green pass

Il padre del green pass? L’imperatore Decio!

Di chi parlava il grande ideologo Gramsci? Chi intendeva quando scrisse che l’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari? Quali alunni aveva in mente? Noi, forse? Probabile. Quelli che si fecero traghettare dall’altra sponda del Lete, irretiti dallo skyline della Metropolis del Capitale.Smemorati che non sanno più granché dei valori che il sangue aveva infuso nell’anima.

Quelli delle partite online a PES e delle tredici sfumature di Iphone, dei matrimoni senza promessa e dei gel ritardanti, dei fantasmini salvapiedi e delle creme antiage. Noi e non altri, quelli che facevano sega alle lezioni che la Magistra vitae dava a titolo gratuito, confidando nel Lucignolo di turno, pupazzi di Collodi.

“Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, figurati che le vacanze d’autunno cominciano col primo gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre”.

E la Storia, guardandoci, non può che far spallucce. Quinto Decio fu un orco affamato. Al suo estro devono essersi ispirati il Drago e la claque dei dragoncelli, quando pescavano dal cilindro la perla nera, altroché verde, del gran pass. Execrabile animal, (bestia esecrabile), per Lattanzio. Restitutor sacrorum (restauratore delle cose sacre) per gli adulatori. È così che riporta l’epigrafe funeraria di Decio, dissotterrata nel ’52. Poiché – consolazione imperitura – qualsiasi onnipotenza umana, alfine, porta la sua deadline.

Essendo Decio il trentaseiesimo, in ordine di successione imperiale, e poi non così tonto come l’espressione sul suo busto farebbe ipotizzare, aveva tutti gli elementi per comprendere un fatto. E cioè che più questi cristiani li si attaccava platealmente, con ogni accorgimento scenico del caso – le damnationes ad bestias o le esecuzioni in serie sulle vie consolari – più gli si faceva un favore. Di contro, l’autorità imperiale ne usciva con un colpo per l’immagine. Le opposte prospettive di un Tertulliano e un Tacito, menti sopraffine, una cristiana, l’altra pagana, colgono all’unisono il nocciolo della situazione. Il sangue [dei martiri] è il seme dei cristiani, fa il primo. Mentre il secondo precisa come

“benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, dato che venivano uccisi non per il bene comune, quanto per la ferocia di un singolo uomo”.

Così Decio, ponderati i suggerimenti, raccolse attorno ai triclini la sua corte di tirapiedi e leccaculo ad ampio range politico, e con quello sguardo a mezz’asta più del rettile che non del romano, propose l’idea d’un libellus. Un che? – dovettero chiedergli col rispetto dovuto all’autorità di un sovrano.

Libellus, documento da rilasciare a ogni singolo civis romanus, onde certificarne la fedeltà allo Stato – spiegò lui. E per attenersi alla forma, nonostante il potere assoluto del quale disponeva, la cosa fu varata a mezzo di un editto. Correva l’anno 250 dopo Cristo, ma, come in un wormhole, quel lembo del tempo s’è connesso con il nostro.

Nel Ddl dei cari antenati si ordinava ai cittadini dell’Impero di presentarsi davanti a una commissione per officiare un sacrificio propiziatorio, in gergo supplicatio. Il rifiuto a presentarsi, nei giorni delle udienze della commissione, siglava un’ammissione di colpa da pagare dapprima col carcere e la tortura. Poi, se renitenti, con la pena di morte. Gesto di buona volontà con cui onorare gli dèi, sia quelli da sempre ritenuti celesti, sia quelli che i loro meriti abbiano posti in cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Castoro, Polluce, Quirino – come riporta Cicerone nel “De legibus”.

Bastava che ti mettessi in fila per un hub sacrificale, offrissi incenso all’Imperatore, arrostissi un piccione o un coniglio sul braciere sacro, ne mandassi giù un boccone ed il pass ti veniva rilasciato. Lapsus, il libellus.

“Io, sempre, senza interruzione sacrificai agli dei e adesso alla vostra presenza, in conformità con quanto prescrive l’editto, ho fatto un sacrificio della carne della vittima sacrificata”.

Così riportava la pergamena che ti saresti messo in tasca. Così, con il libellus, avevi accesso alle terme, al teatro, allo stadio, alla popina. E perfino al lavoro. A proposito di lapsus, erano propriamente detti lapsi (dal verbo labi, scivolare) quanti fra i cristiani cedevano al ricatto e, per sopravvivenza civile, onoravano gli dèi pagani. Cosa che si sarebbe riproposta nel Giappone del secolo XVII, coi kirishitan dagli occhi a mandorla costretti a calpestare le loro immagini del Messia, della Vergine, dei Santi, per giuramento al divino Imperatore.

 

Alessandro Busa

Pubblicato da

Annalina Grasso

Giornalista e blogger campana, 29 anni. Laurea in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con una galleria d'arte contemporanea.

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