‘Pastorale americana’ di Philip Roth. Il grande romanzo americano per eccellenza?

Pastorale Americana è un romanzo di Philip Roth del 1997, uno scrittore statunitense, considerato uno dei più importante scrittori contemporanei. Era nato a Newark, nel New Jersey da una famiglia di origine ebraica. Interessante della sua produzione letteraria è che, i suoi romanzi tendono ad essere autobiografici e, in tal senso, Roth creò una sorta di suo alter ego: Nathan Zuckerman, uno scrittore, come lui, attraverso cui cerca di portare nei suoi libri i profondi problemi della sua comunità, l’America lontana dai riflettori, l’America provinciale fatta di famiglie immigrate.

Vincitore premio Pulitzer per la narrativa 1998, Pastorale e americana, come si sa, è un libro che demolisce ogni stereotipo sulla grandezza dell’America e getta una luce sinistra sui suoi valori fondanti. La guerra, la famiglia, il fanatismo, la crisi, sono raccontati da Philip Roth con profondo acume. Un libro che è stato definito da tutti “Il grande romanzo americano”.

Pastorale americana: trama e contenuti

Il cuore di Pastorale americana è ambientato negli anni ’60, con varie digressioni temporali, e narra la storia di Seymour Levov, detto lo Svedese, un idolo per la comunità della sua città, Newark, la stessa Newark che Philip Roth ben conosceva, abitata da americanizzati figli di immigrati che si sono “spaccati la schiena” cercando di emergere nella terra che doveva dar loro nuove possibilità, l’America, e che realizza quel sogno americano fatto di fatica, impegno ma anche soddisfazioni, almeno apparenti. Lo Svedese è un uomo dall’indole buona, perfettamente realizzato, o almeno cosi appare agli occhi di Nathan Zuckerman, che lo ricorda come il più popolare della sua scuola e un idolo per la comunità di ebrei, il loro orgoglio per i suoi successi sportivi.

Nathan ripercorre i ricordi che ha dello Svedese, ci racconta la sua storia, quella reale, di quando faceva sognare la comunità con i suoi successi sportivi, di quando entrò nei marines e anche di quando, con orgoglio, Levov l’aveva chiamato Skip. Nathan, che andava fiero di quel soprannome, ci racconta di un suo incontro con lo svedese dopo molti anni, un incontro casuale a cui ne seguirà un altro; Nathan viene chiamato dallo stesso Svedese perché, in apparenza, interessato a scrivere un racconto su suo padre chiedendo a Nathan, scrittore, un aiuto, ma al loro incontro lo Svedese non riprende questo argomento, piuttosto parla solo di sé e della sua meravigliosa famiglia e con orgoglio dei suoi tre figli maschi. Nathan rimane perplesso, non può credere che in tutti quegli anni quell’uomo, che lui aveva mitizzato, potesse essere così pateticamente ottuso da riuscire solo a vantarsi, tuttavia questo non intacca la figura del suo mito.

“La vita di Ivan Il’ic, scrive Tolstoj, era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse. Forse nella Russia del 1866 […] La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell’America.

Tutto, però, cambia una sera quando, ad una festa di ex studenti di scuola, incontra il fratello dello svedese, Jerry, un uomo duro, arrogante che parla del fratello, nel frattempo morto, con rabbia e rancore e da quel dialogo Nathan scopre che lo Svedese aveva anche una figlia maggiore, Merry, avuta dalla prima moglie Dawn, ex miss New Jersey, che aveva distrutto la vita di suo padre mettendo una bomba nell’ufficio postale e dove un uomo era rimasto ucciso: la vita pastorale dei Levov è definitivamente distrutta per una realtà di sofferenza e vergogna. Dall’incontro con Jerry, Nathan inizia a riscrivere la sua storia dello Svedese, storia fatta di qualche ricerca e molta emotività.

Immagina lo svedese come un padre modello dietro a sua figlia piccola, una bimba insicura e balbuziente, si tormenta al pensiero di un bacio strappatole quando era adolescente, ricorda di quando la ragazzina era rimasta terrorizzata ma poi affascinata dai monaci buddisti in Vietnam, che per protesta si davano fuoco senza ricevere l’aiuto dei loro confratelli. Immagina la vita dello svedese come finalizzata alla felicità della sua famiglia e a portare avanti la ditta di guanti di famiglia, una società fondata con grande sforzo e lavoro suo padre, un uomo duro, un ebreo con saldi principi a cui, invece, suo fratello Jerry si ribella continuamente.

La figlia imperfetta

La vita dello svedese inizia ad avere i primi problemi quando la figlia inizia a crescere e a frequentare persone di estrema sinistra, la parte violenta dell’America, quella fazione politica che negli anni ’60 compie attentati in nome della pace, che protesta contro la guerra in Vietnam, e disprezza la borghesia arrivista rappresentata proprio da famiglie come i Levov.

Lo svedese e sua moglie non riescono a mettere un freno a questa ragazza che sembra quasi odiarli, soprattutto sua mamma, la miss bellissima e perfetta a cui Merry non potrà mai somigliare: l’epilogo di questi contrasti è nella bomba e nell’uccisione di un uomo. Merry scappa e lo svedese non la vedrà per 5 anni, la cercherà, cadrà nelle mani di una donna misteriosa- su cui comunque
non riusciremo a sapere la verità- fin quando riuscirà a riabbracciare sua figlia, di nascosto da Dawn che, nel frattempo aveva passato turbe psicologiche e rifatta il volto, come se cancellare le sofferenze dal viso, fosse cancellarle dall’anima.

Merry l’imperfetta figlia in realtà è l’unica ad avere una visione chiara sin da subito “la vita è quel breve periodo nel quale siamo vivi” e prova a trasmettere il suo malessere in ogni modo fino ad arrivare a far esplodere delle bombe o perfino al gesto estremo dell’autolesionismo lento e inesorabile che la porterà inevitabilmente alla morte per inedia, ottenendo nel padre un effetto deflagrante ben più grande degli atti terroristici, attaccandolo su un terreno per lui incomprensibile, alzando il velo della pastorale dei suoi ideali così ordinati e falsamente perfetti e mostrando tutto l’orrore, il caos la rabbia della vita e il senso di profonda solitudine che si celano
sotto ad esso.

I rapporti umani tra la quotidianità e la grande storia

Pastorale americana è pervasa dalla difficoltà che caratterizza ormai i rapporti tra le persone, se si esclude una forma di relazione formale e menzognera in cui tutto è narrato come si vorrebbe che fosse, oppure è taciuto. Ma il romanzo è anche lo spaccato di un momento storico che toccò tutta la società americana, coinvolgendo ogni strato sociale e ogni gruppo etnico: gli anni che impegnarono lo Stato nella guerra in Vietnam.

Queste le componenti che incidono maggiormente sulla vita del protagonista, Seymour Levov, di origine ebraica, ma detto lo Svedese per il suo aspetto fisico. E “ordigno dirompente” nella sua vita sarà la figlia Merry che, proprio negli anni del Vietnam, diventerà militante e terrorista, sbalzando fuori lo Svedese dalla “tanto desiderata pastorale americana” e catapultandolo “nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”. Tutta la storia è narrata dal tradizionale alter ego dell’autore, Nathan Zuckerman, attraverso una analisi complessa dei fatti e dei comportamenti che devia il romanzo verso una sorta di psicoanalisi della società americana contemporanea.

Pastorale americana. Una narrazione inattendibile?

Zuckerman, nel libro, è il narratore extra omodiegetico, oltre che la maschera di Roth, tuttavia, dopo l’incontro con Jerry Levov, diviene un narratore extra eterodiegetico; la focalizzazione è interna, anche se l’autore si avvale dello spostamento di focalizzazione tra Zuckerman e Jerry durante il loro incontro al raduno di ex allievi. Un narratore inattendibile Zuckerman perché narra la storia dello Svedese contornata da quell’alone di mitizzazione con cui l’aveva sempre visto, alla luce di ciò non può essere obiettivo verso Levov; inoltre, il lettore si trova a dover ricostruire la storia da due descrizioni differenti della vita dello Svedese, appunto quella mitizzata
di Zuckerman e quella cruda e quasi rancorosa di Jerry Levov.

Il lettore può ricostruire la sua propria storia portando avanti alcuni punti non chiariti, questo perché il romanzo segue una delle
caratteristiche della letteratura contemporanea: la multilinearità, una storia con molti plot può avere molti narratori, e, quindi, lettori che possono seguire diverse storie riscrivendole. Ad esempio non sappiamo perché Seymour aveva voluto incontrare Zuckerman: voleva scrivere un libro su suo padre? Avrebbe voluto scriverne uno in omaggio a sua figlia? O magari una propria
autobiografia? Siamo certi che quello che raccontano sia Roth che Zuckerman sia la verità? O l’America è ancora più complessa come le relazioni umane?

In Ho sposato un comunista, romanzo di Roth, si legge: «Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature?» Sfumature alle quali Roth non ha rinunciato, ma siamo certi che lo scrittore sia riuscito davvero a mediare tra realtà e verità?

Protagonisti e contenuti del romanzo ‘Sulla strada’ di Kerouac

Non c’è niente di stantio in Sulla Strada di Kerouac. Niente di retorico, niente di superfluo, niente di invecchiato male. Se si torna al libro- lasciando perdere la sua abusata mitologia, l’esasperata devozione dei suoi cultori- si ritrova una vitalità intatta, splendida, seducente. È un libro che parla di oggi, perché, anche se all’epoca divenne di moda, non ha nessuna concessione alle cose più stereotipate della beat generation, alle cose che sono diventate più presto logore. Parla di cose eterne. Parla di amicizia, innanzitutto: ed anzi, prima ancora che di strada e di viaggio, mi sento di dire che questo libro sia innanzitutto l’enorme atto di amore che Jack Kerouac- Sal Paradise nel romanzo- tributò al suo amico fraterno Neal Cassady- reso immortale con l’ormai leggendario nome di Dean Moriarty.

Il beat di Kerouac

A ben vedere, Kerouac- così come si dipinge nel suo libro, almeno- non è del tutto addentro alla follia del beat, non sposa del tutto quella vita, ed anzi: in lui rimane sempre un’impostazione sostanzialmente borghese, una resistenza a rinunciare del tutto ad una certa idea di stabilità, di realizzazione personale, di compimento “classico” della propria vita. Più profondamente, in Sal Paradise (alter ego di Kerouac) resta, in tutto il libro, la nostalgia di un paradiso perduto- forse in questo senso il suo è un nome parlante- di un eden nel quale riposarsi, di una casa nella quale finalmente placare la propria irrequietezza, la propria ansia famelica di vita.

Probabilmente, è proprio questa posizione mediana tra salute mentale e follia, tra vita regolare e viaggi pieni di eccessi, tra aspirazione alla monogamia e promiscuità, tra una solida base letteraria (nel libro si mostra evidentemente che Kerouac conosce Dostoevskij, Hemingway, Melville) e concessioni allo slang e al linguaggio disarticolato e primitivo del beat, che Kerouac riesce a diventare il cantore più autentico di quella generazione, quello che abbia saputo trarre l’opera più longeva e capitale da quella stagione fatta di cose effimere e fugaci. È rimasto dentro il beat quanto bastava per poterlo raccontare- e raccontarlo come si racconta qualcosa che si ama, senza snobismo, alterigia, paternalistico distacco-, ma abbastanza a distanza da non farsene fagocitare, da non soccombere dentro di esso.

Dean Moriarty, un personaggio consapevolmente confuso

E questa devozione a quella stagione, a quegli autori, a quei viaggi, a quel tentativo folle e disperato di dettare una nuova visione al mondo, è anzitutto la devozione al suo amico, a Neal. Dean Moriarty è un personaggio tra i più riusciti della letteratura mondiale, e si vede che Kerouac descrive qualcuno che ha profondamente amato, il suo più fraterno amico, quello del destino. C’è qualcosa di commovente, tremendamente commovente e straziante in questa amicizia che sostiene tutto il romanzo, che anima tutti questi viaggi senza meta. Sal Paradise è un giovane di belle speranze, mantenuto dalla zia, che vuole fare le cose a modo, in fondo: fare l’università, diventare scrittore, mettere su famiglia, fare una buona carriera. I suoi sogni sono ancora sogni borghesi, sogni di una borghesia onesta, che sa cogliere la nobiltà di una certa quotidianità, senza farla precipitare in mediocrità, in spirito gregario, in acquiescenza.

Ma dentro questo ragazzo borghese alberga anche una confusa consapevolezza: e cioè che tutto ciò che il mondo gli sta lasciando in eredità è ripugnante e falso. Falsa la politica, falsa l’arte, falso il vivere civile, falso lo spettacolo e falso l’intrattenimento; falso anche tutto ciò che si dice sull’amore, sulla fedeltà e il matrimonio; falsa la scienza prona al potere e che in quegli anni raffinava la bomba atomica e faceva aleggiare sul mondo lo spettro dell’apocalisse imminente, falso lo stesso potere, falsa la religione nelle sue forme ingessate, piccolo-borghesi, istituzionalizzate, moribonde. Malgrado il suo temperamento e la sua formazione siano sempre nostalgiche dell’ordine, del senso e della direzione; Sal Paradise si trova spaesato in un mondo dove l’ordine ha lasciato spazio al caos, in cui nessuno sa più dove andare, cosa seguire, chi cercare, e dunque tutto diventa un folle e caleidoscopico viaggio senza direzione e senza requie.

Un viaggio tra bellezza e follia

Una sola cosa conforta, una sola cosa salva: la vita stessa, quella che si dispiega lungo il viaggio, i volti i nomi e le strade, l’America infinita e sterminata, l’ebbrezza del vento in faccia e la vertigine di voler arrivare ai confini del mondo, la folle libertà dei pionieri, lo spettacolo inesauribile dell’umanità malgrado tutto stupenda, la bellezza della strada, di una macchina, della velocità. Tutto questo sarebbe rimasto solo un confuso sogno di uno scrittore introverso e senza una particolare disposizione al viaggio- Sal Paradise, si apprende quasi a metà del romanzo, detesta guidare, ha una paura vera degli incidenti-, se Sal non avesse conosciuto Dean.

Dean è la personificazione della coscienza infelice di Sal, la follia incarnata, l’uomo che ha il coraggio di essere ciò che lui- con la sua attenzione malgrado tutto riservata alla sicurezza, al sogno di una moglie, alla propria rispettabilità, alla propria sopravvivenza- non avrebbe mai il coraggio di diventare. Abbandonato presto dal padre alcolizzato, cresciuto senza famiglia e allevato dalla strada, capace di perdere la verginità a dodici anni, di ingerire quantità abnormi di alcool e di guidare senza sosta da un capo all’altro dell’America, Dean non è solo un amico: è l’epifania della vita di Sal, l’illuminazione di ciò che deve fare, qualcosa che dà un nome e un volto alla sua perenne irrequietezza, alla sua insoddisfazione segreta e prorompente per la sua vita borghese.

Nulla ferma la pazzia di Dean: né le due mogli sperse in angoli sempre distanti dell’America, né la figlia, né l’incedere dell’età: la sua è un’esistenza da esteta, a cui Sal perdona tutto, la sua totale mancanza di affidabilità, il suo procedere verso zone di riflessione sempre più lontani dal senso comune e dalla comprensibilità, il suo essere essenzialmente avvitato su sé stesso, capace anche di grandi slanci di generosità ma in definitiva egoista, addirittura solipsista nel suo modo di vivere la vita ed i rapporti. Sal vede che Dean non è un amico: non gli dà, dell’amico, né le garanzie né il vero conforto affettivo. Ma gli dà la possibilità di viaggiare, l’ebbrezza delle notti, i versi dei poeti, il cemento della strada, le vaste e ineffabili prateria d’America.

Per lui- ma non solo per lui- la presenza di Dean va goduta per quello che è: uno spettacolo, una manifestazione inedita e esorbitante di energia, l’esplosione assurda e incessante di una vitalità estrema, insensata, che arde al punto di arrivare al parossismo. Nessuno è disposto a seguire Dean in questa folle corsa all’annientamento: ma tutti gli sono grati di essere così, di scuotere le esistenze degli altri altrimenti così grigie, monotone, ripetitive. Sal lo sa, come lo sanno tutti: ma lui è il solo e riconoscerlo, il solo a proclamare amore per quel grande e spettacolare matto. In lui Sal vede una scintilla che non ha niente di manieristico, di costruito, di artificioso- così diversa dalla finta pazzia di tanti artisti o sedicenti tali, che si atteggiano, magari proprio ispirandosi al beat, a folli solo come posa letteraria… Sal ama di Dean la sua genuinità, malgrado tutto conservata: la sua purezza.

“Lui era soltanto un ragazzo tremendamente eccitato dalla vita, un imbroglione, certo, ma solo perché aveva quest’ansia di vivere e di mescolarsi a gente che altrimenti non gli avrebbe prestato la minima attenzione”

I viaggi del libro di Kerouac sono quattro, uno per ogni parte del romanzo. La prima volta Sal parte da solo, in autostop e con i mezzi, da New York, raggiunge Dean a Denver, dove lo trova impegnato in folli dispute notturne con Carlo Marx- alter ego di Allen Ginsberg-, e allora se ne va nel West, dove trova impiego come poliziotto. Deve essere un fatto vero della vita di Kerouac questo, ma non crediamo sia casuale la scelta di inserirlo nel romanzo. Questo infatti mi sembra anche un grandissimo libro sulla lotta intestina che si svolge da sempre dentro l’America, la stessa lotta che oggi infuria e che minaccia di far saltare l’unità stessa di quella nazione.

All’epoca infatti gli Stati Uniti iniziavano a vivere quel paradosso di nazione nata sul concetto stesso di libertà ma, ad un tempo, sempre più obbligata dal peso internazionale di stato più potente del mondo a convertirsi silenziosamente in uno stato di polizia, e poi in poliziotto globale. C’è un’America che sogna la prateria, i lunghi viaggi sterminati, la natura, amare i propri fratelli che si trovano in fondo alla strada; e un’America che invece ha tutte le esigenze di uno stato sempre più accentratore, securitario, pervasivo.

L’America di Kerouac

C’è l’America libertaria e l’America della burocrazia. Sal Paradise che veste di malavoglia i vestiti da poliziotto è allegoria stupenda di questa America che esercita da anni ordini senza crederci più, vedendo in modo lampante la loro assenza di legittimità. Quando Sal torna, ogni volta è la stessa storia: proprio quando sta per accomodarsi nella sua vita borghese, nella placida tranquillità della sua vita ordinaria, Dean arriva alla sua porta e lo trascina in un nuovo viaggio verso l’Ovest. Troppe le cose raccontate, in quello stile nervoso e sincopato, in quella scrittura che si muove sempre più aderente alla vita, senza più mediazioni artificiose, sempre più attaccata alla pelle delle cose, per poterle citare tutte. Citiamo alcuni brani a campione, per dire la pazzesca maestria che aveva Kerouac nel mostrare non soltanto l’estasi del viaggio- del sesso, della strada, degli incontri- ma anche la malinconia sottile di questa vita fatta tutta di gente sfiorata e poi dimenticata, il senso di afflizione di non poter tenere tutto il mondo con sé, nella sua commovente vastità e varietà, di doversi rassegnare a perdere tanto di ciò che s’è visto.

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e perdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio”.

<<Dissi a Terry che me ne andavo. Lei ci aveva pensato tutta la notte ed era rassegnata. Mi baciò senza emozione nel vigneto e si allontanò lungo il filare. Dopo una decina di passi ci girammo, perché l’amore è un duello, ci guardammo per l’ultima volta. “Ci vediamo a New York, Terry”, dissi. Terry aveva in programma di raggiungermi di lì ad un mese, in macchina con suo fratello. Sapevo entrambi che non ce l’avrebbe fatta. Dopo una trentina di metri mi girai a guardarla. Lei continuò a camminare verso la baracca con il piatto della colazione in mano. Chinai il capo senza smettere di guardarla. Ero di nuovo sulla strada, ahimè>>.

“Avrei voluto andare a prendere di nuovo Rita per dirle molte altre cose, e far veramente l’amore con lei, e calmare la sua paura degli uomini. Ragazzi e ragazze hanno rapporti così tristi in America; snobismo vuole che cedano immediatamente al sesso senza adeguate parole preliminari. Non parole di corteggiamento, ma sincera apertura dell’anima, perché la vita è sacra e ogni momento è prezioso.”

Alla fine questa folle corsa dove conduce? Strano a dirsi, in Messico, dove Sal e Dean sembrano trovare requie perché incontrano un popolo strano e gentile, dagli sguardi accoglienti, un modo di vivere sano e semplice, attaccato ai ritmi della terra, senza tutta quell’insensata diffidenza e quella morbosa paura che stava avvelenando l’America. Il segreto del mondo sembrano trovarlo dentro gli occhi degli indios, il popolo più negletto e mortificato della terra. Dice di loro Dean

“Non c’è sospetto, qui, niente del genere. Tutti sono rilassati, tutti ti guardano in faccia con i loro occhi scuri e non ti dicono niente, guardano soltanto, e nel loro sguardo ci sono ancora tutte le qualità umane più dolci e tenui. (…) gente onesta e gentile, che non fa scherzi.”

Tra viaggio e fuga

Forse tutta quest’ansia di viaggiare era solo una folle fuga, un’incapacità di riconciliarsi con la propria terra, i propri luoghi, i propri volti più famigliari. Lo stesso Dean Moriarty, forse, non fa che cercare per tutto il continente quel padre che non ha più rivisto, dal quale non si è mai sentito amato. Ma, sia come sia, questa psicologia non è interessante. Ciò che è bello e struggente è che Sal Paradise, anni dopo, quando ormai avrà raggiunto quell’agiatezza e quella realizzazione borghese di una vita in ordine, come antidoto contro l’incedere della vecchiaia e la ripetitività dei giorni non ha nient’altro che pensare a quell’amico, a quello che è stato il brandello della sua vita accanto a lui, che altri liquidano ormai come un periodo di perdizione giovanile ma che in realtà lui custodisce in sé come il momento più vero e autentico della sua vita. Il momento in cui tutto roteava attorno a loro come uno spettacolare caleidoscopio- le donne, i volti, i luoghi, l’America tutta- e dentro il cuore rovente del mondo c’erano solo lui e il suo amico, disposti a ogni cosa pur di cogliere fino in fondo il segreto della vita.

<<E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta questa terra nuda che si srotola in un’unica incredibile massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty>>.

‘Crossroads’, il nuovo (e già letto) romanzo di Franzen

Di Jonathan Franzen (Western Springs, 1959), considerato, insieme a Colson Whitehead, Dave Eggers, Nathan Englander e Jonathan Safran Foer, fra gli esponenti di punta americani contemporanei, è appena uscito Crossroads, romanzo dal taglio moderno, dall’approccio naturalista che ha come sfondo il Midwest americano dove si dipanano le vicende e la dissoluzione di una famiglia.
Sebbene Franzen prenda una certa distanza dagli altri autori citati, quantomeno una distanza anagrafica considerato che è più anziano di loro di una decina d’anni o poco più, si direbbe che anche egli appartenga al cosiddetto movimento del nuovo romanzo americano. Eppure non tutto ciò che brilla è oro e nonostante Franzen sia noto per un eccellente marketing che gli ha permesso di raggiungere numeri considerevoli, la realtà sembrerebbe essere che egli con i suoi ultimi i più grandi successi cerchi di ripetere il grandioso affresco di Pastorale Americana (Philip Roth) senza tuttavia averne la forza stilistica né la visione profonda.
Crossroads si allinea ai precedenti romanzi di Franzen, primo libro di una recentemente annunciata trilogia, interessante ma ancora una volta incapace di raggiungere i grandi romanzieri americani cui aspira.
Per gli appassionati di Franzen – sono tanti come però sono tanti anche i detrattori di questo autore – il tema non è nuovo, in qualche modo presente in maniera sempre più sostanziale nei suoi romanzi più importanti Le Correzioni, Libertà, Purity. Ma questa volta il nuovo romanzo dell’autore americano apre dichiaratamente una trilogia, denominata “A Key to All Mythologies” che si muove attraverso le generazioni.
Gli Hildebrandt, i protagonisti borghesi di un sobborgo fittizio di Chicago, sono gli esponenti e i protagonisti di una famiglia e partecipano alla vita di una congregazione. Se da un lato il pastore Russell e sua moglie Marion devono affrontare i vari aspetti di una crisi coniugale, d’altra parte i fatti si svolgono in una ben più ampia crisi spirituale che coinvolge gli Stati Uniti agli inizi degli anni Settanta. I tre figli della coppia dovranno così affrontare le inevitabili contraddizioni fra una famiglia devota, immersa nella dimensione religiosa e un ambiente sempre più libertino e aperto alla sperimentazione come quello della fine degli anni Sessanta.
In Franzen si trova così una certa introspezione e il tentativo di affrescare un’epoca. La modalità narrativa, già sperimentata dallo scrittore americano in romanzi come Le Correzioni e i temi affrontati, certamente possono attrarre il grande pubblico seppure più che affrescare un’epoca tendono a dipingere vicende della provincia e non americana, quasi si trattasse di romanzi di genere, feuilletons, per intenderci, capaci di incuriosire ma lontani dal grande respire di romanzieri più importanti.
Resta il fatto che il romanzo ha alle spalle la grande macchina promozionale americana, capace di portare alla ribalta i propri scrittori come forse nessun altro sa fare, così capace da passare a volte in secondo piano la differenza con grandi scrittori come Philip Roth per citarne uno, la cui portata letteraria è chiaramente diversa da quella di Franzen. Tuttavia bisogna riconoscere al mondo anglosassone e agli americani in particolare un coraggio editoriale che ad altri paesi, Italia in prima fila, manca sebbene quest’ultima disponga di grandi scrittori di primo ordine come Davide Amante.
“Il fatto di avere una forte vena populista nel mio personaggio aiuta, e quindi non ho paura della suspense. Sono antichi piaceri della narrazione, e perché non approfittarne, soprattutto in un’epoca in cui il romanzo è in ritiro e la gente cerca ragioni per non dover leggere un libro”;
ha dichiarato una volta l’autore. Il New York Times dice di lui che si è reso conto con riluttanza, che la TV era dove si dirige l’attenzione delle persone ora, che i grandi momenti culturali coinvolgono più spesso gli schermi televisivi che i libri, il che, secondo lui, è il modo in cui funziona l’evoluzione.
Insomma un pensiero che tende ad adattarsi al mondo più che cercare di cambiare il mondo, una diplomazia dello scrittore dalla noncuranza di molti grandi scrittori d’altri tempi come Philip Roth appunto o di questa epoca come i già citati Davide Amante o Colson Whitehead. Una noncuranza e una ostinazione che alla fine l’evoluzione la fanno davvero ma attraverso la parola scritta e portando nuova linfa agli schermi grandi e piccoli piuttosto che farsi trasportare da essi adattandosi alle loro esigenze.
La newyorkese Susan Golomb, agente di Franzen, è garanzia di relazioni e marketing elevato. Se poi si aggiunge che Franzen mantiene un certo tradizionale riserbo circa la propria posizione di scrittore, l’interpretazione del suo successo inevitabilmente si complica. Grande scrittore o grande artista dell’adattamento al mercato e del marketing?
Vende copie, questo è certo e seppure i suoi numeri sono in calo già dai tempi di Purity, persiste intorno a Franzen un’aura di mistero o forse una particolare capacità di creare un equilibrio unico nel suo genere.
Crossroads è un titolo particolarmente azzeccato per lui ma il vero bivio è quello di fronte al quale si trovano i suoi lettori, combattuti fra una letteratura prevedibile e verbosa seppur di buon livello l’imprevedibilità e il linguaggio innovativo che contraddistinguono i grandi scrittori contemporanei e di tutte le epoche.
Jonathan Franzen ha scritto sei romanzi (La ventisettesima città, Forte movimento, Le correzioni, Libertà, Purity e Crossroads), quattro raccolte di saggi (Come stare soli, Più lontano ancora, La fine della fine della terra e E se smettessimo di fingere?), e l’autobiografia Zona disagio. Ha annotato un compendio di saggi di Karl Kraus nel volume Il progetto Kraus. Inoltre ha pubblicato racconti e saggi su «The New Yorker» e su «Harper»

Quando Bukowski in una sua poesia diceva: ‘l’uomo di oggi è merce deperibile’

Bukowski dissacra il sogno americano. La sua è una critica feroce all’America benestante, puritana, conservatrice; una presa di posizione destabilizzante nei confronti dell’America del consumismo e del conformismo. Ce lo dice senza giri di parole in una sua poesia: l’uomo di oggi è merce deperibile.

Lo scrittore americano è un ribelle solitario, che svela il grottesco della società a stelle e strisce; è per questa ragione che in America è rimasto sempre underground ed invece in Francia ed in Germania ha avuto grande successo. Bukowski svela gli scheletri dell’armadio della rispettabilità borghese. I personaggi dei suoi libri sono assurdi e la loro grama esistenza può apparire talvolta al lettore insensata e vuota.

Troviamo, quando va bene, mariti ubriachi e mogli brontolone affacciate alla ringhiera, affittacamere spilorce e maleodoranti. E tutti indistintamente che cercano di ammazzare il tempo, mentre aspettano di morire. Bukowski è troppo vecchio per appartenere alla beat generation e troppo originale per classificarlo in qualsiasi altra scuola poetica.

Per alcuni versi potremmo definire lo scrittore erede di Fante o almeno potremmo dire che ha un debito nei suoi confronti. Infatti lui stesso ha dichiarato a riguardo di Fante: Ecco, finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità”.

Bukowski dice no all’impegno politico, no all’establishment letterario: è un uomo a mani vuote, senza alcuna certezza né ideologia. Per quanto riguarda ogni presa di posizione politica, Bukowski ci ricorda che gli uomini non sono mai forti come le loro idee. L’unica rivoluzione che forse potrebbe fare è quella dei barboni, che lui immagina nel suo racconto “La vendetta dei dannati” in “Niente canzoni d’amore”.

Inoltre in un suo libro di poesie “Si prega di allegare 10 dollari per ogni poesia inviata” scrive a proposito dell’elite culturale: “Dire che sono un poeta mi mette in compagnia di grafomani matti e rincoglioniti che si mascherano da grandi saggi”.

L’originalità delle sue poesie sta nel fatto che non c’è distanza tra l’espressione poetica e la lingua ordinaria americana. Lo stile colloquiale d’intonazione bassa con cui si rivolge al lettore è rassicurante, però quando meno te lo aspetti ecco che Bukowski colpisce con la sua sicura fulmineità. E’ singolare il suo modo di evocare la condizione umana: quello di Bukowski evoca una storia d’uomo disilluso che, assunta liricamente, desta risonanze in tutti ed esprime efficacemente il malessere di un’epoca. Un altro aspetto interessante è che troviamo uomini in carne ed ossa, non cifre e segni.

La sua non è una poesia intellettualistica. Kerouac aveva scritto su un rotolo di carta telescrivente “On the road”. Vi narrava con un ritmo febbrile le peripezie di due giovani che percorrevano gli Stati Uniti da costa a costa. Ma in Kerouac c’era il desiderio di avventura, la voglia di esplorare il mondo e di effettuare un viaggio interiore tra Jazz, droghe, alcol. In Bukowski prevale invece una mistura sapiente di disincanto, cinismo, autoironia.

In W. Burroughs ci imbattiamo in scenari onirici e psichedelici, che mettono a dura prova l’immagine prefabbricata dell’America. Troviamo le sue esperienze da tossicomane, gli allucinogeni, gli spacciatori, gli alcolizzati ed una moltitudine di trasgressori e trasgressioni. Ma in Burroughs è rintracciabile anche la paranoia, il tema ricorrente della cospirazione, la presenza più o meno discreta del “Demoralizzatore totale”.

In Bukowski invece no. Egli non perde mai il contatto con la realtà. Ci sorprende per il suo sguardo diretto alle cose quotidiane, per la sua immediatezza nel coglierne i tratti essenziali. Nei suoi testi non ci sono né allusioni, né allegorie. Ogni suo libro nel suo insieme è così chiaro, che si può abbracciarlo tutto con un solo pensiero.

Nei suoi libri troviamo innanzitutto le sue più grandi passioni: la musica classica e la letteratura. Gli ambienti descritti nei suoi racconti e nelle sue poesie sono il bar, la strada, l’ospedale, l’ippodromo, la squallida stanza d’albergo, il manicomio, la bettola in cui è costretto a vivere. L’aspetto che più impressiona di Bukowski è l’occhio mirifico, la non comune capacità di cogliere il dettaglio di ogni ambiente e di ogni personaggio. Le sue storie poi spiazzano, perché sono vere eppure all’apparenza inverosimili.

Un’altra qualità è la battuta sferzante, l’aforisma tagliente, che spesso al momento giusto riesce a riassumere ed allo stesso tempo a sdrammatizzare la situazione paradossale in cui si trovano i personaggi. Ma questo non è ancora tutto. Il personaggio Bukowski entra prepotentemente in ogni suo racconto con le sue contraddizioni ed i suoi vizi. Un personaggio dedito agli eccessi: all’alcool, all’erotismo sfrenato e sfacciato, talvolta alle risse.

Insomma individualismo e boheme, o per dirla in termini italiani genio e sregolatezza. Lo scrittore usa spesso a questo proposito il suo alter ego Henry Chinaski, che come lui ha lavorato alle poste, il quale a tratti si comporta come un ragazzino a tratti rivela una saggezza illuminante. E’ un uomo conflittuale, mai pienamente risolto, le cui storie senza uscita alimentano continuamente il suo disagio esistenziale.

Bukowski dimostra il talento di fare della propria esperienza personale motivo e pretesto di condizioni più universali. Un tema che più volte Bukowski mette a fuoco è il rapporto difficile con le donne: sembra misogino e maschilista, eppure ha bisogno di relazioni a lungo termine con le donne: relazioni che non riesce a far durare a lungo per i suoi scatti d’ira e per i suoi umori altalenanti.

Nelle sue vicissitudini sentimentali regnano incontrastate incomunicabilità ed estraneità reciproca. La donna non è mai idealizzata, contemplata. Non è mai fatta simbolo di niente. Eppure nella sua vita sarà proprio una sua donna, Linda Lee a mettere freno agli impulsi distruttivi dello scrittore. Gli farà ridurre l’assunzione di alcol, lo metterà a dieta, lo incoraggerà ad andare tutti i giorni alle corse dei cavalli per distrarsi e a non alzarsi mai prima di mezzogiorno. Bukowski mette a nudo i difetti delle donne con un certo sarcasmo. Però allo stesso tempo mette a nudo anche i suoi difetti ed i suoi limiti di uomo. E questa sincerità disarmante da sola è rara e preziosa tra tutti gli scrittori esistiti ed esistenti.

 

Di Davide Morelli

‘Aspetta primavera Bandini’, il primo romanzo di John Fante sull’immigrazione negli States

John Fante è uno scrittore originale e di talento. Ciò nonostante per molto tempo è stato un autore di nicchia. Essendo italoamericano è stato considerato marginale sia dai critici letterari americani che da quelli italiani: troppo italiano per gli americani, troppo americano per gli italiani. Fu Vittorini che lo fece conoscere agli italiani negli anni’40, mentre in America solo negli anni’80 ci fu la sua riscoperta grazie a Bukowski, che lo considerò suo maestro per aver saputo conciliare nella sua prosa ironia e dolore. In Francia recentemente è divenuto un caso letterario.

Fante era figlio di un abruzzese di Torricella Peligna, emigrato in America ad inizio’900. Nacque in Colorado nel 1909. Lavorò per Hollywood e trascorse alcuni periodi della sua vita in Italia perché fece lo sceneggiatore per Dino De Laurentis. Il diabete gli procurò la cecità nella maturità e successivamente l’amputazione delle gambe. Morì nel 1983. Il libro che gli dette più soddisfazioni economiche fu Full of Life (“Una vita piena”), da cui fu tratto anche un film.

Tempi difficili per gli immigrati durante l’infanzia e l’adolescenza di Fante. Gli Stati Uniti non ebbero una legge sull’immigrazione fino al 1875. La legge del 1875 e le successive fino al 1921 non misero limiti all’ingresso di immigrati. L’opinione pubblica però esigeva una migliore “qualità” per quel che riguardava l’immigrazione.

Gli Stati Uniti così decisero di sottoporre ai test d’intelligenza gli immigrati, perché l’opinione pubblica ravvisava la minaccia di un “imbastardimento della razza americana”. I risultati dei test d’intelligenza decretarono la superiorità intellettuale del gruppo nordico. La legge del 1924 concedeva a tutti i nordici di entrare in America, ma stabiliva una quota del 2% per coloro che erano alpini e mediterranei (per cui anche gli italiani).

Chiaramente oggi sappiamo che esistono le differenze di intelligenza, ma anche che non sono così quantificabili come alcuni psicologi avevano voluto far credere con i test. Il Q.I serve soprattutto come strumento diagnostico per vedere se un bambino soffre di ritardo mentale o per constatare se una persona che ha avuto un trauma cranico ha perso delle facoltà intellettive.

Inoltre come ha dimostrato Kamin nel libro “Scienza e politica del Q.I” i dati furono falsificati. Ma quello che ci interessa è l’atteggiamento xenofobo dell’opinione pubblica americana in quel determinato periodo. Tempi difficili per gli immigrati italiani quindi e Fante ce lo racconta approfonditamente nei suoi libri.

Spesso infatti troviamo riportati nelle sue opere i pregiudizi dei nativi americani sugli italiani. Nei romanzi di Fante c’è la netta contrapposizione tra emarginati ed integrati: tra gli immigrati italiani (che sognano il benessere economico e vivono in povertà) e gli americani, che vivono dignitosamente.

“Aspetta primavera Bandini” è il suo primo romanzo. Con esso inizia la saga della famiglia Bandini, una famiglia di poveri immigrati italiani. L’eteronimo di Fante è Arturo Bandini, un adolescente di quattordici anni. I suoi fratelli August e Federico hanno rispettivamente undici ed otto anni. Svevo, il padre, è un muratore ed un dongiovanni, che se la fa con una ricca vedova, che gli ha dato da rifare un caminetto della sua villa; è un uomo molto orgoglioso, che accetta malamente le incombenze della sua vita grama: il mutuo della casa, periodi di disoccupazione, i debiti da saldare.

Bandini è molto legato al suo amico Rocco, che è stato in gioventù suo compagno di avventure. La madre Maria invece è una donna molto devota: sgrana il rosario e prega per la sua famiglia continuamente. Perdona sempre tutto al marito, accetta anche i suoi adulteri e le sue frequenti fughe da casa con rassegnazione.

Il marito Svevo se ne va da casa per alcuni giorni, anche quando arriva la lettera di Donna Toscana, sua suocera, che lo considera un fallito e compatisce la figlia per la vita di miserie che è costretta a fare. Nonostante la famiglia Bandini spenda più di quello che guadagna, il figlio Arturo con l’incoscienza dell’adolescente trova il modo di rubare alla madre i soldi per andare al cinema. Arturo è innamorato di Rosa Pinelli, una sua compagna di classe, che però muore di polmonite.

Il momento più poetico del libro è proprio quando Arturo viene a conoscenza della scomparsa della ragazza. Questo romanzo si legge tutto d’un fiato. E’ adatto a persone di tutte le età. La prosa è scorrevole. Non si rintracciano mai durante tutta l’opera intellettualismi e filosofemi. Leggere Fante dunque. Leggere Fante è interessante perché ci riporta indietro nel tempo: ci fa ricordare come eravamo. Ci fa comprendere le grandi difficoltà a cui andarono incontro coloro che emigrarono in America. E tutto questo ci viene raccontato con umorismo e acume.

 

Di Davide Morelli

 

‘Il silenzio’, l’ultimo capolavoro apocalittico pop di Don DeLillo ambientato durante la pandemia

La fine di un mondo passa sempre per i suoi contrari, perciò non bisogna meravigliarsi se per lo scrittore statunitense Don DeLillo a spegnere la civiltà umana così come la conosciamo sia il silenzio, che poi forse non sarebbe una cosa malvagia. Sembra essere proprio questa la chiave di lettura principale dell’ultimo romanzo di Don De Lillo, Il silenzio, 2020.

Manhattan, 2022. Una coppia è in volo verso New York, di ritorno dalla loro prima vacanza dopo la pandemia. In città, in un appartamento nell’East Side, li aspettano tre loro amici per guardare tutti insieme il Super Bowl: una professoressa di fisica in pensione, suo marito e un suo ex studente geniale e visionario. Una scena come tante, un quadro di ritrovata normalità. Poi, all’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio.

Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?) L’aereo è costretto a un atterraggio di fortuna. E addio Super Bowl. Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente? O è il collasso della tecnologia su se stessa, sotto il proprio tirannico peso? È l’apparizione di un buco nero, l’aprirsi di una piega dello spazio e del tempo in cui le nostre vite scivolano inesorabilmente? Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.

Vera protagonista del romanzo è la teoria dell’apocalisse che De Lillo ha affidato al suo editore poco prima che la pandemia prendesse il largo: a marzo le ultime bozze, qualche giorno dopo i lockdown in tutto il mondo. In America Il silenzio è uscito a ottobre per Picador; resta inedito in Italia dove arriverà per Einaudi a febbraio 2021, un romanzo brevissimo in cui assistiamo al blackout della nostra tecnologia digitale in un ipotetico 2022, nel giorno del Super Bowl, giornata evento per gli americani. Ma non è un libro dagli intenti profetici come ha spiegato lo stesso autore al Guardian: “È solo una storia ambientata nel futuro”.

De Lillo si sforza poco di spiegare cosa sia veramente successo al mondo dei suoi personaggi. La catastrofe è al cuore della trama ma non lo sono le sue cause. Quel che DeLillo vuole mostrarci è la reazione umana allo spegnimento delle cose: quel rumore digitale che permea le nostre vite e a cui inconsapevolmente non solo siamo dipendenti, ma anche, in una certa misura, legati ormai culturalmente e persino a livello intellettivo.

Protagonisti del Silenzio sono alcuni intellettuali di classe medio alta che gradualmente si radunano a casa di due amici, dove avrebbero dovuto seguire la partita e dove invece lo schermo del televisore è morto dopo aver trasmesso un ultimo misterioso segnale. Una volta caduto il silenzio digitale (muta la radio, inerti gli smartphone) i presenti, sebbene in compagnia, si isolano in lunghi monologhi, solo in parte filosofici e più spesso sconnessi. Si parlano addosso ignorando gli altri nella stanza, come se d’improvviso non fossero più capaci di comunicare tra loro senza la mediazione di un dispositivo elettronico.

Il silenzio è un capolavoro della non scrittura, delle pause e delle cesure tra le parole, il subconscio implicito che, quando viene meno la base, il terreno comune che ci rende animali sociali che condividono le stesse passioni, non riesce ad innalzarsi come coscienza di massa, in quanto inadatto e superato per gestire i pezzi di un mosaico che compongono il vivere comune.

Quali sono i potere e allo stesso tempo i pericoli della modernità? Senza qualcosa da guardare, da ascoltare, se non digitiamo, chattiamo, creiamo una storia su Instagram, noi non siamo più niente. Sono solo parole nel vuoto, pensieri vagabondi. Silenzio, appunto.

Il nuovo romanzo minimale di DeLillo ha uno stile scarno, mostrando ancora una volta come la scrittura di dell’autore di Underworld sia cambiata, non servono più paragrafi, frasi elaborate e articolate. Solo delle parole, leggere che ci indicano la strada, la nostra strada.
Il modo di scrivere di DeLillo è diventato olografico, per consentirci di scandagliare le ombre della nostra coscienza e di vivere anche noi il vissuto dei suoi personaggi.

Come ha acutamente rilevato Paolo Latini  (tenutario del Blog Americanorum), qui ancora più che in altre sue opere abbiamo personaggi che parlano una lingua peculiare, il DeLilliano, e questo concorre a creare un insieme di dialogo e sequenze probabilmente inconfondibili, quasi al limite della auto-parodia: cultura pop, frasi spezzate, frasi fatte e riflessione sulle stesse, filosofeggiare, calchi e mixaggi di alto e basso.

Proprio in questa estremizzazione di un linguaggio volutamente artefatto, il libro clamorosamente funziona e funzionano spunto e ambientazioni, che impropriamente hanno fatto pensare a un romanzo sulla pandemia e sul lockdown. Più suggestivamente e apocalitticamente si immagina invece una New York dove tutta la tecnologia (tutta!) smette improvvisamente di funzionare, e un insieme di cinque personaggi principali intrappolati (o forse compiutamente liberi) in questo nuovo (provvisorio?) paradigma.

 

Fonte: L’apocalisse di Don DeLillo

Mark Twain e il suo contributo allo sviluppo della letteratura americana contemporanea

Mark Twain precursore della Letteratura Americana Contemporanea vera e propria” a dichiararlo fu il premio Nobel Ernest Hemingway. Suo grande estimatore, l’autore de Il vecchio e il mare, fu colui che più di tutti contribuì alla fama dello scrittore floridano, consigliandolo ai suoi colleghi contemporanei.

Mark Twain pseudonimo attribuitogli in marina, nacque come Samuel Langhorn Clemens in Florida e visse tra l’ottocento e il novecento. Fu tipografo e giornalista, e, solo in seguito scrittore. Twain divenne celebre per aver affrontato nei suoi scritti questioni morali e sociali, mai trattate prima.

La sua grandezza sta nel aver sviluppato temi spinosi con l’utilizzo della satira, suscitando ilarità ma portando il lettore o l’uditore a riflettere sul vero senso dei fatti, accrescendo il proprio io critico. La satira critica valse a Twain la fama e lo consacrò come primo autore interamente di stampo statunitense. Hemingway studiò a fondo le opere celebri di Twain, affermando che tutto ciò che fosse stato scritto prima non avesse racchiuso la vera identità americana. Tra tutte le opere di Twain che possano ben delineare ciò che si intende per letteratura americana moderna e contemporanea, Le avventure di Huckleberry Fin sono quelle che racchiudono la maggior parte delle invettive socio -letterarie che ricorreranno da ora in avanti durante tutto il novecento fino ai nostri giorni. Attingeranno da qui molti dei nomi illustri contemporanei, tra cui Hemingway, Kipling e Salinger. Tutti riporteranno nelle loro opere l’influenza del suddetto romanzo picaresco. I due protagonisti ad esempio ricopriranno un ruolo di primo piano nella letteratura moderna. Con questa duplicità, l’autore espierà il suo pensiero in relazione ai problemi della comunità e la sua personale condizione nella stessa.

Huckleberry e Tom Sawyer sono dunque le due facce dell’autore che li utilizza per descrivere il proprio punto di vista, i propri bisogni partendo da due angolazioni differenti. Egli sente di voler rincorre la libertà a tutti i costi e si batte per essa e per chi la cerca, lontano dalle regole e da quella mentalità chiusa, schematica che si andava a delineare in questi anni in una nazione post-guerra civile. Allo stesso tempo la sua condizione borghese lo lega alla stessa classe e a tutta la gamma di credenze che la caratterizzano.

La critica alla cultura e alla società statunitense cambia, quindi, volto con Twain: infatti mostrare questa duplicità d’ immagine rende le contraddizioni e le incongruenze più facili da afferrare e da comprendere. Le stesse sembrano allontanare l’uomo dalla sua stessa natura di essere umano. Twain nei suoi scritti, tenderà quindi ad esaltare ed a mostrare ogni scena esasperando i comportamenti dei personaggi, suscitando così un riso amaro. Grandi innovazioni dal punto di vista lessicale sono riscontrabili anche nel utilizzo di registri diversi e soprattutto ricorrerà a dizionari principalmente legati alla maggioranza di schiavi neri, esaltando gli errori grammaticali e le cadenze storpiate. Questo espediente compare con Twain per la prima volta in modo così meticoloso tanto che egli stesso sarà spesso accusato dalla critica letteraria di aver utilizzato terminologia denigratoria descrivendo l’uno o l’altro personaggio. Il linguaggio politicamente scorretto sarà tratto distintivo delle opere dell’autore, in seguito, soprattutto nell’affrontare questioni scomode, tanti saranno coloro che proveranno ad imitarlo o trarranno ispirazione.

La satira pungente porterà tanta fama a Mark Twain, sia per i suoi scritti che in giro per il mondo, influenzando tanto anche il panorama europeo. Nei suoi ultimi anni si dedicherà all’orazione pubblica e raccogliendo molti seguaci e estimatori. Il suo impegno sociale e la sua influenza in questioni spinose sono ancora oggi ricordate negli Stati Uniti.

Le Avventure di Huckleberry Fin sono ad oggi opera cardinale nel panorama della letteratura per ragazzi e non mancheranno per tutto il novecento autori che impronteranno le loro opere sul suddetto modello. Tra questi figurano certamente il libro de Il Giovane Holden di Jerome David Salinger, opera celebre del 1951 in cui il protagonista ricorda molto sia Tom Sawyer che Huckleberry Fin: come quest’ultimo egli tenta la fuga tra i boschi verso la libertà. Twain è sicuramente riscontrabile nella serie di fantascienza Star Trek.

Oltre ad aver avuto un peso importante nella letteratura, Twain ha ad oggi grande fama negli Stati Uniti per essere stato punto di riferimento di una società che ambiva a accrescere la sua influenza nel panorama internazionale.

‘Tutto ciò che abbiamo amato’: il romanzo apocalittico di Jim Crace

L’America come la conosciamo non esiste più. Le macchine si sono fermate, la popolazione è stata decimata da una misteriosa epidemia, il terreno contaminato da tossine, e in questo scenario di morte e dolore è cominciata la grande emigrazione: i sopravvissuti si muovono verso est, verso la speranza e la possibilità di un imbarco per l’Europa. Ferrytown è una stazione di transito, che sopravvive proprio su questo incessante, disperato flusso migratorio. Ed è qui che arrivano Franklin Lopez e suo fratello Jackson, pellegrini verso l’oceano. Franklin ha un dolore a un ginocchio e si ferma sulle colline, mentre il fratello scende a Ferrytown per vedere di guadagnare qualcosa. In una casupola sulle colline Franklin incontra una donna, Margaret, febbricitante e isolata da tutti. Insieme i due intraprenderanno il cammino attraverso quest’America distrutta, aiutandosi a vicenda e trovando anche la forza di un amore inaspettato.. Questa la trama del romanzo di Jim Crace, Tutto ciò che abbiamo amato, 2007.

In un futuro non meglio precisato, l’America è ridotta a un campionario di vestigia arrugginite e fatiscenti, le città sono cocci di un’antica umanità che spuntano in un paesaggio da Nuova Frontiera. Due fratelli, Jackson e Franklin, partono a piedi dalla fattoria dove vivono con la madre alla volta della costa, dove si dice salpino navi in grado di attraversare l’oceano dirette in Europa, un vecchio continente misterioso dove a quanto pare non mancano opulenza e ricchezza.

A loro basta fuggire dalle ristrettezze di un’America tornata alla vita rurale, alla fatica di vivere per un minimo di sussistenza. Poco dopo la partenza, però, si separano: Jackson, corpulento e avventuriero, si dirige verso una cittadina che funge da snodo di transito per i numerosi viaggiatori che si arrischiano a percorrere le pericolose strade infestate da banditi spietati. Franklin è costretto a fermarsi perché di costituzione fragile, con una gamba malmessa, e si rifugia in una baita apparentemente abbandonata.

In realtà, la casupola ospita Margaret, una ragazza con la testa rasata per evitare il contagio di un morbo mortale, forse la causa mai rivelata della fine della civiltà per come la conosciamo. La ragazza sopravvive, e lentamente instaura con Franklin un rapporto di fiducia che si trasforma in un sentimento molto profondo, assimilabile all’amore ma anche alla necessità di aiutarsi a vicenda, a suo modo più sincero e puro.

Anche il loro idillio è destinato a essere interrotto. Franklin viene catturato da un gruppo di predoni e tenuto in schiavitù, fino a quando non riesce a fuggire tentando di raggiungere Margaret. La ragazza trova ospitalità in una specie di comune organizzata da monaci – uno strano culto che vieta il possesso di oggetti di metallo, materiale considerato impuro perché retaggio del mondo precedente, votato all’autodistruzione.

Dopo una serie di peripezie, i due riusciranno a ritrovarsi e proseguire il viaggio. Ma siamo sicuri che al di là dell’oceano, in una terra dove si parla una lingua sconosciuta – potrebbe essere francese, oppure si lascia sottinteso che in America non si parli più inglese – la vita sarà migliore? Nonostante il romanzo condivida un’atmosfera post-apocalittica e reminiscenze con La strada di McCarthy, il romanzo di Crace non potrebbe essere più diverso della descrizione di un’umanità dedita al cannibalismo e alla barbarie.

Ha più elementi in comune con La peste scarlatta, splendido racconto di Jack London del 1911 senza il quale forse non esisterebbe nemmeno il celebre libro di McCarthy. Tutto ciò che abbiamo amato (in originale The Pesthouse, “Il lazzaretto”) è un romanzo di esplorazione geografica e sentimentale, privo di violenza e cupezza considerato che a suo modo rientra nel genere “apocalittico”. A fine lettura, rimane un senso di possibilità che si addice più a una storia d’amore che a un resoconto di speranze infrante.

Come ha argutamente scritto Francine Prose recensendo il libro per il New York Times, è leggermente frustrante leggere di un futuro d’inferno provando la dannata sensazione di esserci già stati.

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