“A Singer Must Die”: in ricordo di Leonard Cohen

Citando il titolo di una canzone contenuta nell’album New Skin for the Old Ceremony del 1974, A Singer Must Die, in cui dice “a singer must die for the lie in his voice”, Leonard Cohen se n’è andato lo scorso 7 novembre. Nell’anno in cui la canzone d’autore ha ottenuto il massimo riconoscimento, grazie al Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan, si paga al contempo un prezzo altissimo, forse il più alto. A poche ore dalla scomparsa, la sua assenza pesa come un macigno.

Ma a chi manca Leonard Cohen? A tutti coloro che amano la musica, la poesia, la letteratura e hanno ritrovato nei sui versi un briciolo di se stessi. Ma cosa manca di Leonard Cohen? Mancano i suoi silenzi, la sua voce roca e baritonale, le sue malinconie, il suo erotismo, la sua religiosità, il suo disagio, le sue imperfezioni, il suo mal d’amore e le sue grandi canzoni. Se proprio si vuole tracciare un paragone (ingeneroso) con Dylan si può dire che mentre “Mr Tambourine Man” cercava di cambiare il mondo con le sue canzoni attraverso un impegno sociale molto spiccato (basta ricordare Blowing In The Wind, Hurricane, A Hard Rain Is Gonna Fall, The Times They Are A Changin’ solo per citarne alcune), “Mr Suzanne” cercava solo di analizzare l’animo umano con uno sguardo critico sulle mille sfaccettature che lo compongono cercando di fare chiarezza sulle tensioni interne e sulle pulsioni che tutti noi abbiamo, sperando di renderci migliori.

“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce” (Leonard Cohen)

In questa citazione è contenuto tutto l’universo poetico del maestro canadese: l’imperfezione come simbolo di rinascita, miglioramento e speranza. Anche lui era imperfetto e lo sapeva benissimo. Dotato di una voce non proprio cristallina e di una conoscenza musicale limitata, afflitto da depressioni e dubbi, ha avuto durante la sua quarantennale carriera numerosi detrattori che lo accusavano di essere poco commerciale, pesante, pessimista, depressivo, eppure non si poteva fare a meno di ascoltarlo. Il perché è semplice: era umano dannatamente umano. Parlava un linguaggio universale attraverso le sue emozioni e la sua influenza  tocca musicisti di ogni età e latitudini diverse. Da Lou Reed a Jeff Buckley (la cui splendida versione dell’Hallelujah è scolpita nella mente di tutti noi), da Nick Cave a Willie Nelson, dagli U2 ai REM, tutti ne hanno riconosciuto la grandezza proponendo sentite cover dei suoi brani più famosi. Perfino in Italia, solitamente ostica nei confronti della musica transoceanica, Leonard Cohen ha trovato illustri estimatori che lo hanno eletto come fonte d’ispirazione per lo stile poetico e tematico. De Andrè (che ha splendidamente tradotto e ricantato Suzanne, Jeanne D’Arc e Seems So Long Ago, Nancy), De Gregori (sua la cover di Tonight Will Be Fine resa come Un Letto Come Un Altro), Ornella Vanoni (The Famous Blue Raincoat divenuta La Famosa Volpe Azzurra), Mimmo Locasciulli (The Future trasformata in Il Futuro), hanno reso famoso il canzoniere coheniano anche  tra le nostre mura al pari solo di Dylan e Brassens. Ora che è scomparso, con lui se ne va un poeta oltre che un grande autore, capace di giocare con le parole come pochi altri al mondo, capace di tratteggiare in poche strofe concetti difficili da rendere come la malinconia, il dolore, la felicità e l’amore. Un poeta/cantante il cui ascolto è obbligato se si vuole capire qualcosa in più di se stessi (suggerisco il Gretaest Hits che raccoglie tutti i periodi attraversati dal musicista, da quello cantautoriale a quello rock a quello più sperimentale) o se comunque si vuole conoscere il percorso artistico e umano di un gigante della cultura occidentale, che è stato capace di andarsene con la classe che lo ha sempre contraddistinto, lasciando che siano le sue parole a ricordarlo in eterno.

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