‘Il buon selvaggio’: perché l’uomo post-moderno non può riscoprirsi uomo primitivo

La figura del “buon selvaggio” è stata oggetto di moltissimi studi da parte di filosofi e letterati che hanno cercato di comprendere chi fosse realmente l’uomo primitivo protagonista del Romanticismo e dell’Illuminismo, e quale fosse il suo ruolo all’interno della società.

Il buon selvaggio, in estrema sintesi, è l’espressione vivente di un’umanità senza civiltà, e dunque felice, i cui tratti caratterizzanti sono la generosità, l’innocenza, il vivere in armonia con la natura e la saggezza spontanea. L’uomo primitivo nasce buono, conduce un’esistenza senza impedimenti e non conosce le catene della morale e i lacciuoli del progresso che tutto corrompe.

Tuttavia questo idillio, che prende il nome di stato di natura, verrà messo in discussione con la nascita della società: l’uomo d’ora in avanti non potrà più tendere all’autoconservazione ma dovrà necessariamente confrontarsi con i suoi simili all’interno di un perimetro sociale. A cosa porterà tutto ciò?

Arrivati a questo punto, filosofi e letterati si dividono: per Thomas Hobbes l’essere umano, che vive a contatto con la natura, è mosso dai più biechi istinti poiché l’unica legge esistente è quella (tacita) del più forte, e perciò è obbligato a combattere contro i propri simili per la sopravvivenza.

L’unico modo per superare il “bellum omnium contra omnes” è sottomettersi a una guida sociale e politica forte: il Leviatano. Di tutt’altro parere Rousseau, che invece esalta lo stato di natura dove libertà e uguaglianza convivono insieme, una sorta di Eldorado in Terra che però non esiste più.

Ora l’uomo “è ovunque in catene”, metafora delle costrizioni della morale e della civilizzazione di cui fa parte il progresso, e l’unico modo per spezzarle passa attraverso l’adesione a un patto sociale che lo porterà a divenire membro di quel corpo politico, fatto di persone, che sarà per lui garante di massima libertà e prenderà il nome di “volontà generale”.

La figura del buon selvaggio: l’insegnamento di Voltaire e di Sun Tzu

Anche Voltaire, autore conosciuto dal grande pubblico per l’opera intitolata “Candido”, racconto filosofico e romanzo di formazione che tratta anche tematiche disimpegnate come l’amore platonico tra il protagonista Candido e Cunegonda e il ruolo della Fortuna, si interroga su chi sia realmente il buon selvaggio arrivando alla conclusione che egli è semplicemente l’uomo libero anche se non civilizzato.

Tale considerazione lo avvicina molto a Rousseau, che può essere considerato alla stregua di un padre putativo del mito del buon selvaggio. Il contributo di quest’ultimo, come abbiamo visto, è fondamentale nel raccontare ed esaltare una figura di uomo molto lontana da quella occidentale-illuminista dei suoi tempi, dove il progresso, che tutto corrompe, è la vittoria della ragione.

Sono passati più di 200 anni dall’età dei lumi e la società odierna è molto diversa da quella di allora, eppure a distanza di così tanto tempo varrebbe comunque la pena di interrogarsi, come fecero Hobbes, Rousseau e Voltaire, sul buon selvaggio.

Dopo aver compreso il pensiero di questi grandissimi autori, ovviamente non gli unici a porsi domande fondamentali sull’uomo – per esempio Sun Tzu nella sua celeberrima opera “L’arte della guerra”, ancora oggi attualissima, descriveva l’uomo quale essere illuminato solo se consapevole della sua natura e della natura della contingenza  – è giunto il momento di vedere se c’è spazio per il buon selvaggio anche ai giorni nostri.

La società post-moderna dell’incertezza e del rischio

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L’uomo dei giorni nostri nasce e cresce all’interno di quella che potremmo definire la “società post-moderna dell’incertezza e del rischio”, i cui squilibri socio-economici lo spingono verso un’”alienante individualizzazione”, che si traduce in un isolamento forzato che lo porterebbe a desiderare di vivere un eterno passato utopico frutto della sua (fervida) immaginazione.

In questo clima di generale insicurezza, che interessa la quasi totalità degli ambiti dell’esistenza umana, dal lavoro passando per l’amore e l’amicizia, ognuno pensa solo a sé stesso, e tutto ciò è acuito da quel processo di disembedding, ovvero di sradicamento dei rapporti sociali che vengono ricostruiti lungo archi spazio-temporali indefiniti e globali, che genera ancor più smarrimento. Se questa, in breve, è l’odierna condizione dell’uomo, oggi può esistere un buon selvaggio?

La risposta è no: il buon selvaggio come definito da Hobbes, Rousseau e Voltaire oggi non esiste più, e se anche esistesse assomiglierebbe più che altro a un asceta in grado di reggere sulle proprie spalle il peso di un mondo complesso e a tratti incomprensibile. Difficile. Come è lontana l’età dell’oro in cui l’uomo aveva a che fare con la libertà!

 

L’incubo americano nella letteratura di Carver, Ford, Franzen e Roth e il fascino della superficialità come una nuova forma di ignoranza

Mentre la tradizione americana si riconnette esplicitamente alla filosofia politica di Locke, le teorie che hanno plasmato la coscienza sociale europea riproducono contenuto e metodo della dottrina di Hobbes. Ad oggi ciò che resta del chimerico sogno americano è in realtà nient’altro che un mondo costellato di superficialità, distacco emotivo e colpevole indifferenza.

Capita spesso di riflettere sulla precarietà delle relazioni umane nel panorama sociale contemporaneo americano: fenomeno apparentemente motivato dalla vastità e complessità etnica del continente in questione, ma che in realtà è insito nel modus vivendi dell’americano medio. Gli americani – e, con questi ultimi, bisogna intendere i purosangue nordamericani nell’accezione più intima del termine – sono trasfigurazioni fedeli, non molto distanti, anzi, terribilmente vicine ai personaggi che animano i racconti di Raymond Carver. E qui, una breve ma doverosa digressione sul padre del minimalismo americano. La sua rappresentazione del vissuto americano rispecchia in maniera assolutamente autentica, anche se leggermente anacronistica (dati i cambiamenti socio-economici dell’ultimo ventennio) la quotidianità americana dei giorni nostri.

Se, da un lato, i personaggi di Carver (anonimi impiegati incapaci di sognare e consapevoli del proprio fallimento) amavano passare il proprio tempo in compagnia di una bottiglia di whisky, di qualche insipida coppia di amici destinata al divorzio o alle prese di banali azioni nell’inviolato microcosmo domestico (“Do una sciacquata ai bicchieri di plastica. Poi servo il caffè, scavalchiamo una scatola con su scritto ‘ninnoli’ e andiamo a berlo in soggiorno”, Scatole, Da dove sto chiamando, Einaudi, 2010), dall’altro gli americani del nuovo millennio sembrano aver sostituito tali passatempi con esigenze figlie della modernità dei tempi. Eppure restano, sotto molti aspetti, trasposizioni umane di quelle figure carveriane profondamente ancorate alla granitica sicurezza dell’ordinario e del quotidiano. La ricerca di un’epifania joyciana, di una novità più o meno inaspettata nella loro vita, in realtà non è neppure contemplata. Gli americani erano e continuano ad essere compiaciuti della rassicurante prevedibilità della loro esistenza.

E qui entrano in gioco i rapporti umani e viene in nostro aiuto Richard Ford, voce moderna e autorevole della letteratura americana contemporanea. Al pari di Carver, egli cerca di dipingere la realtà senza mistificazione, trasfigurando la quotidianità più cruda e provinciale: la desolazione lasciata dal passaggio dell’uragano Sandy, la stabilità medio borghese di un agente immobiliare, la rassegnata, quasi consapevole accettazione di un matrimonio fallito. Tutto questo continua a popolare, in maniera dominante e profeticamente ciclica, le vite di milioni di americani medi. La precarietà delle relazioni umane, alleviata soltanto da una provvisoria parvenza di benessere, è difatti alla base del substrato sociale americano: rappresenta la consueta contraddizione interna alla società e cultura made in USA. Espressione tangibile ne è la vicenda raccontata ne Il giorno dell’Indipendenza (Feltrinelli, 2015), in cui Ford tenta di ricondurre sotto un improbabile nucleo familiare il protagonista Frank Bascombe (eterno titubante, emblema della middle class americana), la sua nuova fidanzata Sally, giovane e infelice, e il suo problematico figlio adolescente Paul, avuto dalla prima moglie ormai orgogliosamente risposata.

Ma la consapevolezza della fragilità della struttura familiare è anche uno dei temi predominanti della letteratura di Jonathan Franzen, altro pilastro del realismo americano contemporaneo. Proprio ne Le correzioni (Einaudi, 2014), lo scrittore americano traccia con disarmante e chirurgico naturalismo i meccanismi più intimi che regolano la vita dei Lambert, tipica famiglia americana degli anni novanta, ammantata da una patina di aristocratico benessere ma in realtà destinata ad una lenta e inesorabile frattura. Ancora una volta una riproduzione genuina e impietosa dei sentimenti contrastanti che da sempre convivono, nemmeno in maniera troppo pacifica, con i sogni di stabilità di milioni di famiglie di americane.

In questo senso, la cultura occidentale (europea, per essere precisi) delle relazioni umane e affettive affonda le sue radici addirittura in Ovidio (basti leggere le Metamorfosi per convincersene) ed è pertanto antropologicamente più solida. Si potrebbe dunque asserire che faccia parte di un retaggio socio-culturale radicalmente diverso da quello americano e si sia sviluppata sotto forme diverse, con risultati altrettanto differenti. D’altro canto, il senso di cronica estraneità a sentimenti più’ profondi quali l’affetto, l’amicizia e l’attaccamento familiare permea tradizionalmente la società americana. Questo impoverimento emotivo (e culturale, alla base) ha generato una frammentazione identitaria kafkiana a tratti inquietante e tremendamente attuale. Ma la domanda dovrebbe essere: siamo di fronte a una mancanza di valori consapevole o inconsapevole? Il fascino della superficialità è senza dubbio una nuova forma di ignoranza culturale perfettamente conscia, che deriva da una storia intellettuale e sociale ben diversa da quella europea.

Come infatti fa notare Sabine, studioso americano delle dottrine filosofiche, le teorie che hanno plasmato la coscienza sociale europea riproducono contenuto e metodo della dottrina di Hobbes, mentre la tradizione americana si riconnette esplicitamente alla filosofia politica di Locke. La cultura relazionale americana rafforza pertanto l’aspirazione all’autosufficienza e persegue una totale autonomia dal punto di vista pragmatico, ma non riconosce la necessità di coltivare quella sensibilità nei riguardi di se stessi e degli altri che riflette una integrazione più profonda dal punto di vista umano e spirituale.

C’è un passo di Pastorale Americana, capolavoro di Philip Roth, che recita:

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza[…]; offri il tuo volto più bonario camminando in punta di piedi e l’affronti con larghezza di vedute da pari a pari e tuttavia non manchi mai di capirla male. La capisci male prima d’incontrarla, la capisci male mentre sei con lei; poi vai a casa, parli con qualcuno dell’incontro e scopri ancora una volta di avere travisato. Poiché la stessa cosa capita in genere anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è veramente una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Come dobbiamo regolarci con questa storia che assume ogni volta un significato grottesco? Devono tutti chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari che creano i loro personaggi e poi li fanno passare per persone vere? Capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati”.

Correva l’anno 1997 quando fu rilasciata la prima edizione. Ci sarebbe molto da dire sul libro, ma il messaggio più eloquente è che ciò che resta del chimerico sogno americano è in realtà nient’altro che un mondo costellato di superficialità, distacco emotivo e colpevole indifferenza a qualsiasi livello di relazione umana. E oggi, dopo anni di boom economico e (indubbio?) progresso, la situazione non è cambiata.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Il divieto di ridere: modi e significati di una risata

Ridere, una delle reazioni nervose più comuni e più frequenti della nostra vita che indica una sensazione di intensa allegria, felicità, gioia, piacere ma anche tristezza e rabbia e non sempre costituisce un’esperienza piacevole, anzi a volte  è associata a diversi fenomeni negativi. L’eccessivo ridere infatti può portare a cataplessia e ad imbarazzanti attacchi di risa, oltre che a colpi ricorrenti di sghignazzate, sintomi di una preoccupante condizione neurologica.

La letteratura ha prestato molta attenzione e studio alla risata, sin dall’antica Grecia con Erodoto, per il quale la risata ha una funziona svelatrice della personalità e carattere di una persona, per poi proseguire con Hobbes, secondo il quale la passione della risata non è altro che la gloria improvvisa derivante dal concepimento di una qualche eminenza in noi stessi, in confronto con l’infermità di altri, o con la nostra precedente. Per Nietzsche la risata puà avere uno scopo sia positivo che negativo, il primo si esplica quando “l’uomo utilizza il comico come terapia contro la veste restrittiva della moralità logica e della ragione”, il secondo quando è utilizzata per esprimere un conflitto sociale. Va più a fondo Bergson con il suo trattato Il riso. Saggio sul significato del comico, con il quale spiega come la risata emerga dall’ incontro tra intuizione e ragione.

Insomma quello della risata è un vero è proprio universo a sé da esplorare con i suoi tanti modi e significati. Già, i significati, cosa si nasconde dietro una risata? Cosa vogliamo comunicare? Cosa percepiscono gli altri di noi? Per il vicepremier islamico Bulent Arinc, braccio destro del premier Erdogan è un atto seducente e quindi peccaminoso in pubblico. Ma ciò vale solo per le donne a quanto pare, alle quali è stato ed è vietato di ridere pubblicamente poiché, citando le parole di Arinc in piena campagna elettorale,“La donna saprà quello che è peccaminoso e quello che non lo è. Non riderà in pubblico. Non sarà seducente nel suo comportamento e proteggerà la sua castità”. La reazione delle donne turche non si è fatta attendere e hanno pubblicato sui social foto  che le vede sorridenti.  Il riso rivoluzionario. Su Twitter con l’hashtag #kahkaha (scoppiare a ridere) sono moltissime le foto di donne che ridono sguaiatamente; risate che sanno di sfida e di derisione nei confronti del vice ministro.

Ridere quindi è immorale in Turchia, come in altri paesi come L‘Arabia Saudita così come baciarsi, mostrarsi incinte, baciarsi in pubblico, usare Internet. Alle donne è proibito perché darebbero di sé un’immagine non casta e sfrontata. Agli uomini no. In realtà se dovessimo rivolgere la nostra attenzione alla risata in sé e questa appare come uno sghignazzamento fastidioso allora dovrebbe essere accuratamente evitata o quantomeno controllata sia da uomini che da donne, e chiederemmo al vice premier cosa ci troverebbe di sensuale e di seducente in una simile risata. Ma naturalmente il nodo della questione è un altro, e considerare una donna che ride in pubblico come una poco di buono, una spietata tentatrice è semplicemente ridicolo. Probabilmente Arinc si accende con poco è valuta una sana e gioiosa risata come un modo per attrarre a sé gli uomini e in verità non gli si può fare una colpa se preferisce  o vorrebbe che le donne fossero più riservate, arrossissero mentre le si guarda o le si parla, e in fondo anche questo a volte è un modo di sedurre, di affascinare, forse anche più di una fisicità, aggressività, sensualità esibita; ma è inaccettabile che si voglia avere il controllo sulle donne usando in maniera distorta la religione alla quale l’uomo- padrone si aggrappa per giustificare certi  suoi comportamenti. Ed ecco il reale nodo della questione: dietro una risata femminile c’è la paura del maschio di perdere il suo ruolo di dominatore e padrone; la donna che ride in questi Paesi fa paura perché è segno di emancipazione e di libertà, anche sessuale. E la religione è un valido strumento per esercitare il potere e incutere paura nella gente.

Ma, con le dovute proporzioni, non c’è nemmeno bisogno di guardare alla Turchia, che la donna ridente sia vista in malo modo lo dimostrano un paio di detti nostrani, femmina cha rridi non ci avere fidi, ovvero non ti fidare delle donne che ridono troppo, e donna ridanciana mesa putana , rispettivamente detto siciliano e padano. L’ipocrisia, il pregiudizio, l’ignoranza, la superficialità, i vecchi retaggi culturali, sentenziare in base all’apparenza, al modo di vestire e di parlare: sono questi, prima di tutti, i nemici da abbattere. Ma attenzione che da un estremo all’altro il passo è breve e pericoloso, come dimostra ampiamente la società che viviamo ogni giorno.

Al vicepremier turco consigliamo di leggere Il nome della rosa di Eco e Ridere è una cosa seria di Donata Francescato, e di fare sua la massima di Marziale, Se sei saggio, ridi.

 

<<Il riso è il salto del possibile nell’impossibile>>.
Georges Bataille, Mia madre, 1966.

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