivi medici, e quella relativa alla “Comunicazione scientifica” che si rivolge invece all’intero settore life science, anche attraverso specifici servizi di medical writing. In questo caso gli interlocutori diventano molteplici e il raggio d’azione dell’azienda raggiunge anche il mondo della ricerca e dell’editoria scientifica. Il Ceo è Stefano Pagnutti.

Il ‘cuore di tenebra’ del Congo, tra Conrad, Conan Doyle e Gide

La morte dell’Ambasciatore Attanasio svela il dramma del Congo, terra martoriata, un incubo lì da oltre un secolo. Ne hanno scritto, con varia intensità, in tanti: da Conrad a Conan Doyle, da Gide a Pietro Savorgnan di Brazzà, il fondatore di Brazzaville.

Il simbolo del Congo è l’Arcade du Cinquantenaire a Bruxelles. Commissionato da Leopoldo II nel 1880 per onorare i cinquant’anni dalla rivoluzione belga, fu realizzato nel 1905: trionfale è l’epiteto che gli calza a pennello. Che il simbolo dell’emancipazione del Belgio dal Regno Unito dei Paesi Bassi sia realizzato soggiogando uno dei paesi più ricchi dell’Africa oscura, è un paradosso crudele ed esemplare. “I profitti del Congo vennero usati per lanciare una grandiosa politica di opere pubbliche e di riqualificazione urbana. In Belgio, naturalmente. La magnifica Arcade du Cinquantenaire a Bruxelles, il famoso museo Tervuren, ampliamenti del palazzo reale, lavori pubblici a Ostenda, vari piani urbanistici: tutto fu finanziato dallo Stato libero del Congo” (John Reader, Africa. Biografia di un continente, Mondadori, 2001).

Se oggi in Congo si scava il coltan, allora era necessario per la gomma. Furono gli pneumatici a fare la fortuna di Leopoldo II, che si gettò in Congo con la fame dei re storditi dal tedio occidentale; razzia sistematica, ratificata dalla Conferenza di Berlino del 1884 nel sistema della laida spartizione europea del ‘continente nero’. Prima per le biciclette, poi per le automobili, gli pneumatici – brevettati da Edouard Michelin, maneggiati da John Dunlop, prodotti industrialmente da Charles Goodyear – mutarono la locomozione europea, le fortune di Leopoldo e i destini dello Stato Libero del Congo. Il lattice da cui si realizzava la gomma proveniva da alberi diffusi nelle foreste equatoriali: lo sfruttamento fu miliare, millimetrico, letale. Il Belgio cominciò a vendere concessioni, incassando; i civili furono cooptati in massa, violati, massacrati.

Il giornalista britannico Edmond Morel documentò come avveniva la ricerca degli alberi per la gomma. A chi non ricavava materiale sufficiente, venivano tagliate le mani. “Fa gelare il sangue vedere i soldati tornare con le mani degli uccisi, e trovare le mani di bambini piccoli fra quelle più grandi, prova della loro tracotanza… La gomma che viene da questo distretto è costata centinaia di vite e le scene cui ho assistito, senza poter far nulla per aiutare gli oppressi, sono state tali da farmi quasi desiderare di essere morto. Il traffico della gomma gronda sangue”, scrive Morel al “Times”.

Nel 1890, l’anno in cui scoppia il boom della gomma e Leopoldo II comincia a fare cassa, Joseph Conrad, a 32 anni, viene ingaggiato come capitano del “Roi des Belges”, un vaporetto che viaggia sul fiume Congo. Conrad era ormai un uomo fuori dal tempo, elegantemente inquieto: nel 1888 aveva compiuto l’ultimo grande viaggio tra Singapore, Australia, Mauritius; capitano di velieri, l’era dei grossi piroscafi lo tagliava fuori dagli ingaggi importanti. Tuttavia, voleva chiudere con l’Africa, che ancora manca nel suo giro del mondo in barca, che sogna. Nel frattempo, appunta Almayer’s Folly, il primo romanzo, che sarà pubblicato nel 1895. A smuovere la palude quotidiana sono i buoni uffici di Marguerite Poradowska, antica parente di Conrad, che abita a Bruxelles. La signora, da poco vedova, brillante, con il gusto per la scrittura, comincia a mobilitare il gran gala delle sue conoscenze: il 7 maggio del 1890 Conrad firma un contratto con la Société Anonyme Belge pour le Commerce de Haut-Congo; il 12 giugno parte da Bordeaux per Boma, il 2 agosto è a Kinshasa. Conrad deve sostituire, alla guida del vaporetto, sul magnetico Congo, un capitano belga, Johannes Freiesleben, ammazzato dagli indigeni. Si parla di una uccisione rituale, sviscerate le interiora, divorate le parti nobili, vitali.

Il viaggio non va secondo i piani di Conrad: dopo due mesi di comando del battello, tornato a Kinshasa, è affiancato e infine sostituito da un altro comandante, Alexandre Delcommune, belga. L’obbiettivo di Delcommune è svelato: invadere la regione del Katanga – che diventerà dominio belga nel 1891 –, strategica per i giacimenti minerari, prima che vi mettano piede i britannici. La presenza di Conrad, capitano con passaporto britannico, è di troppo.

È Conrad, più che altro, a capire di essere durato troppo: abbandona la nave, arma una canoa, rientra a Kinshasa, e da lì, dopo essersi preso la malaria, il 4 dicembre del 1890, rientra in Europa. Che Dag Hammarskjöld, segretario generale delle Nazioni Unite, sia morto in un misterioso incidente aereo il 18 settembre del 1961 proprio mentre si dirigeva in Katanga illividisce i segni, conferisce un ulteriore simbolismo al Congo, il cuore oscuro dell’uomo, il luogo in cui convergono enigmi, massacri, ruberie; l’inferno dell’Occidente in Africa, dove nessuno può dirsi innocente.

Intenso, audace, enigmatico, provocatorio, famoso – molti anni prima ha pubblicato L’immoralista e I sotterranei del Vaticano – André Gide fa un tour nell’Africa equatoriale francese nel 1925, da cui trae un libro, Voyage au Congo, edito da Gallimard due anni dopo. Gli avevano fatto credere di avere un incarico ministeriale, lo scrittore aveva 55 anni e passa parte del libro, in forma di diario, a raccontare la bellezza selvatica, aliena, primordiale dell’Africa. “Cielo indicibilmente puro. Mi pare che mai, in nessun luogo, ha potuto esserci un tempo più splendido. Mattinata molto fresca; si potrebbe credere di essere in Scozia”; “Ho raccolto sulla strada un minuscolo camaleonte e l’ho portato con me nella capanna dove sono rimasto a osservarlo per quasi un’ora. È veramente uno dei più straordinari animali della creazione”.

Il libro ha un fascino arcano: pare che Gide ripercorra a ritroso i primi giorni del mondo. L’esteta, tuttavia, non dimentica il polemista: l’estasi per gli indigeni (“Quel che non posso descrivere è la bellezza degli sguardi di questi indigeni… vicino a questi negri, quanti bianchi hanno l’aria di cafoni!”) non si tramuta in una secca condanna per il colonialismo, ma lo scrittore non si fa scrupoli – quando rientra dalla sua stregoneria retorica – nel descrivere le vessazioni, le ingiurie, gli sfruttamenti (che riguardano, però, ricorda, anche le tribù locali, in lotta per soggiogarsi a vicenda). Il libro – oggi candido e quasi pagano – fece rumore e i politici di Francia lo presero come un gesto antipatriottico, una sfida.

La prima tappa di Gide è a Brazzaville, che è ancora la capitale della Repubblica del Congo. “Strano paese dove si ha meno caldo di quanto si sudi. Andando a caccia di insetti sconosciuti, ritrovo felicità infantile”, scrive lo scrittore, futuro Nobel per la letteratura. Pietro Savorgnan di Brazzà, nato a Castel Gandolfo da nobili friulani, cresciuto nel Collegio romano retto dai gesuiti, cittadino francese dal 1874, aveva fondato Brazzaville dopo aver ottenuto la concessione di un vasto territorio da Makoko, capo temuto delle tribù locali. Non andava a caccia di insetti sconosciuti, non rimpiangeva l’infanzia, alla letteratura preferiva l’azione. In una celebre fotografia di Nadar, Savorgnan di Brazzà, eletto Commissario dell’Africa occidentale francese, indossa abiti locali, un vasto turbante mette in evidenza la barba scura e gli occhi, penetranti. È bellissimo; la profezia di Lawrence d’Arabia. In Congo si distinse per intraprendenza e compassione: gli indigeni apprezzavano i suoi modi, e per un po’ fu amato anche dai governatori di Francia. Nel 1879 rifiutò di prestare i suoi servigi a Leopoldo II; fu ostile a Henry Morton Stanley, foraggiato dal re del Belgio, rude nei modi. Amava l’Africa; molto meno le corti e i cortigiani in Parlamento.

Il grumo è tutto lì, in quella zolla di terra che dell’uomo riassume le violenze e i dolori, l’agonizzante, l’efferatezza, la vita ‘selvatica’, il sonnambulismo della ferocia, l’eccitazione politica. Una stregoneria mutila il Congo: dal massacro di Kindu del novembre 1961, in cui furono trucidati tredici aviatori italiani che lavoravano per le Nazioni Unite, all’assassinio dell’Ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere che lo proteggeva, è la stessa scia di follia scura, emblema del Congo-Idra depredato da troppi, dove mercenari e imprenditori, faccendieri, militari organizzati e avventurieri d’occasione si fondono nel crogiolo ideologico – islamici, maoisti, marxisti, sovietici, filoamericani, filocinesi, tutti sono passati di lì, sono ancora lì, in una guerriglia mai divenuta nostalgia. Tra l’omicidio di Patrice Lumumba – Primo ministro della Repubblica del Congo, vicino all’Urss – nel 1961, ritenuto un tassello della Guerra Fredda in Africa, a “The Rumble in The Jungle”, il leggendario incontro del 30 ottobre 1974 tra George Foreman e Muhammad Ali a Kinshasa, nell’allora Zaire di Mobutu, la storia è sempre la stessa, benché mutino registri e riflettori (in quel caso, da avanspettacolo all’americana, appropriato al mito, da divulgare in film). È sempre, cioè, la tattica coloniale condotta con altri mezzi ma con i medesimi scopi, elaborata tramite militari del luogo con supporto occidentale e spartizione, tra pochissimi, di vastissime risorse.

Durante il disastroso viaggio in Congo, Joseph Conrad appuntò un diario – scarno, pieno d’informazioni marinare, e di accenni ai soprusi lì osservati – che gli servì come schema per scrivere Cuore di tenebra.  Nonostante la reazione di Chinua Achebe, che nel 1975 scrive un saggio al veleno, An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, quel breve romanzo pubblicato sul “Blackwood’s Magazine” nel 1899, spina scura che ancora ci lacera l’iride, è la metafora perfetta del Congo. Semplicemente, Chinua Achebe è uno scrittore nigeriano che esordisce nel 1958, mentre Conrad è un uomo intriso di XIX secolo. Non è tanto per la polemica coloniale che va letto Cuore di tenebra – che pure balugina, nella milizia anonima di schiavi sfruttati dagli agenti occidentali avidi d’avorio:

“File di neri polverosi e dai piedi piatti arrivavano e partivano, un flusso di merci lavorate, cotonate di scarto, conterie, e filo di ottone andava a finire nelle profondità di quelle tenebre e in cambio ne tornava un prezioso gocciolio d’avorio” – ma per la visione disincantata, trasognata, torbida sull’essere umano, che setaccia gli spazi più disparati del mondo come fossero porzioni smangiate di uno stesso, demoniaco incubo. Sapeva, lo scrittore, di essere sceso nel “cuore delle tenebre”, in una catabasi geografica ed esistenziale, per fare speleologia nel cuore oscuro dell’uomo.

“La conquista della terra, che soprattutto significa toglierla a chi ha una carnagione diversa o un naso un po’ più schiacciato del nostro, non è una gran bella cosa… Ciò che la redime è soltanto l’idea… e una fede disinteressata a quell’idea – qualcosa che si possa innalzare e davanti alla quale ci si possa inchinare e alla quale offrire sacrifici…”, dice Marlow, raccontando il delirante viaggio in Congo, tra uomini tetragoni al feticcio del successo, di una libertà che procede ammazzando. Sembra di ascoltare Dostoevskij: tutta Europa inchinata al Baal del denaro, alla famelica avidità di fama, di sopruso, quasi che l’uomo si realizzasse soltanto soggiogando l’uomo. Del Congo, per altro, Conrad raccontò il magnetismo, il desiderio – anche questo ci strugge – di una vita ferina, improntata al selvatico, all’autentico. “Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ha scritto… Non sapevo che io godessi della crudeltà né che lo spargimento di sangue fosse la mia ossessione. Il fatto è che sono una persona assai più semplice”, scrive Conrad ad Arthur Symons, nel 1908.

E il Congo è lì, come il cuore oscuro estratto dal corpo di un dio, e fa luce, sinistra. Una leggenda Bantu, tramandata dai Bena Lulua, che abitano l’attuale Repubblica Democratica del Congo, fa dire a Fidi Mukullu, l’essere supremo:

“Io faccio gli uomini. Gli uomini fanno incantesimi, malattie, il coltello, il dardo, la guerra. Senza incantesimi, malattie, il coltello, il dardo, la guerra, la morte, senza tutto ciò la vita non è che mangiare, bere, dormire, digerire. La vita non è bella senza la morte”.

 

L’intellettuale dissidente

Chi conosce Anas K.? Il nuovo Jan Palach eclissato dai media

Mezzo secolo dopo il sacrificio di Jan Palach, un’altra torcia umana ha trasformato il settimo arrondissement di Lione in una nuova Piazza San Venceslao. Venerdì 8 Novembre Anas K., studente di Scienze Politiche dell’Università di Lione, ha deciso di cospargersi di benzina ed incendiarsi davanti alla mensa del campus universitario, riportando il 90% di ustioni sul corpo. La sua vita è appesa a un filo.

Ne avete sentito parlare? Prima di compiere l’estremo gesto, lo studente originario della vicina Saint-Étienne – della quale andava orgoglioso per via della sua vocazione operaia e popolare – ha lasciato un testamento virtuale sul suo profilo facebook, un durissimo J’accuse contro Macron, Hollande, Sarkozy e l’Unione Europea, colpevoli di aver ucciso il futuro degli studenti con le loro politiche, senza peraltro risparmiare la Le Pen e i giornalisti, definiti creatori di paure ingiustificate. L’attacco alla classe politica europeista, corollario del suo gesto, si chiude con l’invito rivolto ai suoi colleghi di combattere la crescita del fascismo e quella del liberismo, portatori di divisioni e disuguaglianze nel mondo.

Anas non soffriva di depressione ed isolamento come molti millennials, piuttosto era molto impegnato nel sociale, tanto da ricoprire l’incarico di segretario federale per il sindacato studentesco Solidaires Étudiant-e-s. Il suo straziante gesto, eclissato dai media che fungono da megafono della tribuna neoliberista, è un anelito di giustizia sociale, legato ai problemi economici di una generazione universitaria che in Francia riceve il ridicolo sussidio di 450 euro mensili per una borsa di studio.

Per Anas non erano abbastanza per vivere e garantirsi un futuro. E come dargli torto. I tagli all’istruzione pubblica e il rovesciamento delle risorse su quella privata stanno, riforma dopo riforma, corrodendo le speranze degli studenti ed il loro diritto allo studio. Il costo della vita, dalla criminale introduzione della moneta unica, si è impennato vertiginosamente tanto da costringere gli studenti a divenire lavoratori prima del tempo, allontanandoli giocoforza dall’impegno formativo, nonché da quello politico e sociale, autentico spauracchio per le classi dominanti e i loro valvassori all’Eliseo.

Non lascia sorpresi, difatti, la pronta reazione dei portavoce governativi d’oltralpe che hanno minimizzato la portata politica del martirio del ragazzo, invitando a ricercare le ragioni nel suo profilo psicologico. Nonostante i goffi tentativi di mascherare la realtà, fatta di precariato e classismo, di servizi accademici scadenti e studentati pieni di scarafaggi, la protesta suicida di Anas K. è un tragico bagliore di speranza affinché la generazione studentesca possa far luce sul proprio futuro, che non può e non deve passare solo attraverso gli scioperi e le parate ambientaliste del Venerdì.

Cinquant’anni prima di lui Jan Palach e Jan Zajíc si arsero a Praga in difesa della loro gente, per difendere la loro dignità di studenti oscurata dai mezzi di informazione e collocata nello scacchiere di un mondo che non gli apparteneva. Se dovessimo traslare da ieri ad oggi gli obiettivi politici di questi giovani martiri potremmo facilmente osservare che, pur cambiando il nome e l’ordine dei fattori coinvolti, il risultato non cambia. L’Unione Sovietica nella fase sua fase di decadenza, nelle sue politiche centripete, nei suoi picchi di ingerenze ed interessi sovranazionali, era così diversa da ciò che è “nato” dal Trattato di Maastricht? Brežnev era davvero più spietato di Macron?

La risposta è adagiata ben visibile sul pavimento di quel laboratorio di censura e repressione che è divenuta la Francia odierna, laddove i Gilets Jaunes sono stati lentamente infiacchiti e stroncati attraverso un lavoro certosino di sovraesposizione e distorsione mediatica, dopo essersi duramente insanguinati sul campo con le forze dell’Armata Bleus.

Se i media globalisti hanno avuto gioco facile nel diffamare un movimento così composito e numeroso, con il gesto di un singolo come lo studente dell’Università di Lione questa via non era percorribile. Meglio virare sulla rotta della censura preventiva, in stile totalitarismo, o sulla via dell’eresia del soggetto, stile Inquisizione, materia cara a chi considera insani tutti coloro che non si piegano all’ideologia dominante. All’epoca quello di Jan Palach fu probamente considerato un atto politico, un desiderio di morire libero in un mondo di oppressi, un tentativo disperato di scuotere le coscienze del proprio popolo.

Oggi invece la fiamma di Anas vuole essere dolosamente spenta, sommersa da altre notizie spazzatura nella discarica mainstream. Nel frattempo la mobilitazione dei suoi compagni universitari a Lione continua, poiché anche se sono trascorsi cinquant’anni da Palach, “i nostri popoli sono – ancora e di più – sull’orlo della disperazione e della rassegnazione”.

 

Andrea Angelini

Dell’Ilva di Taranto se ne lavano tutti le mani

L’ex Ilva di Taranto è da tempo un ingombrante altoforno i cui gas non asfissiano solamente i lavoratori e la popolazione del capoluogo di provincia pugliese, bensì hanno la capacità di disperdersi nei gangli dei dicasteri governativi romani e di infiammare il dibattito politico come pochi altri temi sul lavoro.

Al governo, che nel palio delle alleanze, delle rivalità e dei colori degli ultimi mesi ha conservato la sua componente gialla, non è evidentemente bastata la lezione di Whirlpool concernente l’unità produttiva di Napoli. Ha dovuto nuovamente sbattere la testa sul muro eretto dai padroni, sull’economia che detta le regole alla politica, sul capitale che giostra le regole del lavoro, perché non possiamo più nascondere l’ennesimo voltafaccia di un colosso industriale all’Italia dietro l’orpello dell’inesperienza di chi governa.

Una minaccia non può essere frutto di una contingenza politica. Le mani che ora si passano la palla avvelenata dell’abrogazione dello scudo penale – il quale avrebbe fatto saltare il banco nelle stanze dei bottoni di ArcelorMittal – sono le stesse che firmavano accordi di riqualificazione e ambientalizzazione dello stabilimento tarantino, mani che gestivano le casse statali che erogavano ammortizzatori sociali per appagare i capricci industriali ed occupazionali dei padroni.

Quando esponenti apicali del governo ci raccontano di rivoluzioni gentili e ci comunicano, attraverso smorfie, la loro sorpresa nel non veder rispettati accordi con una multinazionale che ha un utile operativo di 6 miliardi e mezzo di dollari l’anno, abbiamo la consapevolezza che nessuno di loro è rimasto in una fonderia oltre il tempo necessario per un comizio tra gli operai.

Nessuno di loro, prima di pensare se armare o meno la parte datoriale di uno scudo penale, ha mai pensato alle reali condizioni di lavoro dopo l’abolizione dell’articolo 18 e la defenestrazione del contratto a tempo indeterminato. Così come nel quartier generale lussemburghese della ArcelorMittal riescono benissimo a fare gli indiani, fingendo di non capire quale bomba sociale ed ambientale rappresenti la dismissione incontrollata dello stabilimento di Taranto, a Palazzo Chigi reiterano lo stesso comportamento, derubricando l’emergenza in una penosa individuazione di responsabilità cronologica nei confronti di chi ha portato sui banchi del Parlamento la norma sull’immunità penale ai gestori dell’acciaieria.

D’altra parte nel circo mediatico che viene allestito quando ballano diecimila posti di lavoro è più vendibile e ricreativo sbranarsi sotto gli occhi del domatore che offrire spettacoli edificanti, in un’ottica di unità nazionale. Che la rimozione dello scudo penale e le prescrizioni del tribunale di Taranto siano per la ArcelorMittal solo il casus belli per abbandonare un impianto non remunerativo come da aspettative, non ne parla quasi nessuno.

La crisi di acciaio in Europa è già realtà: i grandi colossi che divorano capitale finanziario e umano hanno un’oggettiva difficoltà nel trovare manovalanza a basso costo in un continente dalle grandi tradizioni industriali e sindacali. In aggiunta, l’economia stagnante del Vecchio Continente ha compresso la richiesta di acciaio e permesso alla Via della Seta – anche nel settore della siderurgia – di diventare un’arteria radiale per l’ingresso dei suoi prodotti in Europa.

Malgrado ciò e i loschi tentativi di promuovere nuove cordate di acquirenti dell’Ilva che succedano ad ArcelorMittal, in cambio di appoggio politico, lo scenario dell’ex Ilva sarebbe la tempesta perfetta per rispolverare l’ombrello costituzionale, in riferimento alla disciplina dei rapporti economici.

L’articolo 43 della Costituzione Italiana detta chiaramente che “la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.

L’ex Ilva non fa forse parte di questa categoria di imprese? Siamo sicuri che i lavoratori non sappiano gestire e realizzare un piano industriale – nel rispetto delle prescrizioni ambientali – meglio di manager prezzolati i quali, se non vengono debitamente assecondati nei loro bluff, buttano le carte e si siedono tranquilli su un altro tavolo da gioco?

Sino a quando nelle politiche e nelle relazioni industriali non tornerà centrale l’assioma che è il lavoro ad essere in vendita e non il lavoratore, lo Stato Italiano giammai potrà essere in grado di affrontare seriamente il tema della gestione privata delle grosse imprese. Se nazionalizzare è un’utopia – o una distopia per i fan delle liberalizzazioni – bonificare il sito e salvaguardare i piani occupazionali rilanciando una produzione ecosostenibile deve essere il centro di gravità permanente su sui fissare il futuro di Taranto. Chi ha paura di lottare continua a morire ogni giorno invece che una volta sola.

 

Andrea Angelini

Croccolo addio, Napoli ti saluta!

Si è spento oggi all’eta di 92 anni Carlo Croccolo, artista napoletano con un curriculum di tutto rispetto nel grande schermo. Attore, doppiatore, regista e sceneggiatore, conosciuto ai più per il suo ruolo nella popolare serie televisiva “Capri” in cui vestiva i panni dell’amabile marinaio Totonno. Non meno per le sue notissime apparizioni accanto ai grandi del cinema napoletano; in primis Totò e i fratelli De Filippo.

Biografia

Carlo Croccolo nasce a Napoli il 9 aprile del 1927. Esordisce in radio, all’età di circa 23 anni, con la commedia “Don Ciccillo si gode il sole”. Successivamente calca il palcoscenico teatrale ne “L’Anfiparnaso” diretto dal regista torinese Mario Soldati. Nel 1950 l’attore napoletano recita nel film comico del tolentino Mario Mattoli, “I cadetti di Guascogna”, nelle vesti di Pinozzo. Ma è nell’89 che arriva la prima gratificazione: il David di Donatello per il film “O Re” diretto da Luigi Magni.

Alla fama, quella vera, Croccolo giunge accanto agli illustri comici napoletani Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, in film come “Totò lascia o raddoppia?”,”47 morto che parla”, “Signori si nasce” (diretto nuovamente da Mattoli), “Miseria e nobiltà”, e ancora “Ragazze da marito” e “Non è vero..ma ci credo” (tratto dall’omonima commedia in tre atti scritta proprio da Peppino).

Croccolo e il doppiaggio

Il poliedrico artista napoletano vanta una carriera eccelsa composta da numerose perfomance teatrali e che sfiora la vetta di oltre 100 film. Risulta fervente e intensa inoltre la sua attività di doppiaggio. Croccolo presta infatti la sua voce al notissimo duetto comico Stanlio e Ollio (interpretati dall’inglese Stan Laurel e dallo statunitense Oliver Hardy), nei film “L’eredità”, “Tempo di pic-nic”, “Un marito servizievole”, etc. Nei primi anni ’50 doppia, con grande orgoglio, proprio lo stesso Totò (si dice addirittura che fosse stato l’unico ad avere questo privilegio), e altri celebri personaggi come Vittorio De Sica ne “I due marescialli”, Renato Carosone in “Caravan petrol”, Nino Taranto in “Stasera mi butto” e molti altri.

Napoli probabilmente darà l’ultimo saluto a suo figlio domani presso la Chiesa di San Ferdinando. “Addio, Carlo, la tua arte resterà eterna.”

 

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