Letteratura statunitense degli anni ’90 e David Wallace

La letteratura statunitense degli anni Novanta sono all’insegna di un vuoto, o meglio dell’assenza di un prospettiva globale da cui partire per interpretare una nuova serie di opere. Non vi è infatti un canone, un’etichetta che consentono di leggere in modo coerente e corretto i cambiamenti di quel periodo.

Ripercorrendo per sommi capi quanto è avvenuto nei decenni precedenti, all’avvento di opere non inquadrabili entro un canone prestabilito, è sempre corrisposta, dal punto di vista critico, la fondazione di categorie in grado di fare una mappatura dei mutamenti della moderna narrativa americana. Ad esempio gli anni Ottanta sono stati salutati come il periodo dell’ascesa e del declino della scuola minimalista, in realtà ultima propaggine del postmoderno. Tutta una serie di giovanissimi autori, rinverdendo i fasti della stagione beat, venne riunita frettolosamente sotto l’etichetta di brat-pack (banda di monelli), prendendo in prestito un termine usato nell’ambito cinematografico. Due nomi su tutti: Easton Ellis con l’opera Meno di zero e McInerney con Le mille luci di New York, divenuto manifesto generazionale. Nel 1984, anno in cui Gibson pubblica Neuromante, si comincia a parlare di letteratura cyberpunk, con riferimento a quel tipo di fantascienza che mescola surrealismo e immagini della cultura pop con informazioni di carattere storico ed esoterico; genere che ben presto annovererà tra le sue fila autori cinematografici come Ridley Scott con Blade runner e David Cronenberg con Scanners e Videodrome, con l’approvazione del guru del postmoderno Fredric Jameson, in cui si vedrà il massimo esempio di una pratica letteraria in cui coesistono capacità di lettura del contemporaneo e spinta verso un approccio più radicale. Persino ai fenomeni all’apparenza più ambigui fu trovata una collocazione: si pensi ad esempio al conio ad hoc del termine avant-pop, per indicare quella schiera di autori che faceva del muoversi su un territorio stilistico e mediatico la propria cifra. Neppure un allora giovane Wallace, reduce dall’opera La scopa del sistema, venne risparmiato da questa tendenza nomenclatoria, essendo il suo nome incluso all’interno del canone avant-pop. E invece solo pochi anni dopo, con l’esaurirsi di questi fenomeni , ogni prospettiva d’insieme atta a decifrare l’avvento di una nuova geografia letteraria. Tuttavia tale operazione, che non rappresenta nemmeno chissà quale problema, diventa ancora più difficile quando, come nel caso della generazione letteraria emersa negli anni Novanta, si ha che fare con una serie di opere e autori non solo molto distanti tra loro, ma che si contraddistinguono per un controverso rapporto con la tradizione; un paradosso che negli stessi anni coglie non solo la letteratura statunitense ma anche il cinema, basti pensare a pellicole come Fargo dei fratelli Cohen, Sydney di Anderson, Dead Man di Jarmusch sino ad arrivare al celeberrimo Pulp Fiction, film caratterizzati da strutture discorsive anomale, giocando con la forma.

Gli esiti di ciò che John Barth aveva predetto venti anni prima, sembrano davvero avverarsi alla soglia dell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Nel saggio del 1967 La letteratura dell’esaurimento, lo scrittore statunitense ipotizzava, guardandosi bene dall’utilizzare toni apocalittici, la fine di quell’idea di letteratura con cui il lettore occidentalizzato aveva imparato a familiarizzare da due secoli sino ad allora. Dunque è dagli anni Ottanta che intorno alla letteratura statunitense c’è un vuoto, assenza di scuole e di correnti immediatamente indentificabili, sebbene tale vuoto si “palesi” solo negli anni Novanta. Fatto sta che al suo apparire nel 1996, stesso anno di un film come Strade perdute di Lynch, Infinite jest di David Wallace pare concentrare tutti i paradossi della letteratura statunitense. Prima di tutto per la sua lunga gestazione e quando dal sottobosco letterario statunitense, inizia ad emergere un gruppo di voci fuori dal coro che salgono alla ribalta proprio per l’impossibilità di essere ricomprese entro uno dei tanti compartimenti messi in piedi dall’establishment critico. In questo clima Wallace si dedica alla stesura del suo secondo romanzo, introiettando spunti polemici e considerazioni maturate durante il suo paradossale apprendistato. Già nel 1988 tra l’altro, Wallace in un saggio, metteva a fuoco almeno tre caratteristiche inerenti al comune background degli scrittori a stelle e strisce a lui coevi: l’immane impatto della TV, la cui presenza pervasiva nella dieta mediale contemporanea avrebbe a tal punto influenzato gli scrittori da modificare “il modo in cui essi comprendono e rappresentano la vita vissuta”; in secondo luogo il diffondersi della scuole di scrittura creativa, per cui “nessun scrittore si è formato senza un apprendistato in un dipartimento di scrittura creativa”; e infine la rivoluzione nel modo in cui le persone erudite “concepiscono la funzione e le possibilità della letteratura”.

Secondo Wallace l’artista contemporaneo non può accontentarsi di vedere il lavoro di critici o filosofi come separato dai propri interessi. In questo senso ha ragione Mary K. Holland, studiosa di Wallace, quando sostiene che che lui “è quel tipo di scrittore che scrive non solo fiction, ma anche manifesti per la fiction” e che Infinite jest è un “romanzo concepito sulla scia di un manifesto”.

Difatti Infinite jest non solo ha saputo assorbire le tensioni storico-sociali, culturali e letterarie della propria epoca, ma è riuscita anche a proporre un nuovo modello di romanzo: un modo inedito di pensare e rivolgersi al dominio della fiction.

Bibliografia- F. Pennaccio-What fun life was.

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