L’incubo americano nella letteratura di Carver, Ford, Franzen e Roth e il fascino della superficialità come una nuova forma di ignoranza

Mentre la tradizione americana si riconnette esplicitamente alla filosofia politica di Locke, le teorie che hanno plasmato la coscienza sociale europea riproducono contenuto e metodo della dottrina di Hobbes. Ad oggi ciò che resta del chimerico sogno americano è in realtà nient’altro che un mondo costellato di superficialità, distacco emotivo e colpevole indifferenza.

Capita spesso di riflettere sulla precarietà delle relazioni umane nel panorama sociale contemporaneo americano: fenomeno apparentemente motivato dalla vastità e complessità etnica del continente in questione, ma che in realtà è insito nel modus vivendi dell’americano medio. Gli americani – e, con questi ultimi, bisogna intendere i purosangue nordamericani nell’accezione più intima del termine – sono trasfigurazioni fedeli, non molto distanti, anzi, terribilmente vicine ai personaggi che animano i racconti di Raymond Carver. E qui, una breve ma doverosa digressione sul padre del minimalismo americano. La sua rappresentazione del vissuto americano rispecchia in maniera assolutamente autentica, anche se leggermente anacronistica (dati i cambiamenti socio-economici dell’ultimo ventennio) la quotidianità americana dei giorni nostri.

Se, da un lato, i personaggi di Carver (anonimi impiegati incapaci di sognare e consapevoli del proprio fallimento) amavano passare il proprio tempo in compagnia di una bottiglia di whisky, di qualche insipida coppia di amici destinata al divorzio o alle prese di banali azioni nell’inviolato microcosmo domestico (“Do una sciacquata ai bicchieri di plastica. Poi servo il caffè, scavalchiamo una scatola con su scritto ‘ninnoli’ e andiamo a berlo in soggiorno”, Scatole, Da dove sto chiamando, Einaudi, 2010), dall’altro gli americani del nuovo millennio sembrano aver sostituito tali passatempi con esigenze figlie della modernità dei tempi. Eppure restano, sotto molti aspetti, trasposizioni umane di quelle figure carveriane profondamente ancorate alla granitica sicurezza dell’ordinario e del quotidiano. La ricerca di un’epifania joyciana, di una novità più o meno inaspettata nella loro vita, in realtà non è neppure contemplata. Gli americani erano e continuano ad essere compiaciuti della rassicurante prevedibilità della loro esistenza.

E qui entrano in gioco i rapporti umani e viene in nostro aiuto Richard Ford, voce moderna e autorevole della letteratura americana contemporanea. Al pari di Carver, egli cerca di dipingere la realtà senza mistificazione, trasfigurando la quotidianità più cruda e provinciale: la desolazione lasciata dal passaggio dell’uragano Sandy, la stabilità medio borghese di un agente immobiliare, la rassegnata, quasi consapevole accettazione di un matrimonio fallito. Tutto questo continua a popolare, in maniera dominante e profeticamente ciclica, le vite di milioni di americani medi. La precarietà delle relazioni umane, alleviata soltanto da una provvisoria parvenza di benessere, è difatti alla base del substrato sociale americano: rappresenta la consueta contraddizione interna alla società e cultura made in USA. Espressione tangibile ne è la vicenda raccontata ne Il giorno dell’Indipendenza (Feltrinelli, 2015), in cui Ford tenta di ricondurre sotto un improbabile nucleo familiare il protagonista Frank Bascombe (eterno titubante, emblema della middle class americana), la sua nuova fidanzata Sally, giovane e infelice, e il suo problematico figlio adolescente Paul, avuto dalla prima moglie ormai orgogliosamente risposata.

Ma la consapevolezza della fragilità della struttura familiare è anche uno dei temi predominanti della letteratura di Jonathan Franzen, altro pilastro del realismo americano contemporaneo. Proprio ne Le correzioni (Einaudi, 2014), lo scrittore americano traccia con disarmante e chirurgico naturalismo i meccanismi più intimi che regolano la vita dei Lambert, tipica famiglia americana degli anni novanta, ammantata da una patina di aristocratico benessere ma in realtà destinata ad una lenta e inesorabile frattura. Ancora una volta una riproduzione genuina e impietosa dei sentimenti contrastanti che da sempre convivono, nemmeno in maniera troppo pacifica, con i sogni di stabilità di milioni di famiglie di americane.

In questo senso, la cultura occidentale (europea, per essere precisi) delle relazioni umane e affettive affonda le sue radici addirittura in Ovidio (basti leggere le Metamorfosi per convincersene) ed è pertanto antropologicamente più solida. Si potrebbe dunque asserire che faccia parte di un retaggio socio-culturale radicalmente diverso da quello americano e si sia sviluppata sotto forme diverse, con risultati altrettanto differenti. D’altro canto, il senso di cronica estraneità a sentimenti più’ profondi quali l’affetto, l’amicizia e l’attaccamento familiare permea tradizionalmente la società americana. Questo impoverimento emotivo (e culturale, alla base) ha generato una frammentazione identitaria kafkiana a tratti inquietante e tremendamente attuale. Ma la domanda dovrebbe essere: siamo di fronte a una mancanza di valori consapevole o inconsapevole? Il fascino della superficialità è senza dubbio una nuova forma di ignoranza culturale perfettamente conscia, che deriva da una storia intellettuale e sociale ben diversa da quella europea.

Come infatti fa notare Sabine, studioso americano delle dottrine filosofiche, le teorie che hanno plasmato la coscienza sociale europea riproducono contenuto e metodo della dottrina di Hobbes, mentre la tradizione americana si riconnette esplicitamente alla filosofia politica di Locke. La cultura relazionale americana rafforza pertanto l’aspirazione all’autosufficienza e persegue una totale autonomia dal punto di vista pragmatico, ma non riconosce la necessità di coltivare quella sensibilità nei riguardi di se stessi e degli altri che riflette una integrazione più profonda dal punto di vista umano e spirituale.

C’è un passo di Pastorale Americana, capolavoro di Philip Roth, che recita:

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza[…]; offri il tuo volto più bonario camminando in punta di piedi e l’affronti con larghezza di vedute da pari a pari e tuttavia non manchi mai di capirla male. La capisci male prima d’incontrarla, la capisci male mentre sei con lei; poi vai a casa, parli con qualcuno dell’incontro e scopri ancora una volta di avere travisato. Poiché la stessa cosa capita in genere anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Come dobbiamo regolarci con questa storia che assume ogni volta un significato grottesco? Devono tutti chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari che creano i loro personaggi e poi li fanno passare per persone vere? Capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati”.

Correva l’anno 1997 quando fu rilasciata la prima edizione. Ci sarebbe molto da dire sul libro, ma il messaggio più eloquente è che ciò che resta del chimerico sogno americano è in realtà nient’altro che un mondo costellato di superficialità, distacco emotivo e colpevole indifferenza a qualsiasi livello di relazione umana. E oggi, dopo anni di boom economico e (indubbio?) progresso, la situazione non è cambiata.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Exit mobile version