‘Chiamami col tuo nome’: l’ultimo stucchevole e manierista film di Guadagnino ormai calamitato dal remake

Gli strenui supporter di Chiamami col tuo nome –curiosamente signore e signorine trendy in testa- ci tengono a dichiarare ossessivamente che non si tratta di un “un film di gay”. Sospetto di mani messe avanti a parte, ci sembra che questo vero e proprio mantra danneggi il suo aspetto cruciale e cioè la capacità di descrivere la tensione omoerotica. Aspetto, per di più, che costituisce il suo unico merito. Guadagnino (Io sono l’amore) è un ex critico che sa strutturare le sue opere con grande abilità professionistica, ma proprio qui risiede la sua maggiore debolezza: tanto devoto ai maestri ispiratori quanto calamitato dai remake e ben accolto all’estero, il che non vuol dire necessariamente che siamo di fronte al nuovo Luchino Visconti, come ha sostenuto qualcuno (A Bigger Splash lo era di La piscina ed è già pronto quello di Suspiria), ha, in effetti, ricalcato l’adattamento del novantenne specialista Ivory dell’omonimo romanzo di André Aciman (Guanda editore) sugli amatissimi modelli. Verrebbe da chiosare che secondo logica sarebbe preferibile rivolgersi agli originali, ma c’è di più: gli omaggi e le riletture (Viaggio in Italia, Il giardino dei Finzi Contini, Novecento, Morte a Venezia, Io ballo da sola, Teorema e chi più ne ha più ne metta) ci mettono poco a dirottare nell’estetismo, nel manierismo, nell’affettato e nello stucchevole.

E’ quello che capita a Chiamami col tuo nome che dalla matrice letteraria estrae la messinscena vitrea ed esangue dei primi turbamenti erotici di un diciassettenne indeciso tra il dovere di essere come i coetanei e il piacere di scoprirsi “diverso”: gli inserti musicali raffinati e l’ambientazione agreste diventano –nel corso di due ore e dieci minuti più d’involucro che di sostanza- le polizze di un idillio adolescenziale in cui la bellezza, l’arte e il sesso hanno la funzione neanche troppo camuffata di plusvalore “ideologico”.

I ricchissimi, coltissimi ed ebrei coprotagonisti di Chiamami col tuo nome, “con discrezione” abitanti della villa seicentesca nei dintorni di Crema, accomodati in una sorta di bolla aristo-dem (sigarette e spinelli liberi), parlano di Prassitele ed Eraclito, recuperano statue nel lago di Garda, leggono “Le Monde” nonché libri traducendo all’impronta dal tedesco e hanno vecchi servitori che si chiamano Anchise, però siccome siamo nel 1983 gli italiani chiamati in causa sono caricature urlanti sul Pentapartito e sproloquianti su Craxi. Il dottorando ventiquattrenne ospitato per l’estate è l’americano dalle fattezze apollinee Oliver (Hammer) che con la sua collezione di maliziosi calzoncini e le sue scarpe Converse dà una pista alle ragazzine bruttine e spudorate che assediano l’efebico Elio (Chalamet), fino a quando non scoccherà la scintilla per un connubio che valga davvero il pathos: non si sa soltanto se mettere nel conto poetico anche la scena cult della pesca penetrata tra lo sgocciolio del succo dal protagonista per migliorare l’apprendistato. Come pistolotto finale non manca il superliberale papà che, confessando di essere stato anche lui sul punto di scegliere il vero amore, suggerisce al figlio di concedersi con il partente Oliver una bella vacanza prima che l’estate finisca. I piani sequenza avvolgenti, i controluce nel bosco a cura del fotografo thailandese, l’epilogo con Elio cresciuto e ormai vestito all’ultima moda gay chissà se riusciranno a stornare un pensierino assai maligno: se si fosse trattato di una ragazzina che seduce un fusto trentenne (l’età dell’attore al tempo delle riprese) si sarebbe scatenato il finimondo.

 

Chiamami col tuo nome

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