In morte di Roger Moore, gentleman icona dell’action movie postmoderno

Dopo la prima rinuncia di Connery, i produttori Saltzman e Broccoli avevano fatto il tragico errore di affidare in “Al servizio segreto di Sua Maestà” il ruolo di James Bond al fotomodello australiano George Lazenby. In seguito al disastro commerciale del sesto episodio della saga, furono costretti a pagare al riluttante divo scozzese una cifra da capogiro per indurlo a interpretare 007 ancora una volta in “Una cascata di diamanti” (1971). Proprio nello stesso periodo Roger Moore aveva terminato il suo impegno nella serie tv britannica trasmessa in Italia col titolo “Attenti a quei due”, che l’aveva eletto beniamino dell’audience e sembrò pressoché naturale che prendesse il testimone di Connery in “Vivi e lascia morire” (1973): così un diligente professionista specializzato nei toni brillanti, l’epigono dei gentleman del cinema d’oltremanica iniziò a tramutarsi nel più longevo alter ego schermico del personaggio creato da Fleming ovvero in una delle icone del cinema action postmoderno.

Morto lo scorso 23 maggio in Svizzera dopo una breve quanto micidiale malattia, Roger Moore era nato a Stockwell, nei dintorni di Londra, il 14 ottobre del 1927. Figlio di un poliziotto, studia discipline artistiche e recitazione alla Royal Academy of Dramatic Art e già dal ’45, mentre si mantiene facendo il fattorino in uno studio d’animazione, inizia a interpretare ruoli di contorno sui palcoscenici del West End; solo a termine del servizio militare effettuato come luogotenente assegnato alle truppe di stanza in Germania, però, si ritrova a lavorare regolarmente nel cinema sia in patria che negli Usa facendosi valere nei cast di film di pregio come “Mano pericolosa” e “L’ultima volta che vidi Parigi” o di successo come “Oltre il destino” o “Desiderio nel sole”.

Elegante, prestante e non di rado ingaggiato come modello, Roger Moore trova peraltro misura e incisività soprattutto sul piccolo schermo, dove diventa popolarissimo interpretando senza soluzione di continuità serie old style ma accuratissime del livello di “Ivanhoe” (’57-’58, in cui furoreggia inguainato nella calzamaglia del patriottico spadaccino sir Wilfred), “The Alaskans” (’59-’60), “Maverick” (’60-’61), “The Saint” (sei stagioni andate in onda tra il ’67 e il ’69 e basate sul romanzo di Charteris che idealizza le avventure del ladro gentiluomo Simon Templar, implacabile punitore di criminali e difensore di magnifiche ladies) e “The Persuaders” (’71-’72) ovvero la succitata “Attenti a quei due”, ventiquattro episodi esaltati dal protagonismo della coppia di amici-rivali Sinclair e Wilde alias Moore e Tony Curtis.

Nell’atmosfera delle scorribande giallo-rosa su e giù attraverso le più belle locations europee, dalla Costa Azzurra a Parigi e Roma e nell’irresistibile ribalderia dei protagonisti, alle prese con auto fuoriserie, night club di lusso e femmine fatali nonché introdotti e tramandati dalla formidabile sigla di John Barry, c’è, come abbiamo premesso, tutto ciò che serve per lanciare Roger Moore nella pazza gimkana delle imprese del duro più autoironico del cine-album della spy-story.

I pareri sulla resa di Roger Moore nei sette film complessivi girati nel segno del bondismo doc sono disparati, ma anche i chierici più pedanti riconoscono nell’attore britannico un’immedesimazione fisica e un senso del ritmo personalissimi e inimitabili: se in “L’uomo dalla pistola d’oro” viene subissato dal cattivo Christopher Lee, in “La spia che mi amava”, “Moonraker”, “Solo per i tuoi occhi”, “Octopussy operazione piovra” e il terminale “Bersaglio mobile” il suo equilibrio, la sua classe e anche il suo consumato mestiere gli permettono di gestire le progressive e spesso invadenti contaminazioni dello spirito romanzesco originario con una serie di non facili slalom tra humour, fantascienza, azione, allusioni politiche dentro e fuori la logica della guerra fredda e le immancabili, esasperate, rutilanti trasferte negli habitat naturali o metropolitani più esotici e spettacolari suggeriti dalla cronaca e dalla moda.

Il resto della carriera cinematografica di Moore è costituito per lo più da film d’intrattenimento di medio gusto e media qualità, in cui talvolta lo si nota visibilmente a disagio: da “Diana la cortigiana” a “Ci rivedremo all’inferno”, dal vigoroso war-movie “I quattro dell’oca selvaggia” a “Amici e nemici” del tuttofare Cosmatos. Paradossalmente lo si ammira di più quando sembra prendersi gioco del proprio carisma  e/o strizzare l’occhio alle performance che gli hanno regalato la fama pressoché suo malgrado interpretando commedie alquanto bislacche e fuori standard come “Toccarlo… porta fortuna”, “I seduttori della domenica”, “La corsa più pazza d’America”, “Pantera Rosa – Il mistero Closeau”, “”Doppia coppia all’otto di picche”.

Magari anche per questo la carriera gli si accorcia presto tra le mani, comincia a prendere gusto nel negarsi a registi e produttori e si dedica con crescente zelo, sulla scia un po’ melensa di molti colleghi arrivati all’empireo della notorietà e del conto in banca, alle campagne umanitarie. Nel ’91 diventa ambasciatore dell’Unicef, due anni più tardi la Regina Elisabetta lo nomina Cavaliere dell’Impero Britannico e nel 2009 viene eletto personalità dell’anno dall’associazione animalista People for the Ethical Treatment of Animals. Non sorprende più di tanto, in effetti, che l’ultima apparizione dell’anno scorso in “The Carer” di Jànos Edelényi nella parte di se stesso è sembrata quasi un omaggio al pubblico che ormai percepiva come definitiva l’assenza del suo beniamino dagli schermi.

 

Fonte:

La scomparsa di Roger Moore

“Via col vento”, il best seller di Margaret Mitchell

“Via col vento” è il primo e unico romanzo della scrittrice americana Margaret Mitchell che l’ha resa immortale, complice il successo straordinario dell’omonimo film diretto da Victor Fleming nel 1939, “Gone with the wind” ha rappresentato un vero e proprio caso editoriale, più di 30 milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Ancora oggi, il libro (come il film, del resto) non smette di affascinare, nonostante la costruzione complessa dei personaggi che rendono il romanzo abbastanza pesante ma pur sempre avvincente, spettacolare nella narrazione. Una sorta di “Guerra e pace”di Tolstoj, ma americano, ed è proprio il quel “ma” che risiede il successo; solo l’America avrebbe potuto produrre un romanzo simile che racconta la guerra civile americana attraverso gli occhi degli schiavisti. Il lettore è catapultato in fastosi saloni da ballo con donne civette ed anziane pettegole, in città bombardate, in ospedali semidistrutti tra la sofferenza dei soldati e l’impotenza dei medici, all’interno di una tradizionale famiglia americana che da grande valore alla terra in una tipica contea della zona. E naturalmente la storia d’amore romantica e struggente che conquista al di sopra di tutto: quella tra la protagonista Rossella O’Hara, ragazza affascinante dai bellissimi occhi verdi, ricca, capricciosa e viziata, ed innamorata e non ricambiata del pacato (fin troppo) Ashley che ama invece la dolce e sensibile Melania.

Tuttavia Rossella si sposa per ben due volte con uomini che non ama e che moriranno poco dopo. La giovane donna, impoverita, ma sempre caparbia e determinata sposa il fascinoso, rude e soprattutto non uno stinco di santo, Rhett Butler , ricco ed innamorato di Rossella, la quale gli darà anche una figlia, Diletta. Anche la viziata bambina morirà pochi anni dopo…

La trama di questo grande affresco storico- melodrammatico è nota a tutti, soprattutto il finale memorabile racchiuso nelle parole della volitiva protagonista con la sua “ansia di vivere”, “Domani è un altro giorno”che identifica la sua indole, il suo temperamento, il non lasciarsi  abbattere mai.

Ma cosa resta davvero di questa eroina sui generis? Viene più semplice affermare: è una donna odiosa ma che non molla mai, oppure una donna che non molla ma odiosa? La forza del personaggio è proprio in questo dubbio.

E cosa rimane poi dell’intera opera dal punto di vista storiografico? Indubbiamente il tentativo di celebrare un mondo distrutto durante la Guerra di Secessione con la tecnica della mitizzazione storica è evidente ma è anche logico, nel senso che rientra perfettamente nella visione romantica della realtà,che possiede la scrittrice. Romanticismo unito però ad una certa nostalgia e rimpianto per qualcosa che è andato perduto per sempre e che ha lasciato un vuoto incolmabile nella vita quotidiana , come dimostrano i difficili e burrascosi rapporti tra i suoi protagonisti avulsi da psicologismi ma non dai sentimentalismi.

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