La lingua italiana tra analfabetismo e riforme della scuola

È difficile prendere sul serio i 600 docenti universitari che hanno lanciato l’allarme sull’uso approssimativo che i loro studenti fanno della lingua italiana. La difficoltà non nasce dalla fondatezza della loro denuncia – è sotto l’occhio di tutti il degrado culturale in cui versa il nostro Paese – ma dal silenzio assordante che ha contraddistinto la categoria, con le dovute eccezioni, nel corso delle riforme peggiorative della scuola che, più o meno, hanno operato tutti i governi negli ultimi vent’anni.

Verrebbe quasi da dire che, siccome se ne sono accorti persino loro, il problema dell’uso della lingua italiana ha ormai raggiunto delle dimensioni drammatiche. Ma, a parte facili ironie, la questione assume una centralità che non può essere liquidata con una semplice battuta.

I giovani studenti in percentuali significative, usciti da un percorso di studio lungo ben dodici anni, non riescono a raggiungere le competenze linguistiche che un tempo erano requisito necessario per l’ottenimento della licenza elementare. Detta in questi termini è una notizia clamorosa, ma in realtà appare fuori luogo operare dei paragoni intergenerazionali perché condurrebbero a conclusioni inadeguate rispetto alle premesse. Il risultato di questo fallimento educativo non può essere imputato solo alla scuola. È facile, banale e ormai anche un po’ stucchevole riversare sull’istituzione scolastica tutte le colpe di malfunzionamenti complessi. Per fare una analisi seria è necessario guardare anche al contesto.

A partire dagli anni ’80 i modelli di riferimento sono profondamente mutati e, vuoi per il travolgente impulso della televisione commerciale, vuoi per il nuovo spirito edonista americaneggiante, il sapere e la fatica della conoscenza hanno gradualmente lasciato il passo al mito della vita senza sforzi, del vincere facile. Si è così persa la misura essenziale del “dover essere” per lasciare il posto ad una frivola apparenza. A questo si sommano intere generazioni di genitori che, da ferrei custodi della disciplina, si sono gradualmente trasformati in spazzaneve che fanno di tutto per rendere la strada dei propri figli sempre più agevole eliminando, se necessario anche facendo ricorso agli strumenti della legge, ogni forma di ostacolo dal loro cammino. Il risultato nel medio periodo ha condotto ad una svalutazione totale della scuola come strumento educativo e all’identificazione della stessa come capro espiatorio di tutti i mali dei nostri giorni.

Perché un ragazzo dovrebbe abbandonare i videogiochi, i social, internet e la televisione, se tutto quello che serve a vivere è a portata di mano? Perché impegnarsi nello studio quando chiunque può fare qualsiasi cosa? Perché studiare quando ciò che conta si trova fuori dai libri?

L’argomentazione non deve apparire assolutoria nei confronti della scuola, per carità, le responsabilità ci sono anche qui, ma forse sono meno determinanti di quelle presenti al di fuori dell’istituto scolastico. Oggigiorno tutto è ridimensionabile nei termini del consumo e, così, anche la filosofia dell’istruzione pensata esclusivamente come veicolo per l’ottenimento di un lavoro ha dominato e continua a dominare le politiche legate all’istruzione. Sono nate da qui le più grosse sciagure brillantemente sintetizzate nelle tre I, ma che hanno prodotto sinora solo un numero consistente di I(gnoranti), lasciando dubbi e minando nel profondo anche l’unica certezza che avevamo: una scuola in grado di formare.

L’incapacità di utilizzare in maniera corretta la lingua italiana, purtroppo, è solo un sintomo. La malattia si trova altrove e prima o poi dovremo pur accorgercene.

Scuola: la riforma necessaria dietro la battaglia dei compiti

Compiti a casa: Troppi o pochi? Utili o inutili? Con la riapertura e la ripresa a regime delle attività didattiche in quasi tutte le nostre scuole, torna prepotentemente di moda una discussione che ogni anno appassiona migliaia di genitori. Tutti, nel bene o nel male, almeno da studenti si sono rapportati con i compiti barcamenandosi tra un calcio ad un pallone ed i libri,  riuscendo a ritagliarsi comunque un proprio spazio di autonomia. Perché ora nel passaggio da studenti a genitori ci si schiera contro i compiti a casa?

È un interrogativo interessante che ci racconta molto sulla genitorialità interpretata dai giovani degli anni duemila e sul ruolo che ai loro occhi dovrebbe assumere la scuola. Da una parte troviamo una sacrosanta tutela del bambino/ragazzo e del suo tempo, dall’altra la pretesa dell’istituzione scolastica di inculcare con la disciplina e l’abnegazione le nozioni basilari per poter vivere nella società.

Entrambi sembrano essere argomenti molto validi, ma non sfiorano neanche il cuore del problema e cioè l’individuazione delle reali esigenze dell’utente della scuola: lo studente.

Viviamo nella società dell’informazione, il mondo è interconnesso e viaggia ad una velocità incredibile. L’unica istituzione che sembra essere impermeabile a questo cambiamento è la scuola, grosso modo ferma a principi educativi di inizio Novecento e incapace, nonostante ripetuti tentativi, di rinnovarsi nella forma. Il bambino di oggi, il nativo digitale per dirla in maniera chiara, ha un numero di stimoli che sollecitano la sua mente in maniera molto maggiore rispetto a solo una generazione fa, e pensare di fornire una formazione analoga a quella dei bambini del secolo scorso è quanto meno un progetto anacronistico.

La scuola, se vuole vincere la sfida del millennio, deve essere in grado di sviluppare l’autonomia e la creatività di ogni singolo studente. Per fare questo occorre una destrutturazione molto forte ed una azione coraggiosa di ripensamento dell’intera didattica. È anacronistico tenere gli studenti prigionieri per non meno di cinque ore seduti in angusti banchi sottoponendoli a stress che difficilmente un adulto sarebbe in grado di gestire in situazioni analoghe. Sarebbe opportuno diluire nell’arco della giornata la didattica in maniera razionale diminuendo le ore di lezione frontale, comunque insostituibili, e lasciando allo studente momenti di autonomia, collocando nelle ore pomeridiane le attività pratiche.

La scuola può diventare uno spazio condiviso, non una arena di competizione e mediocrità, capace di tenere al centro l’utente stimolandolo nello sviluppo delle proprie potenzialità. È assurdo pensare ad una didattica incentrata su una eccessiva quantità di materie che diventano una sterile accumulazione di informazioni che saranno presto dimenticate. Per fare tutto questo è necessario investire molto denaro pubblico per l’edilizia scolastica – di fatti la classe come la conosciamo oggi scompare – ma, soprattutto, occorre avere una visione chiara di come è il mondo oggi e cosa aspetta i ragazzi domani quando usciranno dalla scuola.

Cominciare a considerare la scuola non come un ammortizzatore sociale ma come un investimento per il futuro è un principio irrinunciabile e improcrastinabile.

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