Cardarelli

L’io nei Prologhi di Vincenzo Cardarelli

L’opera d’esordio di Vincenzo Cardarelli è totalmente incentrata sulla figura dell’io dell’autore, che si manifesta, più che attraverso il ricordo e la rappresentazione puntuale di fatti biografici realmente accaduti, mediante un’accurata riflessione sulla propria interiorità e sulla percezione della realtà esterna e dei rapporti umani che vi si svolgono, condotta con rigore logico e affidata a sentenze lapidarie e perentorie.

In questo senso, i Prologhi, nel loro insieme, si configurano come un percorso di formazione che lo scrittore intraprende alla ricerca di un codice morale da seguire, esplorando le proprie angosce e cercando di riportare a unità i suoi dissidi interiori.

Protagonista assoluto del libro è lo stesso Cardarelli, il quale offre al lettore l’immagine problematica di un animo tormentato da spinte contrastanti, il ritratto di un uomo isolato dal mondo, costantemente alla ricerca dei mezzi per comprendere una realtà ostile e rappresentare nel contempo la propria lotta contro se stesso.

Ovviamente bisogna considerare che, trattandosi di un lavoro letterario, di finzione, l’autore, nonostante sia presente all’interno dell’opera in prima persona, di rado coincide in toto con l’io effettivamente descritto, ma seleziona in maniera programmatica quali parti di sé mostrare e quali celare. Di fatto, nei Prologhi i cenni biografici, quasi nulli, vengono solo abbozzati e utilizzati come punto di partenza per l’investigazione di stati d’animo ricorrenti, ma variamente declinati nei diversi brani;1 le esperienze private, spogliandosi dei connotati specifici nella descrizione di situazioni che assumono valore generale, sono accuratamente scelte per essere funzionali al progetto del diario di una crisi interiore su cui si imposta il testo, al punto che Giuseppe Raimondi, nell’introduzione al volume delle Opere complete cardarelliane, afferma:

Nella sua opera, non si sa mai in quale punto finisca l’influenza della sua esistenza sui risultati del lavoro letterario, dove si possa dire che la sua pagina sia il prodotto di una pura applicazione intellettuale, un’attenta sperimentazione stilistica, sia pure di alta efficacia estetica, e dove il peso dei sentimenti sprigionati dai minuti della giornata si trasformi, misteriosamente e subitamente, in idea poetica, in immagine. Si ha l’impressione di assistere, di essere testimoni di una nascosta competizione tra i fatti della vita e la nascita dell’immaginazione lirica.
La quasi totale mancanza di dati realmente autobiografici, unita alla genericità di quelli effettivamente proposti, che prima di posarsi sulla pagina subiscono un continuo processo di sublimazione, ha indotto molti critici a parlare per quest’opera di «astratto autobiografismo»: primo tra tutti Emilio Cecchi, il quale, recensendo il libro, asserisce che «l’assenza anche d’ogni traccia e simbolo d’oggetto affettivo […] dà uno smarrimento, un’angoscia di funebre e gelato petrarchismo».

La centralità dell’io è messa in risalto sin dai due brani che svolgono funzione proemiale, il breve frammento anepigrafo «La speranza è nell’opera» e la prosa Dati biografici. L’autore si presenta al lettore definendosi «un cinico che ha fede in quel che fa», veicolando l’immagine di un uomo legato alla concretezza e privo di qualsiasi spinta verso il trascendente, irriverente e dubbioso nei confronti della società in cui vive, la quale probabilmente non è in grado di comprenderlo e di accettarlo, inserendosi, in questo modo, in una diffusa corrente primonovecentesca di critica alle convenzioni imperanti.

Segue una biografia fittizia, che, a dispetto del titolo illusorio, per l’appunto Dati biografici, non fornisce alcuna informazione sulla vita di colui che scrive in prima persona, bensì, in aggiunta a varie delucidazioni sulla sua poetica, si concentra su un generico profilo morale; il ritratto si focalizza insomma esclusivamente sul lavoro letterario dell’autore, rimarcando le difficoltà che si sono sempre contrapposte alla sua creatività.

Ne emerge una figura di incompreso, ossessivo e in continuo fermento, soprattutto ragionativo, che non si limita a recepire e analizzare i fatti, ma li assimila febbrilmente (nel testo si utilizza il verbo divorare) che si considera vittima di forze superiori, nonostante in precedenza abbia detto di credere solamente nella propria opera.

 

Matteo Tabacchi

Pubblicato da

Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

Exit mobile version