Il cinema secondo Edgar Morin: l’uomo e il suo doppio

Nella sua introduzione al saggio di sociologia antropologica Il cinema o l’uomo immaginario, il filosofo francese Edgar Morin (Parigi, 8 luglio 1921) si sofferma sul concetto di doppio e di immagine. Fascino, doppio, fotogenia sono termini che sembrano assumere nuovi e complessi significati. Il cinema è considerato industria vera e propria, oltre che un fenomeno sociale, testimonianza dunque della modernità del nostro secolo.

Già con la nascita del cinematografo (1895), l’uomo comincia ad avvertire tutti i cambiamenti della sua epoca: la realtà è qualcosa che, in un certo senso, si può anche riprodurre. La macchina e le riproduzione meccanica trasforma anche il modo di pensare dei potenziali spettatori. Nel primo capitolo de Il cinema o l’uomo immaginario, possiamo leggere un interessante paragone con l’aeroplano:

Il XIX secolo che muore lascia in eredità due nuove macchine. Ambedue nascono quasi alla stessa data, poi si lanciano simultaneamente per il mondo, ricoprono i continenti. Passano dalle mani dei pionieri a quelle degli imprenditori, superano un “muro del suono”.

Accanto al desiderio di volare, ormai esaudito dagli uomini, c’è la macchina con la sua capacità di riprodurre la realtà.

Ma cos’è, secondo Morin, l’essenza del cinema? Dove possiamo ritrovarla?

Prima di addentrarci in un universo sconfinato di domande senza risposta, è opportuno concentrarsi su uno dei termini probabilmente più ambigui della letteratura cinematografica; da cui ogni riflessione potrebbe partire; la fotogenia. Questo termine viene ereditato dalla fotografia ma la fotogenia del cinematografo è da considerarsi ben diversa rispetto a quella della fotografia. Viene infatti intesa da Morin come fascinazione e come ciò che si distacca dalla definizione di pittoresco che sta ad indicare, invece, tutte le cose “belle”, che amano essere rappresentate.

L’uomo, posto dinanzi agli oggetti del quotidiano, s’interroga su di essi, esplora la nuova realtà che prende forma sotto ai suoi occhi: quella raccontata dal cinema, in un universo che diventa fluido, talvolta magico, un mondo che magari Lumière ancora non conosceva ma Méliès sì, un mondo dove anche gli oggetti sembrano avere un’anima, collocati in spazi e luoghi differenti. Anche questa è la magia del cinema.

Analizzato è, inoltre, il rapporto tra sogno e film, universi che vengono tutt’oggi  identificati tra loro poiché sia nel sogno che nel film “gli oggetti appaiono e scompaiono, la parte rappresenta il tutto”. Così le immagini assumono un significato che somiglia ai nostri desideri e ai nostri timori. Immagine e sogno, appunto.

Tutti i capitoli del saggio in questione riguardano essenzialmente lo studio dell’anima del cinema e della sua natura. La vita dell’essere umano si plasma sulla vita dello schermo, forse? Identificazione, proiezione ed alienazione sono processi inevitabili, al centro del cinema e della vita, che permettono la partecipazione cinematografica. Morin dedica molte pagine a questi temi.

La proiezione-identificazione (partecipazione affettiva) interiore gioca senza discontinuità nella nostra vita quotidiana, privata e sociale. Già Gorkij aveva mirabilmente evocato “la realtà semi-immaginaria dell’uomo”.

Fondamentale è il movimento originale delle cose e la capacità dell’uomo di partecipare emotivamente a ciò che egli stesso vede proiettato sullo schermo. L’identificazione può avvenire anche con esseri umani sconosciuti, apparentemente lontani da noi (basti pensare a Charlot, così tanto amato dal pubblico). Morin ci parla, a questo proposito, di ego-involvement , ossia del tentativo di fuggire da noi stessi e, allo stesso tempo, della possibilità di ritrovarci. Un cinema che vede protagoniste le emozioni dell’uomo e il suo doppio.

 

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