La bellezza che ammazza, tema capitale dell’Occidente

Secondo Ezra Pound, la bellezza è difficile – beauty so difficult –, secondo il suo antico maestro, William B. Yeats, la bellezza è terribile – a terrible beauty is born –: in ogni caso, inafferrata, la bellezza ammazza. Non si contempla con la pia dedizione del collezionista, dell’orafo: la bellezza confonde, confina nell’inadeguato, turba, strazia, strugge, è l’alcova di tutte le contraddizioni.

La bellezza è il tema millenario, prevalente, totale; alla riflessione estetica, oggi, siamo passati ai centri estetici, dall’estasi alla bella – o al bello – ‘da copertina’, paradosso catastrofico, dacché la bellezza perennemente sfugge, incendia, non si lascia censire in uno scatto, non è rappresentabile, stupore che raspa ogni aggettivo. La bellezza tiene in scacco, sotto ricatto, per inseguirla ci si perde: è mostruosa, ha il candore della colpa.

L’emblema della bellezza occidentale, che acceca, è, va da sé, Elena, la donna per la quale fu presa d’assedio la città, che produsse immani sofferenze e caterve di morti. Da allora fino ad ora Elena è stata letta, setacciata, interpretata, scapricciata, rivoltata: rivoltante per alcuni – che nella bellezza della donna, appunto, videro il demone che svia, l’implacabile che uccide, conduce all’oblio di sé – per altri fu esilarante esercizio retorico – l’Encomio di Elena di Gorgia – o meglio, il simbolo caustico dell’idiozia umana, che vaga per morgane e fa la guerra per fraintendimento.

Da Omero a Margaret Atwood, da Albert Camus a Ghiannis Ritsos, da Marina Cvetaeva a Anne Carson, scrittori e poeti di ogni epoca si sono fiondati nell’ambiguo di Elena, colpevole e innocente, vittima e carnefice: “la – terribile – colpa di Elena è ‘solo’ la sua bellezza, che è una vera e propria rovina” (Barbara Castiglioni).

Nella rissa esegetica, il testo sconcertante è l’Elena di Euripide: la bella tra le belle, nella finzione drammaturgica, non è mai stata a Troia, sostituita da un fantasma, dallo spettro della bellezza, ma rifugiata in Egitto, ospite del re Proteo.

Dietro il velo grottesco, polemico – la più grande battaglia della storia occidentale condotta per uno sbaglio, uno sfregio del destino – e gli aforismi capitali (“Per le altre donne la bellezza è una fortuna, mentre per me è stata proprio una rovina”), la tragicommedia di Euripide, dalla trama labirintica – in effetti, tutto è tradimento e al bivio della buona intenzione si nasconde il mostro –, mostra un mondo di dèi silenti fino alla scomparsa, imbastardito dal caso (“Com’è indecifrabile, com’è intricato il dio! Volge e sconvolge da una parte e dall’altra tutte le cose… nella sorte non c’è davvero nulla di stabile”), dominato da uomini che perlustrano ombre (tranne le proprie), che anelano l’obliquo. Sfatare il cosmo nel caos: ecco il genio di Euripide.

“Smarrito nel silenzio divino e dopo aver esagerato le contraddizioni dei sensi e della ragione, in modo da provarne l’inefficacia, Euripide sembra concedere una sola alternativa: meglio un’ombra, un fantasma, oppure il vuoto?”

scrive Barbara Castiglioni, che per la Fondazione Lorenzo Valla ha curato una nuova, impeccabile versione dell’Elena, e che ho interpellato. Sotto la superficie, la bellezza è sempre esperienza mistica, misterica: Elena è conficcata in Egitto, la terra esotica-esoterica; nel secondo stasimo Euripide avvicina la sua vicenda al rapimento di Persefone, ai riti dionisiaci.

Ciò che salva uccide, si dirà, e forse lo specchio di Elena è Euridice, chissà – si sa che la bellezza ha qualcosa di intoccabile, il residuo sacro; quanto al poeta, non sgozza re né assedia metropoli, arma la penna e fa della bellezza l’arcano.

Elena rappresenta l’inevitabilità, anche e soprattutto tragica, della bellezza, che non concede scelta, né a chi la ammira, né, soprattutto, a chi la vive e ne subisce le conseguenze. Prima di essere una donna, prima di essere una persona, Elena è bella, e questo determina ogni aspetto della sua esistenza.

La civiltà greca, non a caso, aveva elaborato il concetto di kalokagathìa, l’ideale, cioè, di perfezione fisica e morale dell’uomo. Questo ideale di identità tra bellezza e virtù, però, è prevalentemente maschile: non ne esiste – e non può essere casuale – una versione femminile della kalokagathìa. Non è impossibile, per una donna bella, essere anche virtuosa, ma si presuppone che non lo sia: l’universale positivo, implicito nell’ideale maschile, è capovolto nel caso della donna, per cui la bellezza, come esemplifica il mito di Elena, si rivela soprattutto una colpa.

 

Fonte Davide Brullo

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