‘Le correzioni’ di Jonathan Franzen: quando cambiamento non necessariamente significa miglioramento

Le correzioni, The Corrections, è il  romanzo più celebre, insieme a Purity, di Jonathan Franzen. Scrittore e stagista statunitense con radici tedesche, Franzen nasce nell’Illinois; compie Studi Umanistici tra gli Stati Uniti e Berlino, esordendo come scrittore nel 1998. Nel 2002 arriva la consacrazione dalla critica letteraria aggiudicandosi, proprio grazie a Le Correzioni, l’ambito premio National Books Awards. Il Time gli dedica una copertina per l’uscita del suo libro nel 2009. Collabora al New York Times dal 2010, uscendo con diversi scritti e saggi . Questi ultimi sono famosi per  aver attirato malumori dei tanti colleghi scrittori nazionali e internazionali.

Pubblicato nel 2001, The Corrections ,è uno dei racconti di narrativa in stile post-modernista che descrive minuziosamente e in modo satireggiante, i cambiamenti in chiave ottimistica delle famiglie americane prima della crisi di inizio anni duemila. La narrazione verte sulle relazioni umane e sul loro modo di condizionare le vite dei singoli. Si addentra ed analizza l’intimità di una qualunque famiglia contemporanea, dove i valori di una generazione passata si contrappongono e si mescolano con la generazione successiva, senza mai fondersi del tutto.

Trama e contenuti nel romanzo di Franzen

Il romanzo di Franzen sembrerebbe raccontare le vicende di una normale famiglia del Midwest, simile a tante altre: la tipica famiglia bianca della borghesia statunitense, impregnata di quel perbenismo ipocrita e moralista. Tuttavia il voler accentuare queste caratteristiche rende i personaggi sorprendentemente contraddittori. La maggior perseguitrice dei valori puritani e borghesi è sicuramente Enid Lambert, moglie di Alfred e madre di Gary, Chip e Denise. Ella si confronta in modo ossessivo con i suoi vicini e le sue amicizie, considerati modello di uno stile di vita “giusto e rispettabile, riscontrabile solo tra i cittadini di Saint Jude.

Enid per una vita intera cerca di raggiungere il modello di perfetta moglie e madre, volendo in tutti i modi eccellere e diventare lei stessa e la sua famiglia modello ambito e invidiato dal vicinato. Questo la porta a criticare ogni minimo sbaglio della vita dei suoi conoscenti, contemporaneamente dissimula i comportamenti errati suoi o dei suoi familiari. Enid sarà esasperata delle sue ossessive correzioni e solo alla fine del libro capirà che ha dedicato a questa attività tempo inutile. A differenza di sua moglie, Alfred è forse il personaggio che Franzen farà ricorrere meno alla revisione dei suoi comportamenti: lo farà solo in relazione al suo lavoro, fulcro della sua vita.

Ben presto il padre di famiglia si arrenderà ai suoi sbagli ma involontariamente: la depressione e poi la malattia di Parkinson ridurranno in lui la soggiogazione a quella smania di perfezione etica e morale che sfociava della corrosiva dedizione al lavoro. Al rifiuta la vita familiare, gli svaghi, i piaceri. Per lui la vita è fatta di affanni, di lotta, di sofferenze. Ecco perché forse lo scrittore gli attribuisce una malattia tanto grave che lo porterà alla morte. La malattia gli permetterà di correggersi senza il suo volere, perché la sua troppa rigidità non gli avrebbe permesso passi in dietro. La stessa famiglia è concepita da lui come una squadra che lavora per adempiere ad un compito: sostentarsi a vicenda.

La moglie è il familiare che subisce maggiormente la sua concezione schopenhaueriana: questa è a tutti gli effetti un suo subordinato alla quale impartire ordini sulla gestione della casa e dei figli e alla quale non consentire neanche un briciolo di compassione, supporto o di gesti affettuosi. Nel rapporto coniugale sono riversate, quindi, le rispettive frustrazioni per quell’idea dell’altro irreale. Enid aspetta per tutta la vita che suo marito possa diventare in qualche modo più affettuoso, possa ricambiare i suoi gesti d’amore ed anche se sa che il cambiamento non avverrà mai, lei sarà innamorata di un Alfred esistente solo nella sua mente. Alfred, che sguazza nella propria autocommiserazione, ad ogni modo imporrà alla moglie i suoi voleri, la sua privacy, ammonendola ogni qualvolta non rispetti le sue indicazioni.

Questo nodo cruciale sarà sbrogliato solo con l’aggravarsi della malattia di Alfred, quando non vi sarà più bisogno di correggere l’altro. I tre figli della coppia, hanno vissuto la loro infanzia i questo clima di eccessiva rigidità. Forgiati su quella rincorsa alla perfezione ostinata, finiscono per distaccarsi quasi per ripicca da quel perbenismo maniacale. Per quanto possano odiare quegli atteggiamenti e pensieri così repressivi, non potranno ignorarli, ci dice Franzen.

Gary il maggiore, è colui che più di tutti ha subito l’influenza di sua madre cercando di imitarla sotto tutti i punti: in primis vuole far in modo da entrare nelle grazie di suo padre e, di conseguenza di sua madre, fin da quando è piccolo. E’ l’unico dei tre che ha costruito un nucleo borghese a Philadelphia ,con una moglie rispettabile e benestante, tre figli e un lavoro dirigenziale. Pur allontanandosi dalla sua famiglia non riesce a far a meno di comportarsi come loro, lavorando sodo come il padre, certe volte estraniandosi, commentando e giudicando con disprezzo chi non rientra nei canoni, bramando prestigio e affari.

Egli è però terrorizzato dal porte assomigliare in qualche modo a suo padre, Alfred : le sue correzioni sono principalmente volte a rimodulare i malsani atteggiamenti paterni cercando di non commettere le stesse azioni che un tempo hanno recato dolore alla sua famiglia. Chip, il secondo fratello, è considerato il sovvertitore degli equilibri familiari: viene descritto come la “Pecora Nera”, anche se i suoi genitori non hanno fatto altro che lodarlo e vantarlo per tutta la vita, a detta sua, sopravvalutando le sue capacità. Sente la forte pressione dei suoi genitori, che confidano in alte aspettative per la sua vita e la sua carriera. Ha la capacità di opposti in qualunque modo a queste volontà idealizzate dalla sua famiglia. Si tratta forse del personaggio più eclettico nella vicenda, capace di immischiarsi in diversi guai e riprendersi, cadendo sempre in piedi.

Per quanto egli voglia in qualche modo sfuggire alle speranze genitoriali, non potrà fare a meno di deluderle: vorrebbe dare loro quelle agogniate soddisfazioni ma la sua natura glielo impedisce. Quando non opporrà più resistenze al suo spirito libero, ritroverà il suo baricentro e la serenità.

L’ultima dei tre, Denise, sembrerebbe essere la più affine al comportamento di Alfred, anche se il suo lato umano è molto più spiccato. Come lui è ambiziosa e testarda. Riesce a far emergere il lato sentimentale e umano di suo padre, che probabilmente riconosce molto di lui in lei. Descritta come una chef in carriera, dedica tanto tempo al lavoro ma finisce per farsi licenziare. I piaceri che tanto Al aveva ripudiato, la persuadono e allontanandola per sempre da quella vita fatta di solo lavoro. Spesso è la “vittima” preferita delle ammonizioni di sua madre. Con quest’ultima, è in continuo scontro ma contemporaneamente riesce ad immedesimarsi nel suo punto di vista anche non condividendolo. Il contrasto con l’ aspirazioni materne, la porterà a compiere scelte, nella sua vita sentimentale, molto distanti dai voleri di Enid.

Cercherà, come suo fratello, ma con la dedizione che la differenzia, di allontanarsi e poi di avvicinarsi ai valori paterni, fallendo miseramente, scegliendo in fine la propria felicità condivisi in fine anche dai suoi familiari, infischiandosene dei loro giudizi.

Il cambiamento inevitabile

Le vicende di questa famiglia riportano il lettore a confrontarsi con se stesso, ad aiutarlo a comprendere il modo corretto di correggere il proprio io. L’accattivante uso di regressioni offre un’ampia panoramica sulla vita di questi cinque personaggi: un’analisi così ben presentata da poter far diventare i cinque, persone comuni intercambiabili, alle prese con i loro dissidi interiori suscitati dalla smania di voler essere conforme a un qualche modello prestabilito. Paiono tutti non sfuggire a quell’anedonia radicata, come suggerisce Franzen: l’Anedonia era il segnale d’allarme che stava contagiando un piacere dopo l’altro, frutto di quella comodità infelice che prima o poi si finisce per accettare.

Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia

La conquista di Franzen sta nell’essere riuscito a trovare per questi personaggi di una saga familiare che fotografa il cambiamento di una società (non solo quella americana) che smarrisce ogni riferimento morale, seppur ipocrita e autoritario, una svolta plausibile che riporta loro verso una via d’uscita, offrendo un finale ricco di sorprese e non scontato. Le citazioni di cui si serve lo scrittore, dalla Bibbia a Schopenhauer a S.C. Lewis, risultano opporune e calzanti e mai del tutto scontate. Ritornano come lampi all’interno della narrazione e permettono di collegare episodi apparentemente sconnessi.

Il linguaggio di Franzen è fluido e mai troppo ricercato, ironico e a tratti caustico anche nell’affrontare argomenti scientifici o di economia. Se pur la traduzione italiana non riporta il significato corretto di alcuni gerghi e giochi di parole tipicamente yankees, c’è da apprezzare la volontà di riportarne almeno in parte la funzionalità nella narrazione conferendo allo scritto una freschezza moderna che fa venire in mente American Beauty, Tempesta di ghiaccio e Pastorale Americana. Ma per Franzen non sempre il cambiamento è verso qualcosa di meglio e i rapporti umani, familiari ne rappresentano il nodo irrisolto.

L’incubo americano nella letteratura di Carver, Ford, Franzen e Roth e il fascino della superficialità come una nuova forma di ignoranza

Mentre la tradizione americana si riconnette esplicitamente alla filosofia politica di Locke, le teorie che hanno plasmato la coscienza sociale europea riproducono contenuto e metodo della dottrina di Hobbes. Ad oggi ciò che resta del chimerico sogno americano è in realtà nient’altro che un mondo costellato di superficialità, distacco emotivo e colpevole indifferenza.

Capita spesso di riflettere sulla precarietà delle relazioni umane nel panorama sociale contemporaneo americano: fenomeno apparentemente motivato dalla vastità e complessità etnica del continente in questione, ma che in realtà è insito nel modus vivendi dell’americano medio. Gli americani – e, con questi ultimi, bisogna intendere i purosangue nordamericani nell’accezione più intima del termine – sono trasfigurazioni fedeli, non molto distanti, anzi, terribilmente vicine ai personaggi che animano i racconti di Raymond Carver. E qui, una breve ma doverosa digressione sul padre del minimalismo americano. La sua rappresentazione del vissuto americano rispecchia in maniera assolutamente autentica, anche se leggermente anacronistica (dati i cambiamenti socio-economici dell’ultimo ventennio) la quotidianità americana dei giorni nostri.

Se, da un lato, i personaggi di Carver (anonimi impiegati incapaci di sognare e consapevoli del proprio fallimento) amavano passare il proprio tempo in compagnia di una bottiglia di whisky, di qualche insipida coppia di amici destinata al divorzio o alle prese di banali azioni nell’inviolato microcosmo domestico (“Do una sciacquata ai bicchieri di plastica. Poi servo il caffè, scavalchiamo una scatola con su scritto ‘ninnoli’ e andiamo a berlo in soggiorno”, Scatole, Da dove sto chiamando, Einaudi, 2010), dall’altro gli americani del nuovo millennio sembrano aver sostituito tali passatempi con esigenze figlie della modernità dei tempi. Eppure restano, sotto molti aspetti, trasposizioni umane di quelle figure carveriane profondamente ancorate alla granitica sicurezza dell’ordinario e del quotidiano. La ricerca di un’epifania joyciana, di una novità più o meno inaspettata nella loro vita, in realtà non è neppure contemplata. Gli americani erano e continuano ad essere compiaciuti della rassicurante prevedibilità della loro esistenza.

E qui entrano in gioco i rapporti umani e viene in nostro aiuto Richard Ford, voce moderna e autorevole della letteratura americana contemporanea. Al pari di Carver, egli cerca di dipingere la realtà senza mistificazione, trasfigurando la quotidianità più cruda e provinciale: la desolazione lasciata dal passaggio dell’uragano Sandy, la stabilità medio borghese di un agente immobiliare, la rassegnata, quasi consapevole accettazione di un matrimonio fallito. Tutto questo continua a popolare, in maniera dominante e profeticamente ciclica, le vite di milioni di americani medi. La precarietà delle relazioni umane, alleviata soltanto da una provvisoria parvenza di benessere, è difatti alla base del substrato sociale americano: rappresenta la consueta contraddizione interna alla società e cultura made in USA. Espressione tangibile ne è la vicenda raccontata ne Il giorno dell’Indipendenza (Feltrinelli, 2015), in cui Ford tenta di ricondurre sotto un improbabile nucleo familiare il protagonista Frank Bascombe (eterno titubante, emblema della middle class americana), la sua nuova fidanzata Sally, giovane e infelice, e il suo problematico figlio adolescente Paul, avuto dalla prima moglie ormai orgogliosamente risposata.

Ma la consapevolezza della fragilità della struttura familiare è anche uno dei temi predominanti della letteratura di Jonathan Franzen, altro pilastro del realismo americano contemporaneo. Proprio ne Le correzioni (Einaudi, 2014), lo scrittore americano traccia con disarmante e chirurgico naturalismo i meccanismi più intimi che regolano la vita dei Lambert, tipica famiglia americana degli anni novanta, ammantata da una patina di aristocratico benessere ma in realtà destinata ad una lenta e inesorabile frattura. Ancora una volta una riproduzione genuina e impietosa dei sentimenti contrastanti che da sempre convivono, nemmeno in maniera troppo pacifica, con i sogni di stabilità di milioni di famiglie di americane.

In questo senso, la cultura occidentale (europea, per essere precisi) delle relazioni umane e affettive affonda le sue radici addirittura in Ovidio (basti leggere le Metamorfosi per convincersene) ed è pertanto antropologicamente più solida. Si potrebbe dunque asserire che faccia parte di un retaggio socio-culturale radicalmente diverso da quello americano e si sia sviluppata sotto forme diverse, con risultati altrettanto differenti. D’altro canto, il senso di cronica estraneità a sentimenti più’ profondi quali l’affetto, l’amicizia e l’attaccamento familiare permea tradizionalmente la società americana. Questo impoverimento emotivo (e culturale, alla base) ha generato una frammentazione identitaria kafkiana a tratti inquietante e tremendamente attuale. Ma la domanda dovrebbe essere: siamo di fronte a una mancanza di valori consapevole o inconsapevole? Il fascino della superficialità è senza dubbio una nuova forma di ignoranza culturale perfettamente conscia, che deriva da una storia intellettuale e sociale ben diversa da quella europea.

Come infatti fa notare Sabine, studioso americano delle dottrine filosofiche, le teorie che hanno plasmato la coscienza sociale europea riproducono contenuto e metodo della dottrina di Hobbes, mentre la tradizione americana si riconnette esplicitamente alla filosofia politica di Locke. La cultura relazionale americana rafforza pertanto l’aspirazione all’autosufficienza e persegue una totale autonomia dal punto di vista pragmatico, ma non riconosce la necessità di coltivare quella sensibilità nei riguardi di se stessi e degli altri che riflette una integrazione più profonda dal punto di vista umano e spirituale.

C’è un passo di Pastorale Americana, capolavoro di Philip Roth, che recita:

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza[…]; offri il tuo volto più bonario camminando in punta di piedi e l’affronti con larghezza di vedute da pari a pari e tuttavia non manchi mai di capirla male. La capisci male prima d’incontrarla, la capisci male mentre sei con lei; poi vai a casa, parli con qualcuno dell’incontro e scopri ancora una volta di avere travisato. Poiché la stessa cosa capita in genere anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Come dobbiamo regolarci con questa storia che assume ogni volta un significato grottesco? Devono tutti chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari che creano i loro personaggi e poi li fanno passare per persone vere? Capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati”.

Correva l’anno 1997 quando fu rilasciata la prima edizione. Ci sarebbe molto da dire sul libro, ma il messaggio più eloquente è che ciò che resta del chimerico sogno americano è in realtà nient’altro che un mondo costellato di superficialità, distacco emotivo e colpevole indifferenza a qualsiasi livello di relazione umana. E oggi, dopo anni di boom economico e (indubbio?) progresso, la situazione non è cambiata.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Lawrence Ferlinghetti: l’ultimo sopravvissuto della Beat Generation

Mezzo secolo ci separa da fatti del ’68 e l’eco della loro epica è forse ben fioca per le giovani generazioni. Parrebbe infatti che i nati nel 2000 non riescano ad immaginare un mondo, una civiltà, differente da quella ereditata. Stupirebbe veramente una loro rivolta generazionale. Forse il dirlo è indice di paternalismo, affine a quello dei critici del ‘68, proprio di quell’epica che a parer loro è stata incubatrice di ogni pressappochismo, di ogni disordine e superficialità. Se i conservatori di destra guardano al mondo delle vecchie zie longanesiane o ad astratte aristocrazie tradizionaliste, esiste un conservatorismo di sinistra, come a smentire definitivamente uno dei significati della dicotomia politica. A cinquant’anni di distanza, dunque, è lecito voler conservare, tramandare qualcosa dello spirito che animò il ‘68? Ed è ovvio che in quello spirito dobbiamo metterci Marcuse e i Beatles in cielo con Lucy e diamanti, il Che e l’Esistenzialismo. Una voglia di migliorare il mondo, di godersi la vita, anche di meditarci su, permessa alla prima generazione non troppo coinvolta in guerre e con più denaro in tasca, libri in scaffale e tempo libero rispetto ai genitori. Sarà comunque fruttuoso interrogare i padri più o meno legittimi di quella rivolta giovanile, studiare le mosse di chi aprì la strada poi percorsa dai cortei e da erranti solitari. Fra questi forse meno noto ma assai influente vi è Lawrence Ferlinghetti, classe 1919, l’ultimo sopravvissuto della prima generazione beat, anche se lui stesso non si definisce tale, essendo ben più esteso il suo orizzonte.

Non tanto come poeta o romanziere Felinghetti fu seminale per i sessantottini statunitensi e poi, per conseguenza coloniale, europei, ma soprattutto come editore. Il marchio City Lights, dalla libreria omonima di San Francisco, ha pubblicato Howl di Allen Ginsberg nel 1956 condannato per oscenità, poi Gregory Corso, Kerouac e Burroghs e fuori dal giro beat Bukowski, Bataille, Pasolini, Breton, Artaud, Chomsky. Letture, insomma, che hanno contribuito a nascita e sviluppo della controcultura Usa. Il tutto parrebbe bene ordito se non si ha un’immagine di Felinghetti reale. Si tratta di un uomo, di un artista, di un osservatore più spregiudicato ed entusiasta e meno calcolatore di quanto potrebbero pensare i suoi avversari, o almeno così appare in Scrivendo sulla strada, un “diario di viaggio e di letteratura” tradotto da Giada Diano per Il Saggiatore. Il sottotitolo non rende piena dignità all’opera, che non è solo un diario di viaggio nello stile di Goethe e di D. H. Lawrence. È un’autobiografia in frammenti, scritta proprio on the road, talvolta tornando negli stessi posti dopo anni: dal 1944 che lo vede soldato ad Omaha Beach al 2010 in Belize dove novantunenne ancora scrive poesie accompagnato dal ritmo del mare.

Nel maggio del ‘68 è guarda caso a Parigi e copia i graffiti surrealisti che parlano dai muri. Vede la speranza in “una libertà totale dalle catene dello status quo”, ma saggio e serafico come un Buddha non si entusiasma troppo, conscio del potere repressivo dello “Stato solido”. L’estate prima, quella del ‘67, the Summer of Love, non lo trova in California ma fra le steppe della Siberia. Amico di Evtušenko e di altri dissidenti, viaggia per la Russia e ben prima di buona parte della sinistra europea capisce che da quelle parti c’è poco di buono. Anche durante il suo viaggio a Cuba nel 1960, con tanto di stretta di mano a Fidel, pare meno entusiasta di quanto ci si aspetterebbe. Da buon anarchico, Ferlinghetti sa che la rivoluzione è trasformazione continua, roba personale che si realizza nel rapporto col paesaggio intorno. Non è mai stasi, è movimento, lo stesso movimento che lo porta fra le povertà e le ancestralità del Messico, in Oceania con Ginsberg e col figlio neanche adolescente, nelle immersioni negli Usa profondi, nella provincia che è il vero centro di ciò che Henry Miller chiamava “l’incubo ad aria condizionata”.

Ferlinghetti vede brutture ovunque ma non è un idealista in cerca del modello perfetto, sa far tesoro di paesaggio e di persone intorno. Vede anche il bello ovunque. E alla fine si commuove più per le suggestioni letterarie, nel ripercorrere le orme dei suoi idoli, che per le uniformi dei Sandinisti. Si commuove veramente mentre Ezra Pound legge al festival di Spoleto del 1965 o a Lisbona sedendosi nel caffè preferito di Pessoa e sentendosi “uno dei suoi eteronimi”.

Di origini italiane e studi francesi, amante della spiritualità liberale e della natura, oltreché della socialdemocrazia scandinava, Ferlinghetti è il più europeo dei beat o il più statunitense dei poeti europei. Rappresenta una felice unione di contrari, compresa quella fra imprenditore e poeta. È però anche oltre la destra e la sinistra, il conservatorismo e l’innovazione acritica e in un certo senso oltre l’ideale e il reale, in una sana sintesi. Testimone della cenere di Nagasaki, della percezione della fine del mondo nella notte del deserto messicano e della resistenza della borghesia “uguale in tutto il mondo”, ci dona anche una capacità di vedere altro, di pensare altro, altri mondi, altri paesaggi e poesie da scrivere. Se quella capacità è stata un poco coltivata nel ‘68, andrebbe sì trasmessa ai giovani, ai nati nel 2000. Risulterà indispensabile per i viaggi nel tempo e nello spazio del futuro.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente-letteratura

Cormac McCarthy: quella grande faglia tra le spietate leggi della natura e della civiltà

La forma della strada è la strada stessa. Non c’è altra strada che possegga quella forma, al di fuori di quella. E ogni viaggio iniziato su di essa verrà portato a termine. Che si trovino o meno i cavalli. (cit. Oltre il confine di McCarthy).

Le opere di Cormac McCarthy sono oggetti che ti riportano lontano…molto lontano. Puoi sentire l’odore dell’America profonda, quella dei Faulkner, degli Hemingway dei quali il narratore del New England è l’ultimo grande esponente, sia per stile narrativo che per tematiche. Non a caso McCarthy è stato definito dal grande critico letterario Harold Bloom uno dei “magnifici quattro” della narrativa d’oltreoceano -e gli altri si chiamano Philip Roth, Don DeLillo, Thomas Pynchon; romanzieri con una loro precisa peculiarità e che si avvicinano per avere riflesso spaccati diversi del mondo a stelle e strisce.

L’esordio letterario per lo scrittore di Providence avviene nel 1965 con Il guardiano del frutteto, un romanzo misterioso, di lettura assai complessa, colmo di descrizioni e di rassegnazione dove si delinea fin da subito la faglia, larga, enorme, preistorica tra le leggi spietate della natura e quelle dell’uomo e della civiltà che invano cerca di sottrarsene. La struttura del racconto anticipa già alcuni dei temi portanti dell’opera successiva: le vicende di tre figure umane molto diverse fra loro che quasi per destino si incrociano in un luogo sperduto di un’America che non esiste più se non in un tempo che è rintracciabile solo nelle descrizioni. Siamo a cavallo tra i due conflitti mondiali, nell’era del proibizionismo e della prima grande crisi economica ed esistenziale dell’uomo moderno. Le tre figure chiave- un contrabbandiere, un giovane cacciatore orfano di padre e un eremita dei boschi- sono accomunate da un cadavere sepolto in un frutteto. I tre personaggi rappresentano uomini che non saranno mai eroi e- quasi a farlo apposta- il rapporto padre-figlio tra il contrabbandiere Marion e il giovane John anticipa prepotentemente quello che sarà un topos di tutta l’opera di McCarthy, fino al futuristico e apocalittico La strada libro ultimo, edito nel 2006.

Il secondo romanzo dell’autore Outer dark (il buio fuori) ripercorre altri topos della letteratura classica: dalle Sacre Scritture fino al Re Lear di Shakespeare. Tutto parte da un incesto, da un abbandono, da un complesso di colpa che porterà un uomo e una donna a vagare attraverso le montagne degli Appalachi alla ricerca di un bambino: ancora la trinità, ancora l’insensato viaggio verso un approdo che alla fine darà l’insensatezza di un pellegrinaggio che non riuscirà a trasmutare alcuna delle tre figure neppure quando riusciranno a incontrarsi. La poetica di McCarthy trova il suo massimo fulgore tra gli anni ’70 e ’90, quando verranno pubblicati Suttree, che ha per protagonista un novello Huckleberry Finn, il suo quarto romanzo semi-autobiografico -da molta critica considerato il suo capolavoro- e i tre libri denominati sotto il titolo della Trilogia della Frontiera (Cavalli Selvaggi, Oltre il confine e Città della Pianura). I protagonisti di queste storie rappresentano sfaccettature molteplici, ambigue, dove è difficile per il lettore trovare un’immediata identificazione in ciò che fanno e per come agiscono. Probabilmente è l’autore stesso che in modo inconscio mette qualcosa di sé stesso, in tutti i caratteri di queste vicende tentando di incarnare l’epopea sperduta e selvaggia, quanto suggestiva del cowboy visto però come disadattato nei confronti di un mondo che accelera sempre di più verso un progresso vacuo di valori e affollato di figli che hanno perduto il loro dio, il loro padre, e non da ultimo i loro esempi. E questo disadattamento si riproduce molto spesso nella dialettica con una natura esatta, perfetta, ispirata da un’entità altra rispetto a quella che vigila le turbolenze degli uomini. L’ispezione di questo rapporto ha anche fugaci pennellate di positività, come il legame che si instaura -in Oltre il confine– tra il giovane Billy, figlio di un allevatore autoritario, e una lupa appena catturata, la quale anziché essere consegnata al padre verrà riportata al confine con il Messico. Un confine sempre più labile tra il mondo umano e quello animale, ma collimato da un lungo viaggio e da una storia d’amore tra due mondi in apparenza così distanti.

Un’ulteriore evoluzione, McCarthy la dimostra anche nelle sue ultime opere, quelle della maturità. Non è un paese per vecchi, è stato inizialmente pensato per una sceneggiatura cinematografica che in seguito sarà portata a termine, grazie alla trasposizione fatta dai fratelli Coen nell’omonimo film del 2008, premiato dall’Academy con 4 premi Oscar. Non è un paese per vecchi prosegue lungo la linea sottile della frontiera e questa volta lo fa ridisegnando un genere popolare come quello del thriller; in questo caso l’ambientazione è il Texas dei primi anni ’80. Ad incrociarsi sono i destini di tre figure. Il primo, Llewelyn Moss sta fuggendo con una borsa piena di soldi e di speranza, gli altri due lo inseguono. Anche in questo caso la frontiera è al tempo stesso un luogo di viaggio e di continui inseguimenti dove in un climax sempre più drammatico, McCarthy ci porta nel vero cuore di tenebra di ogni essere umano e nel lato oscuro dell’american dream. E’ la violenza che muove il mondo: dignità e onore spesso soccombono. La penna dello scrittore non da risalto a giudizi troppo espliciti, quasi sempre si limita ad osservare intrecciando la diversa vitalità di un reduce della guerra del Vietnam, di un killer dalla filosofia spietata e di uno sceriffo che annota i propri sogni sul suo diario. Tema ricorrente del grande scrittore è anche quello relativo a Dio, alla sua esistenza:

“E poi cosa succede?
Quando?
Una volta morto?
Niente succede. Sei morto.
Tempo fa mi hai detto che credevi in Dio.
Il vecchio agitò una mano. Può darsi, disse. Ma non vedo perché lui dovrebbe credere in me. Oh, mi piacerebbe parlarci un attimo, se potessi.
Che cosa gli diresti?
Be’, credo che gli direi semplicemente, direi: Aspetta un secondo. Aspetta un secondo prima di darmi addosso. Prima che tu apra bocca vorrei solo sapere una cosa. E lui direbbe: Che cosa? E allora io gli chiedo: Si può sapere perché mi hai messo in mezzo in questa partita a dadi quaggiù? Non ci ho mai capito un accidente.
Suttree sorrise. E lui cosa credi che dirà?
Il cenciaiolo sputò e si asciugò la bocca. Non credo che possa rispondere, disse. Non credo che ci sia una risposta.” (Da Suttree)

Forse però è proprio con il suo ultimo romanzo La strada, vincitore del Premio Pulitzer, che McCarthy dà il meglio di sé, colpendo forte, catapultandoci in uno scenario post-apocalittico e componendo una storia basata su un unico rapporto a due persone e disegnando uno scenario completamente diverso rispetto a quello dei suoi libri precedenti. In questo caso non siamo più nel passato, ma in un futuro di ceneri (probabilmente dopo una catastrofe nucleare) dove un uomo e un bambino viaggiano insieme, dirigendosi verso il mare. Con loro il fuoco e il ricordo di una donna. E ancora una volta la strada, quella linea di confine che va necessariamente esplorata anche se non porta da nessuna parte perché: «Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere». Ma vale comunque la pena di tentare, di continuare a camminare come se si avesse tutto il tempo di questo mondo, di questo mondo nero, scuro, intriso di un’epica tragica che porta ogni uomo verso il suo destino eroso, svuotato e ineluttabile nel quale lo spirito di sopravvivenza molto spesso dipende dalla corporale consistenza del calibro di una pistola.

Potente, sobrio e asciutto, fecondo, McCarthy è uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, che con la sua scrittura densa e corposa, legittima ogni cosa, dandole senso di stare al mondo, con i suoi personaggi sempre ai margini della società, in cerca di un qualche riscatto, in viaggio verso il mistero, per poi scoprire che c’è un umanità al di là della frontiera, fatta di povera gente che divide con te, anche quel poco che ha. Ma ci sono anche ladri di cavalli o assassini che vorrebbero portarti via quel poco che hai. Questa è la vita.

 

Fonte: l’intellettuale dissidente-homines-mccarthy

Exit mobile version