Sticky Fingers: il torbido rock degli Stones

Sticky Fingers è, forse, l’album nel quale gli Stones fanno davvero gli Stones. Il titolo, letteralmente “dita appicicose” riflette perfettamente la cifra musicale raggiunta da Jagger & Co. e rappresenta egregiamente ciò che effettivamente stavano facendo. Si stavano letteralmente sporcando le mani. Con cosa? Con una miriade di generi musicali, dal blues al rock, al country. Suoni grezzi, sporchi, distorti, testi sudici, depravati, pieni di allusioni a sesso e, soprattutto, droga ma certamente pieni di pathos e fascino. Una copertina leggendaria, ideata da Andy Warhol, in cui si vedono dei jeans con una vera chiusura lampo che nascondono una evidente erezione, lascia poco spazio all’immaginazione su quale sia il contenuto del disco.

“Sovversivi? Certo che siamo sovversivi. Ma se qualcuno crede davvero che si possa iniziare una rivoluzione con un disco si sbaglia. Mi piacerebbe poterlo fare. Siamo più sovversivi quando ci esibiamo dal vivo”. (Keith Richards 1969)

L’attacco micidiale di Brown Sugar, chitarre distorte su un testo che snocciola tutto il sapere degli Stones su droga, sesso interraziale, e lussuria. Rock al massimo grado. Il cantato ciondolante di Sway, la disperazione e la poesia nell’epica ballata Wild Horses, il grandioso riff di Can’t You Hear Me Knocking, il blues alcolico ed acustico di You Gotta Move, la cattiveria di Bitch, la malinconia crepuscolare di I Got The Blues, il dramma della tossicodipendenza di Sister Morphine, il country-divertissement di Dead Flower e la magnifica Moonlight Mile, rappresentano l’apice creativo del duo Jagger e Richards mentre il gruppo raggiunge un feeling senza precedenti anche grazie all’innesto di musicisti esterni quali il sassofonista Bobby Keys e Jimmy Miller. Gli Stones dimostrano di aver metabolizzato bene la lezione della grande musica americana e di averci aggiunto quel pizzico di peperoncino tipico del loro stile rendendola praticamente immortale ed internazionale. Ovviamente il successo di pubblico è enorme, al di la e al di qua dell’oceano, ed anche la critica non risparmia elogi a quello che può essere considerato il disco dei Rolling Stones per eccellenza. Nonostante prevedibili problemi con la censura Brown Sugar diventa un singolo spacca classifiche e le Pietre Rotolanti diventano finalmente superstar libere di esprimersi ai massimi livelli e finalmente libere dall’eterno confronto con i Beatles. Il rock non è mai stato cosi affascinante e gli Stones non sono mai stati più in forma di così….e forse non lo saranno mai.

“Band On The Run”: l’apice degli Wings

Dopo lo scioglimento dei Beatles, nell’aprile del 70, la pubblicazione di due album solisti bellissimi ma interlocutori (McCarteney e Ram), la fondazione di un nuovo gruppo, the Wings, con l’ausilio della moglie Linda che scatena inevitabili paragoni con il gruppo precedente, Paul McCartney capisce che è venuto il momento di rilanciare pesantemente. Per trovare la giusta ispirazione prende armi, bagagli, moglie e quello che resta dei Wings, il solo Danny Laine, prende un aereo e parte per la Nigeria dove, negli studios dell’amico Ginger Baker, inizia a lavorare su del materiale inedito che andrà a costituire la spina dorsale di Band On The Run. Nonostante le enormi difficoltà tecniche e personali (attrezzature non all’avanguardia, furti, minacce da parte di Fela Kuti), il buon Paul riesce a trovare la quadratura del cerchio e a produrre un disco meraviglioso.

“Con la possibile eccezione di Plastic Ono Band di John Lennon, è il miglior album mai realizzato da uno dei quattro musicisti che una volta si chiamavano Beatles” (Rolling Stone-1973)

Si tratta di un lavoro essenzialmente rock, potente e vigoroso, che però lascia spazio a malinconiche ballate e sogni traslucidi che rivelano la ritrovata capacità dell’ex Beatle di spaziare con estrema disinvoltura tra le varie pieghe della musica. I sentori dell’Africa e le atmosfere di Abbey Road, la giungla ed il cemento, sono magistralmente mescolati in dieci memorabili brani di una bellezza assoluta. Le accelerazioni ed i cambi di tempo della title track, i possenti ottoni e le distorsioni di Jet, l’onirica delicatezza di Bluebird, l’enorme giro di basso di Mrs. Vandebilt, le tremolanti tastiere e gli attacchi sghembi di Let Me Roll It, danno la misura del grado di ispirazione e qualità compositiva che McCartney ancora possiede. Si prosegue con la delicatissima e quasi acustica Mamunia, forse la più “africana” delle canzoni presenti nel disco, per poi passare alla corale No Words e alla malinconica Picasso’s Last Word (Drink To Me) ispirata alla morte del celebre pittore avvenuta pochi mesi prima, in cui vengono riprese in maniera geniale due brani precedenti, Jet e Mrs. Vandebilt. La salva finale è affidata al rock di Nineteen Hundred and Eighty-Five la cui lunga coda strumentale, riprendendo la melodia di Band On The Run, chiude definitivamente il cerchio. Ovviamente il disco si rivela un trionfo sia dal punto di vista delle vendite che della critica. La celebre copertina in cui figurano, tra gli altri, gli attori Christopher Lee e James Coburn, staziona per mesi nei primi posti delle classifiche contribuendo a fare dei Wings una delle band più celebri e acclamate del pianeta. Persino gli altri ex Beatles inaspettatamente riconoscono la bellezza e la qualità del disco. Certamente rimane uno degli album più importanti degli anni ’70 ed una dimostrazione tangibile che anche dopo lo scioglimento dei Beatles, Sir Paul McCartney conosceva molto bene il significato della parola rock.

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“Disraeli Gears”: il blues psichedelico e onirico dei Cream

Psychedelic blues, un connubio interessante, insolito, tra la ferrea logica del blues e le divagazioni oniriche dei trip acidi. Un esperimento riuscito a pochissimi nella storia del rock; Jimi Hendrix, ad esempio, che in brani come Hey Joe o Little Wing, riesce a prendere il suono tradizionale della “musica dell’anima” ed a convertirlo in qualcosa di mai udito, ne prima ne dopo, ancorandolo nel contempo alla realtà storica in cui vive. Altri campioni a cui è riuscito un simile esperimento sono stati i Cream, power trio formatosi nel 1966 e  composto da tre assi della musica: Eric Clapton alla chitarra, Jack Bruce la basso e Ginger Baker alla batteria.

Tre musicisti molto diversi tra loro, tre personalità gigantesche, tre insuperabili performer che grazie alle loro peculiari caratteristiche (l’estrazione tipicamente blues di Clapton, la formazione classico/jazzistica di Bruce e la fascinazione per le percussioni africane di Baker) riescono a dar vita ad una miscela sonora praticamente unica ed inimitabile. Traghettano il blues del Delta negli anni ’60 grazie a memorabili cover (vedere il trattamento riservato alla celeberrima Crossroads di Robert Johnson o a Spoonful di Wille Dixon) facendolo apprezzare alle nuove generazioni ma, soprattutto, riescono trasformarlo in qualcosa di assolutamente nuovo contaminandolo con suoni modernissimi e di grande impatto.

«L’unica buona musica è quando dei buoni musicisti suonano l’uno per l’altro. Credo che questo sia ciò che ha reso i Cream così differenti dagli altri gruppi rock.». (Jack Bruce)

La testimonianza più compiuta di quanto appena detto si ha con il secondo album dei Cream, Disraeli Gears, forse il lavoro più famoso e riuscito in cui convivono tranquillamente brani come l’infuocata ed immortale Sunshine Of Your Love e la narcotica We’re Going Wrong. D’altro canto già la copertina “pepperiana” del disco, eccessiva ed ipercromatica, lascia intuire l’intenzione della band di proporsi come alternativa valida al suono di San Francisco, all’epoca dominante, ma con l’aggiunta di quell’inconfondibile sentore british. La chitarra acida e distorta di Clapton, il basso poderoso di Bruce e le percussioni torrenziali di Baker si fondono a meraviglia in capolavori quali Strange Brew, World Of Pain, nel blues “fatto” di Blue Condition, Outside Woman Blues e Take It Back, nel rock infuocato di SWLABR ed ancora nelle dilatate Dance The Night Away, We’re Going Wrong e Tales Of Brave Ulysses. Il risultato è talmente strabiliante che il disco supera il milione di copie vendute, diventa una pietra miliare conferendo alla band lo status di “supergruppo” ed accrescendo a dismisura la fama e la leggenda di singoli componenti. In accordo con l’atmosfera da “acid trip” che si sprigiona dai microsolchi, i concerti dei Cream diventano delle performance uniche che possono raggiungere una durata considerevole in cui viene lasciato grande spazio all’improvvisazione e allo sballo generale.

Le voci di Bruce e Clapton che si amalgamano a meraviglia o si alternano nel cantato, la batteria a doppia cassa di Baker che tuona come una tempesta, il basso pulsante e gli assoli stratosferici di chitarra che dal vivo assumono dimensioni ancora più mastodontiche, influenzano schiere di musicisti a venire quali Black Sabbath, Van Halen, White Stripes e Queen. La magia è, tuttavia, destinata a durare poco. Nel 1968, ad appena due anni dalla formazione, la band dei Cream si scioglie consensualmente con un live memorabile alla Royal Albert Hall ed un disco intitolato significativamente Goodbye. Le personalità molto forti dei tre componenti rendevano quasi impossibile una convivenza pacifica ed una comunità d’intenti, ma nonostante la parabola molto breve i Cream sono stati in grado di lasciare un’impronta indelebile nel mondo della musica con quattro album permeati di grande fascino e perizia tecnica in cui lo zoccolo duro del blues viene contaminato con il blues, il rock, la psichedelia ed anche il brit pop illuminando una miriade di possibilità ed aprendo un varco nel futuro.

L’ultimo Natale di George Michael, gigante del pop

A volte il destino sa essere proprio beffardo e crudele, soprattutto quando i suoi piani vengono ad incrociarsi col mondo della musica. Per George Michael questo è stato l’ultimo Natale, the Last Christmas, parafrasando una delle sue canzoni più famose. Questa assurda e tragica coincidenza potrebbe quasi strappare un sorriso se questo 2016 non fosse stato cosi devastante per l’universo rock. Cominciato maledettamente male con la perdita di David Bowie e proseguito con l’addio di Glenn Frey, Prince, Leonard Cohen, solo per citarne alcuni, questo ennesimo ultimo lutto sembra essere la ciliegina sulla torta di un anno decisamente da dimenticare. Anche perché la perdita è grossa, di quelle che pesano e si farà terribilmente sentire. George Michael, nato a Londra il 25 giugno del 1963, era, infatti, un gigante del pop. Con oltre 100 milioni di dischi venduti in tutto il mondo è uno degli artisti britannici di maggior successo ed il protagonista di alcune delle performance live più esaltanti di sempre.

“Non mi è mai dispiaciuto essere considerato una pop star. La gente ha sempre pensato che volevo essere visto come un musicista serio, ma io no. Io volevo solo che la gente sapesse che prendevo assolutamente sul serio la pop music”  (George Michael)

Questa frase coglie perfettamente il senso della sua filosofia musicale. Del resto fare del pop, del buon pop, è molto difficile, una vera forma d’arte, poiché si deve, in tre minuti di canzone, riuscire a toccare il cuore ed i sentimenti della gente fino a diventare l’essenza stessa di un ricordo o di un momento. Questo George Michael lo sapeva bene fin dagli esordi folgoranti risalenti agli anni 80 quando, in coppia con Andrew Ridgley, faceva strage di cuori di ragazzine adolescenti e dominava le classifiche con lo storico marchio Wham!

George Michael e Andrew Ridgley – The Wham!

Sono gli anni dei capelli meshati e dei completi bianchi, dei videoclip e dei paninari, ma anche gli anni di canzoni immortali quali Wake me up before you go go, Freedom, Careless Whisper, Everything she wants che fanno di Make It Big un million seller. La parabola Wham! dura poco. Nel 1986 il duo si scioglie dopo aver pubblicato The Final, doppio album contenente tutti i loro successi con l’aggiunta di alcuni inediti tra cui l’arcinota Last Christmas. Ma mentre Ridgley scompare definitivamente dalle scene, Michael si reinventa proponendo un pop ancora più accattivante unitamente ad una immagine molto più trasgressiva e sessualmente accattivante. Sono gli anni di Faith, altro clamoroso successo, in cui oltre alla title track sono contenute le epocali  I Want Your Sex, Father figure, One more try Kissing a fool. Nel frattempo diviene una richiestissima guest star arrivando cosi a duettare con mostri sacri quali Aretha Franklin (I knew you were waiting (for me)), Elton John (Don’t Let The Sun Go Down On Me), i Queen (Somebody To Love). Non contento del successo mondiale cambia nuovamente pelle rivelandosi un autore maturo e raffinato anche se sempre in possesso di quella vena di trasgressione che l’ha reso famoso.

George Michael in un’immagine recente

Il disco Older, datato 1996, contiene brani molto più complessi come la splendida Jesus To A Child o  FastloveSpinning the wheelOlderStar people ’97 e You have been loved che lo consacrano superstar e nel contempo ne consolidano un’immagine meno glam e più matura. Il successo viene confermato dalla raccolta Ladies & Gentlemen – The Best of George Michael trascinata dall’autobiografica Outside (il cui video ironizza sulla sua accusa di atti osceni in luogo pubblico in un bagno di Beverly Hills). Come ogni rockstar che si rispetti, infatti, George Michael non si è fatto mancare vari arresti e processi per droga, guida in stato di ebbrezza e omosessualità (famoso il suo coming out del 1998), ma la forza della sua musica andava ben oltre queste vicende umane. Ormai a suo agio nei repertori più disparati pubblica nel 1999 Songs from the Last Century, in cui ripropone una sua personalissima versione di classici di Nina Simone, Frank Sinatra, Police e U2, tra le quali spicca la magnifica Roxanne. Dopo l’album Patience del 2004 dirada sempre più le uscite discografiche ma rimane costantemente in tour anche se la sua vita è tormentata da problemi fisici e personali. Tuttavia il Symphonica Tour, in cui vengono riproposti tutti i più grandi successi della sua carriera rivisitati con l’ausilio appunto di un’orchestra sinfonica, dura dal 2011 al 2014 riscuotendo il sold out in tutti i paesi del mondo. Una dimostrazione di affetto da parte di migliaia di fan che quest’anno hanno forse ricevuto il regalo peggiore, ossia la morte inaspettata di uno dei più grandi performer di sempre che con i suoi brani ha accompagnato la vita di almeno due generazioni. Forse da oggi Last Christmas avrà tutto un altro sapore.

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“A Singer Must Die”: in ricordo di Leonard Cohen

Citando il titolo di una canzone contenuta nell’album New Skin for the Old Ceremony del 1974, A Singer Must Die, in cui dice “a singer must die for the lie in his voice”, Leonard Cohen se n’è andato lo scorso 7 novembre. Nell’anno in cui la canzone d’autore ha ottenuto il massimo riconoscimento, grazie al Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan, si paga al contempo un prezzo altissimo, forse il più alto. A poche ore dalla scomparsa, la sua assenza pesa come un macigno.

Ma a chi manca Leonard Cohen? A tutti coloro che amano la musica, la poesia, la letteratura e hanno ritrovato nei sui versi un briciolo di se stessi. Ma cosa manca di Leonard Cohen? Mancano i suoi silenzi, la sua voce roca e baritonale, le sue malinconie, il suo erotismo, la sua religiosità, il suo disagio, le sue imperfezioni, il suo mal d’amore e le sue grandi canzoni. Se proprio si vuole tracciare un paragone (ingeneroso) con Dylan si può dire che mentre “Mr Tambourine Man” cercava di cambiare il mondo con le sue canzoni attraverso un impegno sociale molto spiccato (basta ricordare Blowing In The Wind, Hurricane, A Hard Rain Is Gonna Fall, The Times They Are A Changin’ solo per citarne alcune), “Mr Suzanne” cercava solo di analizzare l’animo umano con uno sguardo critico sulle mille sfaccettature che lo compongono cercando di fare chiarezza sulle tensioni interne e sulle pulsioni che tutti noi abbiamo, sperando di renderci migliori.

“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce” (Leonard Cohen)

In questa citazione è contenuto tutto l’universo poetico del maestro canadese: l’imperfezione come simbolo di rinascita, miglioramento e speranza. Anche lui era imperfetto e lo sapeva benissimo. Dotato di una voce non proprio cristallina e di una conoscenza musicale limitata, afflitto da depressioni e dubbi, ha avuto durante la sua quarantennale carriera numerosi detrattori che lo accusavano di essere poco commerciale, pesante, pessimista, depressivo, eppure non si poteva fare a meno di ascoltarlo. Il perché è semplice: era umano dannatamente umano. Parlava un linguaggio universale attraverso le sue emozioni e la sua influenza  tocca musicisti di ogni età e latitudini diverse. Da Lou Reed a Jeff Buckley (la cui splendida versione dell’Hallelujah è scolpita nella mente di tutti noi), da Nick Cave a Willie Nelson, dagli U2 ai REM, tutti ne hanno riconosciuto la grandezza proponendo sentite cover dei suoi brani più famosi. Perfino in Italia, solitamente ostica nei confronti della musica transoceanica, Leonard Cohen ha trovato illustri estimatori che lo hanno eletto come fonte d’ispirazione per lo stile poetico e tematico. De Andrè (che ha splendidamente tradotto e ricantato Suzanne, Jeanne D’Arc e Seems So Long Ago, Nancy), De Gregori (sua la cover di Tonight Will Be Fine resa come Un Letto Come Un Altro), Ornella Vanoni (The Famous Blue Raincoat divenuta La Famosa Volpe Azzurra), Mimmo Locasciulli (The Future trasformata in Il Futuro), hanno reso famoso il canzoniere coheniano anche  tra le nostre mura al pari solo di Dylan e Brassens. Ora che è scomparso, con lui se ne va un poeta oltre che un grande autore, capace di giocare con le parole come pochi altri al mondo, capace di tratteggiare in poche strofe concetti difficili da rendere come la malinconia, il dolore, la felicità e l’amore. Un poeta/cantante il cui ascolto è obbligato se si vuole capire qualcosa in più di se stessi (suggerisco il Gretaest Hits che raccoglie tutti i periodi attraversati dal musicista, da quello cantautoriale a quello rock a quello più sperimentale) o se comunque si vuole conoscere il percorso artistico e umano di un gigante della cultura occidentale, che è stato capace di andarsene con la classe che lo ha sempre contraddistinto, lasciando che siano le sue parole a ricordarlo in eterno.

‘Smile’: Il fantasma dei Beach Boys

Capita molto raramente di vedere dei fantasmi, ma in campo musicale qualche volta succede ed il “fantasma” più famoso del rock è senza dubbio SMiLE, il leggendario album dei Beach Boys, cancellato improvvisamente a pochi giorni dalla pubblicazione dall’autore Brian Wilson e rimasto inedito per più di quarant’anni. Negli anni la fama di “capolavoro perduto”, di “opera maledetta”, ne ha accresciuto enormemente il fascino facendogli assumere contorni mitici, alimentando, cosi, l’affannosa ricerca di collezionisti e la continua pubblicazione di bootleg contenenti stralci di quelle fantastiche sessions. Nel 2011 il mistero è stato svelato. Le SMiLE Session sono state pubblicate (lo stesso Wilson ne aveva riproposto una sua versione “solista” nel 2003 ma si stratta di tutta un’altra cosa), la scaletta originaria è stata ricostruita svelando l’incredibile bellezza e complessità di un album magnifico e geniale. Difficile anzi difficilissimo, un caleidoscopio di colori e note in cui nulla è casuale ma collocato nel punto esatto in cui era previsto che fosse, seguendo un preciso percorso sonoro ben stampato nella mente dell’autore. Vi si possono trovare suoni “insoliti”, pezzi di altri brani, armonie vocali, struggenti ballate, testi visionari e lisergici, surf e malinconiche ballate, in un mosaico apparentemente senza senso ma che dopo il primo ascolto assume un disegno ben preciso.

“Una sinfonia adolescenziale diretta a Dio”. (Brian Wilson-1966)

Il livello raggiunto in Pet Sounds, viene ampiamente superato attraverso l’ideazione e la composizione di un album in forma di una lunga suite, contenente brani scritti appositamente ed incisi con tecniche innovative, per poi venir legati tra loro con grande forza concettuale ed abilità musicale. Un lavoro monumentale che avrebbe dovuto essere la risposta americana a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles e che avrebbe dovuto proiettare la musica pop in un’altra dimensione.

Our Prayer ed il doo-wop di Gee, per la loro breve durata e mancanza di testo, possono considerarsi l’introduzione ad Heroes And Villans, uno dei pezzi cardine del disco  caratterizzato da continui cambi di tempo e partiture impossibili. Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock) riprende il refrain del brano precedente per poi fondersi senza soluzione di continuità con i raccordi di I’m In The Great Shape e Barnyard in cui vengono ospitati versi di animali. Una rivisitazione psichedelica e lisergica di You Are My Sunshine (classico della tradizione americana), intitolata My Only Sunshine (The Old Master Painter/My Only Sunshine), porta a Cabin Essence, altra canzone incredibile, dove alla strofa molto dolce e delicata si contrappone un ritornello martellante e “ondulatorio”.

SMiLE-Capitol Records

La meravigliosa Wonderful, con il suo tono sognante e l’inconfondibile suono del clavicembalo, la scherzosa Look (Song For The Children), la quasi strumentale Child Is The Father Of The Man, l’incredibile Surf’s Up (una delle migliori interpretazioni di Wilson), le divagazioni di I Wanna Be Around/Workshop (con tanto di suoni da falegnameria!), gli ortaggi sgranocchiati di Vega-Tables, il cui ritornello è una delle migliori composizioni dei Beach Boys, l’assurda Holidays, le rarefatte atmosfere di Wind Chimes, la delirante The Elements: Fire (Mrs. O’Leary’s Cow), le pause di Love To Say Dada, il capolavoro indiscusso Good Vibrations ed la deliziosa You’re Welcome, brano di chiusura dell’album, sono tutte parti di un arazzo musicale che prende forma ad ogni microsolco. Un album assurdo, irripetibile che mette in evidenza tutto il genio musicale di Wilson ma anche tutta la sua fragilità psichica che lo porta ad abbandonare il progetto (anche per l’ostilità degli altri membri del gruppo a pubblicare un disco cosi difficile) e lo costringerà ad anni di paranoia e depressione. Non capito, ripudiato, SMiLE viene smembrato ed i suoi pezzi vengono riciclati per dare sostanza a lavori francamente trascurabili (da Smiley Smile a 20/20) scempiandone le intenzioni artistiche e la qualità intrinseca. Ora la domanda è: chissà come sarebbe cambiato il mondo musicale se fosse stato pubblicato nel 1967…

“Bridge Over Troubled Water”: l’ultimo atto di Simon & Garfunkel

Nell’agosto del 1969 la premiata ditta Simon & Garfunkel stava chiudendo i battenti dopo dodici anni di sfolgorante carriera e clamorosi successi. Il duo più popolare del pop era sull’orlo dello scioglimento a causa di inconciliabili divergenze artistiche e spinte centrifughe verso progetti solisti. Art Garfunkel aveva, infatti, cominciato una discreta carriera cinematografica (con i film Conoscenza Carnale e Comma 22) trascurando le sedute d’incisione ed irritando progressivamente un Paul Simon costretto a lavorare da solo per la maggior parte del tempo. Prima di lasciarsi, tuttavia, erano decisi a dare alle stampe il loro “canto del cigno” proprio come avevano fatto i Beatles nello stesso periodo.

“Quando l’album ed il singolo uscirono eravamo nel pieno di una separazione. Durante l’incisione di quel disco passammo un brutto periodo, tuttavia riuscimmo a farlo funzionare” (Art Garfunkel)

Nonostante litigi, discussioni e ripicche reciproche Bridge Over Troubled Water vede la luce nel gennaio del 1970 ed è subito capolavoro. Sebbene fosse obiettivamente difficile superare la qualità del disco precedente, Bookends, il duo dimostra di avere ancora, nonostante tutto, un grande affiatamento. Simon, dal canto suo, da prova di essere in splendida forma, a dispetto della crescente frustrazione, scrivendo, arrangiando e producendo brani di incredibile bellezza e qualità, carichi di malinconia, rabbia, gioia e poesia. La tormentata dichiarazione d’amore contenuta nella title track, cantata superbamente da Garfunkel, diventa immediatamente un best seller finendo nelle scalette di grandissimi artisti da Elvis Presley ad Aretha Frankiln. Un pezzo altamente evocativo e spettacolare capace di commuovere e far sognare. I sapori andini de El Condor Pasa, la gioia incontenibile di Cecilia, il rock di Keep The Customer Satisfied, le atmosfere rarefatte di So Long, Frank Lloyd Wright evidenziano la maturità raggiunta dai due artisti proprio nella fase finale del loro percorso comune.

Bridge Over Trouble Waters-Columbia Records-1970

La dylaniana The Boxer (altro meraviglioso evergreen), con un testo altamente evocativo incentrato sull’emarginazione, la tambureggiante Baby Driver, la sognante The Only Living Boy In New York, la piacevole Why Don’t You Write Me, il ritorno alle origini rappresentato dalla cover di Bye Bye Love, cavallo di battaglia degli Everly Brothers (duo molto popolare negli anni ’50 e veri ispiratori di Simon & Garfunkel) e la tenera Song For The Asking, chiudono una track list fantastica. Le incisioni sono tecnicamente ineccepibili grazie a musicisti di altissimo livello ed una produzione quasi maniacale. Gli arrangiamenti sono ricchi e complessi, orchestrali, pieni di suoni ricercati ma mai eccessivi o fuori posto. Su tutto, ovviamente, spiccano le due voci che si incastrano a meraviglia dando vita ad armonizzazioni raffinatissime e di gran fascino. Grazie a queste caratteristiche l’album vola in vetta alle classifiche (otto milioni di copie solo negli USA e primo posto nella classifica di Billboard), facendo incetta di premi e critiche entusiastiche. Ma il solo sfoggio di numeri non basta a giustificare l’inclusione di questo disco in quasi tutte le classifiche dei migliori album del XX secolo; si tratta di un’opera di gran classe, piena di poesia e melodie immortali, lontana se vogliamo dagli standard crepuscolari e malinconici tipici del duo e più vicina al rock ed al pop di caratura internazionale. Brani perfetti per l’airplay radiofonico in cui però è chiaramente riconoscibile l’inconfondibile tocco di Simon & Garfunkel, due “vecchi amici” che hanno deciso di lasciare la storia in grande stile per entrare nella leggenda.

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Abbey Road: il canto del cigno dei Beatles

Il 26 settembre del 1969, giorno dell’uscita di Abbey Road, i Beatles già non esistono più. La separazione ufficiale avverrà di fatto pochi mesi dopo, nell’aprile del 1970, ma inconciliabili divergenze artistiche, economiche e personali ne avevano già minato irreversibilmente la coesione interna. Le tensioni accumulate durante le session per il White Album, il naufragio dell’ambiziosissimo progetto Get Back, l’eroina, le donne avevano lentamente portato il più grande gruppo del mondo sull’orlo dello scioglimento. Tuttavia i Fab Four avevano deciso di chiudere il loro percorso artistico comune in grande stile, ossia con un album che rimanesse nella storia.

“Fu un disco estremamente felice probabilmente perché tutti pensavano che sarebbe stato l’ultimo”. (George Martin)

Nonostante le assenze per motivi personali di Lennon e la scarsa convinzione di Harrison il livello di Abbey Road è altissimo e rappresenta un “unicum” nella discografia beatlesiana. Il lato A infatti è composto da canzoni nel senso classico del termine, mentre il lato B è un lungo medley di brani uniti tra loro da grande forza concettuale e maestria musicale. Non tutto il materiale è eccelso ma per qualche oscuro miracolo tutti i pezzi scelti stanno bene nell’album legandosi tra loro con assoluta armonia. Il fulminante incipit di Come Together (col celeberrimo verso “Shoot Me” che col senno di poi ha assunto toni sinistramente profetici) composta da Lennon, le meravigliose Something e Here Comes The Sun (forse i pezzi migliori del disco) che attestano la raggiunta maturità compositiva di Harrison, il pop sofisticato di McCartney che fornisce la giocosa Maxwell’s Silver Hammer e la disperata Oh Darling!, la spiritosa Octopus’s Garden di Starr e l’allucinata I Want You (She’s So Heavy) di Lennon (in cui viene introdotto il sintetizzatore Moog) compongono la prima facciata. Brani di una bellezza disarmante (tranne un paio forse) e molto eterogenei tra loro che dimostrano come i quattro avevano preso ormai strade diverse sia dal punto di vista musicale che personale.

The Beatles-1969

Ma la seconda facciata di Abbey Road è tutta un’altra storia. Le complesse armonie a tre voci di Because (ispirata da Al Chiaro Di Luna di Beethoven), il dolore della separazione in You Never Give Me Your Money, le atmosfere notturne ed il non sense di Sun King, i divertissement di Mean Mr Mustard e Polythene Pam, il rock di She Came In Through The Bathroom Window, per arrivare al gran finale composto dal trio di brani Golden Slumber, Carry That Weight e The End, nella quale i Beatles salutano per sempre i fan con il meraviglioso verso “e alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che fai”, rappresentano un momento di puro genio. Non contenti inseriscono una ghost track Her Majesty che rappresentava una novità assoluta per l’epoca. L’8 agosto del 1969 i quattro sfilano sulle strisce pedonali antistanti lo studio dando vita ad una delle copertine più famose, citate e discusse del rock. I Beatles da quel momento non esistono più (una delle interpretazioni più famose della foto la considera il funerale del gruppo), lasciando ai posteri un album praticamente perfetto, in cui tutto fila liscio come l’olio, in cui le note si incastrano a meraviglia ed il feeling tra i musicisti è notevole nonostante il periodo. Un testamento artistico/spirituale unico e irripetibile. Un’opera in cui i Fab Four trascendono schematizzazioni di ogni genere facendo semplicemente musica; una musica immortale, bellissima, capace di ricordare al mondo che un tempo quattro ragazzi di Liverpool sono riusciti a cambiare il mondo con la sola forza delle idee.

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