“Scrivere, che idea divertente!” di Florence Noiville. Un omaggio a Milan Kundera, il più elusivo di tutti gli scrittori contemporanei

In Italia, Florence Noiville – francese, classe 1961 – è nota per i romanzi. L’ultimo, La cleptomane, è stato tradotto da Garzanti quest’anno. Studiosa dell’opera di Isaac B. Singer, a cui ha dedicato una biografia di successo – edita da Stock nel 2004, subito tradotta da Longanesi – e un “Cahier de l’Herne” (2012), ha appena pubblicato un libro biografico su Milan Kundera, il più elusivo degli scrittori contemporanei. Il libro, Milan Kundera. «Écrire, quelle drôle d’idée!», è stampato da Gallimard, è sembra il più opportuno per celebrare il grande scrittore ceco scomparso ieri a Parigi.

Naturalmente, l’editore enfatizza il tutto – “Mai opera ha detto così tanto su un autore” –, giocando sul paradosso: l’assoluto distacco di Kundera. Il libro, in effetti, è un tentativo di vincere la reticenza di uno degli scrittori più noti del pianeta, recluso, prima, in un maniaco pudore, poi nel male immedicabile, ora nel niente. “Spesso mi dico che sono stata fortunata a conoscere il Milan non più giovane. Nell’ultimo terzo della sua vita. Aveva già fatto voto di silenzio mediatico”, ha detto la Noiville. “Al culmine della maturità e della libertà, Kundera ha preso ad assomigliare sempre più al vecchio di La vita è altrove. Quel vecchio scienziato che osserva in silenzio i giovani ‘chiassosi’”.

Il desiderio di Kundera – arretrare nell’oblio – è diventato destino, vita orbata.

“È sorprendente che la prospettiva di avere un biografo non abbia costretto alcuni a rinunciare alla vita”, scherzava Emil Cioran. La celebra boutade del sommo nichilista rumeno è stata quasi smentita da un altro scrittore dell’Europa centrale, Milan Kundera. Poiché anche lui detesta tutto ciò che comincia con bio – biografo, biografia –, l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere si è sforzato di non avere un’esistenza visibile. Per una ragione semplice. “Nell’istante in cui Kafka attira maggiore attenzione di Joseph K., si annuncia il processo della morte postuma di Kafka”, ha profetizzato in L’arte del romanzo.

Nell’epoca della comunicazione trionfante, del rapido consumo di cultura, questa frase assume tutto il suo significato. Nella mia vita da critico letterario continuo a incontrare “lettori”, giornalisti, a volte anche studiosi che desiderano per lo più farsi una rapida idea di un nuovo autore. Ovviamente, più la vita privata di questo autore è intricata, spigolosa, enigmatica, più sarà considerato “interessante”. Tali “lettori” leggeranno un ritratto dell’autore su una rivista, una recensione piena di lusinghe, qualche citazione, qua e là, certi, così, di aver capito “di cosa si tratta”. Non c’è bisogno di leggere altro – quanto ai libri, pazienza. Questo è ciò che Kundera ha inteso per “processo di una morte annunciata”.

In Cecoslovacchia è esistito un tempo in cui la scrittura letteraria era preziosa, tanto più preziosa perché vietata, passata al vaglio della censura. Era il tempo dei samizdat, questi oggetti del desiderio che si passavano di nascosto, tra coltri di cappotti. Ecco perché Kundera ha continuato a martellare incessantemente quel semplice messaggio: Dimenticatemi. Aprite i miei libri.

Nella storia della letteratura, questa posizione non è unica. Molti scrittori hanno cercato di sparire dietro la propria opera. “È lei che conta, non l’uomo che l’ha scritta”, tuonava il premio Nobel per la letteratura Isaac B. Singer, di origine polacca, che poi chiosava, scherzando: “Quando hai fame, conta soltanto il pane, della vita del fornaio non ti importa nulla”.

Milan Kundera è andato oltre. Dalla metà degli anni Ottanta ha cercato di annientarsi. Nessun discorso, nessuna intervista. Nessuna traccia pubblica della sua “vita reale”. Il tritatutto funziona bene a casa Kundera. Nulla, dopo Milan, deve restare tranne i suoi libri. Il resto – manoscritti incompiuti, lettere private, corrispondenza varia, diari, fotografie – viene sistematicamente distrutto. Dobbiamo “far credere ai posteri che non abbiamo vissuto”. Così ha scritto Flaubert. È ciò che pensa Kundera.

“Vedi, da lì a lì… c’è ancora uno scaffale, ciò che è rimasto… pronto per essere sbriciolato”, mi ha detto Vera, un giorno, la moglie di Kundera. Una pioggia di coriandoli per celebrare l’insignificanza dell’essere. La sua leggerezza?

“Secondo una celebre metafora, il romanziere demolisce la casa della sua vita per costruire, con gli stessi mattoni, un’altra casa: quella del suo romanzo. Da ciò consegue che i biografi disfano ciò che il romanziere ha costruito, ricostruiscono ciò che egli ha disfatto. Il loro lavoro, puramente negativo dal punto di vista dell’arte, non può illuminare né il valore né il senso di un romanzo”.

Ecco il grande malinteso – il primo di una lunga serie – intorno a Milan Kundera. Tendiamo a credere che egli si ostini a separare la vita dall’opera. Ci pare artificiale, a volte artificioso. Perfino sospetto. Vuole dissimulare qualcosa? Quante volte mi ha detto: “È tutto nei miei libri”. Non è una formula. La sua vita si è infusa e confusa nelle sue pagine. Tutto quello che bisogna fare è aggirarsi dentro quell’“altra casa” per ritrovarla. Per trovare lui, o i frammenti del suo io, sparsi negli eroi che gli somigliano. Egli è in ogni stanza. Come tutti i bravi muratori, prepara i mattoni. Quelli che provengono dalla sua casa e quelli che vengono da altrove. È questo edificio a ispirare.

 

Florence Noiville

L’imperfezione dell’amore per trovarne la bellezza. Il best seller L’affaire Casati Stampa di Davide Amante al Bookcity Milano

Di fronte a un pubblico affascinato, nel pieno centro di Milano, dove una volta sorgeva la rinomata clinica privata ‘Città di Milano’ che appunto viene raccontata nelle pagine del suo romanzo, Davide Amante ha introdotto la folle, anticonformista e drammatica storia d’amore fra Anna Fallarino e il Marchese Camillo Casati Stampa.
Molti fra il pubblico avevano la colorata copertina de L’Affaire Casati Stampa, che raffigura un’immagine della bellissima amante del marchese, il cui ritratto richiama vagamente la pop art di Andy Warhol.
Votato da molti come migliore romanzo 2021, campione di vendite in Italia con numeri a cinque zeri a poco più di 8 mesi dalla sua uscita, L’Affaire Casati Stampa è un libro che non lascia indifferenti.
Il romanzo di Amante infatti indaga una storia d’amore che aveva fatto scandalo alla fine degli anni ’60 e si era conclusa tragicamente, tanto da essere definita dai principali rotocalchi dell’epoca come il più grande scandalo italiano. Il marchese Casati Stampa, una delle famiglie più note e ricche della Milano bene (una delle sue ville fu poi venduta a Berlusconi, villa San Martino ad Arcore) si innamora di una bellissima Anna Fallarino, più giovane di lui di 13 anni.
I due intrecceranno un rapporto voyeristico e passionale che si concluderà con un omicidio-suicidio per gelosia. Davide Amante ricostruisce, attraverso le indagini di un magistrato e un commissario, tutti i passi e le vicende di questa coppia eccezionale, in un romanzo dallo stile impeccabile.

Come ha dichiarato l’autore: ‘Vado in cerca dell’animo umano ed è nella disperazione, nella follia, nelle storie più anticonformiste che si sfiora il grande respiro della vita’.

Un romanzo protagonista a Book City Milano 2021, la manifestazione dedicata al libro e alla lettura che quest’anno festeggia i suoi primi dieci anni. In programma circa 1.400 appuntamenti in presenza in oltre 260 sedi accanto a interventi online.
Davide Amante è nato a Milano nel 1970. Oltre a L’Affaire Casati Stampa (2021) ha pubblicato Il Guardiano delle Stelle – il viaggio di Anais insieme al vento (2019) tradotto in sei paesi, Il Dossier Wallenberg (2016) di cui l’edizione americana sta per diventare un film, Altair (2014) il romanzo di mare e di viaggio più venduto in Italia.
I suoi libri sono tradotti in più di sei paesi.
L’Affaire Casati Stampa
pagine 140
ISBN 9788894315646
Link per acquistare: https://www.amazon.it/dp/8894315649
Sito ufficiale dell’autore: https://www.davideamante.com
Contatti Stampa: info@dmabooks.eu

‘Crossroads’, il nuovo (e già letto) romanzo di Franzen

Di Jonathan Franzen (Western Springs, 1959), considerato, insieme a Colson Whitehead, Dave Eggers, Nathan Englander e Jonathan Safran Foer, fra gli esponenti di punta americani contemporanei, è appena uscito Crossroads, romanzo dal taglio moderno, dall’approccio naturalista che ha come sfondo il Midwest americano dove si dipanano le vicende e la dissoluzione di una famiglia.
Sebbene Franzen prenda una certa distanza dagli altri autori citati, quantomeno una distanza anagrafica considerato che è più anziano di loro di una decina d’anni o poco più, si direbbe che anche egli appartenga al cosiddetto movimento del nuovo romanzo americano. Eppure non tutto ciò che brilla è oro e nonostante Franzen sia noto per un eccellente marketing che gli ha permesso di raggiungere numeri considerevoli, la realtà sembrerebbe essere che egli con i suoi ultimi i più grandi successi cerchi di ripetere il grandioso affresco di Pastorale Americana (Philip Roth) senza tuttavia averne la forza stilistica né la visione profonda.
Crossroads si allinea ai precedenti romanzi di Franzen, primo libro di una recentemente annunciata trilogia, interessante ma ancora una volta incapace di raggiungere i grandi romanzieri americani cui aspira.
Per gli appassionati di Franzen – sono tanti come però sono tanti anche i detrattori di questo autore – il tema non è nuovo, in qualche modo presente in maniera sempre più sostanziale nei suoi romanzi più importanti Le Correzioni, Libertà, Purity. Ma questa volta il nuovo romanzo dell’autore americano apre dichiaratamente una trilogia, denominata “A Key to All Mythologies” che si muove attraverso le generazioni.
Gli Hildebrandt, i protagonisti borghesi di un sobborgo fittizio di Chicago, sono gli esponenti e i protagonisti di una famiglia e partecipano alla vita di una congregazione. Se da un lato il pastore Russell e sua moglie Marion devono affrontare i vari aspetti di una crisi coniugale, d’altra parte i fatti si svolgono in una ben più ampia crisi spirituale che coinvolge gli Stati Uniti agli inizi degli anni Settanta. I tre figli della coppia dovranno così affrontare le inevitabili contraddizioni fra una famiglia devota, immersa nella dimensione religiosa e un ambiente sempre più libertino e aperto alla sperimentazione come quello della fine degli anni Sessanta.
In Franzen si trova così una certa introspezione e il tentativo di affrescare un’epoca. La modalità narrativa, già sperimentata dallo scrittore americano in romanzi come Le Correzioni e i temi affrontati, certamente possono attrarre il grande pubblico seppure più che affrescare un’epoca tendono a dipingere vicende della provincia e non americana, quasi si trattasse di romanzi di genere, feuilletons, per intenderci, capaci di incuriosire ma lontani dal grande respire di romanzieri più importanti.
Resta il fatto che il romanzo ha alle spalle la grande macchina promozionale americana, capace di portare alla ribalta i propri scrittori come forse nessun altro sa fare, così capace da passare a volte in secondo piano la differenza con grandi scrittori come Philip Roth per citarne uno, la cui portata letteraria è chiaramente diversa da quella di Franzen. Tuttavia bisogna riconoscere al mondo anglosassone e agli americani in particolare un coraggio editoriale che ad altri paesi, Italia in prima fila, manca sebbene quest’ultima disponga di grandi scrittori di primo ordine come Davide Amante.
“Il fatto di avere una forte vena populista nel mio personaggio aiuta, e quindi non ho paura della suspense. Sono antichi piaceri della narrazione, e perché non approfittarne, soprattutto in un’epoca in cui il romanzo è in ritiro e la gente cerca ragioni per non dover leggere un libro”;
ha dichiarato una volta l’autore. Il New York Times dice di lui che si è reso conto con riluttanza, che la TV era dove si dirige l’attenzione delle persone ora, che i grandi momenti culturali coinvolgono più spesso gli schermi televisivi che i libri, il che, secondo lui, è il modo in cui funziona l’evoluzione.
Insomma un pensiero che tende ad adattarsi al mondo più che cercare di cambiare il mondo, una diplomazia dello scrittore dalla noncuranza di molti grandi scrittori d’altri tempi come Philip Roth appunto o di questa epoca come i già citati Davide Amante o Colson Whitehead. Una noncuranza e una ostinazione che alla fine l’evoluzione la fanno davvero ma attraverso la parola scritta e portando nuova linfa agli schermi grandi e piccoli piuttosto che farsi trasportare da essi adattandosi alle loro esigenze.
La newyorkese Susan Golomb, agente di Franzen, è garanzia di relazioni e marketing elevato. Se poi si aggiunge che Franzen mantiene un certo tradizionale riserbo circa la propria posizione di scrittore, l’interpretazione del suo successo inevitabilmente si complica. Grande scrittore o grande artista dell’adattamento al mercato e del marketing?
Vende copie, questo è certo e seppure i suoi numeri sono in calo già dai tempi di Purity, persiste intorno a Franzen un’aura di mistero o forse una particolare capacità di creare un equilibrio unico nel suo genere.
Crossroads è un titolo particolarmente azzeccato per lui ma il vero bivio è quello di fronte al quale si trovano i suoi lettori, combattuti fra una letteratura prevedibile e verbosa seppur di buon livello l’imprevedibilità e il linguaggio innovativo che contraddistinguono i grandi scrittori contemporanei e di tutte le epoche.
Jonathan Franzen ha scritto sei romanzi (La ventisettesima città, Forte movimento, Le correzioni, Libertà, Purity e Crossroads), quattro raccolte di saggi (Come stare soli, Più lontano ancora, La fine della fine della terra e E se smettessimo di fingere?), e l’autobiografia Zona disagio. Ha annotato un compendio di saggi di Karl Kraus nel volume Il progetto Kraus. Inoltre ha pubblicato racconti e saggi su «The New Yorker» e su «Harper»

‘Yoga’: il male di vivere secondo Emmanuel Carrère in un romanzo che non parla, per fortuna, di yoga

Avrebbe dovuto intitolarlo Tai chi, ma si sa, lo yoga attira molto di più, è più famoso. L’idea di Carrère, in effetti, era proprio quella di scrivere un libro sullo yoga, anzi, “un libro arguto e accattivante sullo yoga”, che si sarebbe dovuto intitolare “L’espirazione”. Perché questa scelta?

Perché Carrère pratica da trent’anni, tra alti e bassi, nonostante lui stesso si definisca un “meditante della domenica”, e perché lo yoga vende e tira di brutto.

Infatti questo libro sta vendendo molto bene, tutti ne parlano, Carrère può esserne contento, lui e il suo ego enorme (se lo dice da solo, da sempre, ne è consapevole) anche se soffre per non essere famoso e acclamato come Michel Houellebecq, che infatti dice spudoratamente d’invidiare.

Yoga: sinossi

La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi.

Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II».

Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga e di come lo si pratica, e di un seminario di meditazione Vipassana che non era consentito abbandonare, e che lui abbandona senza esitazioni dopo aver appreso la morte di un amico nell’attentato a «Charlie Hebdo».

Ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore.

Solo una questione di marketing?

Yoga di Carrère si chiama così solo per una questione di marketing, e su questo ci sono pochi dubbi; è un libro che avrebbe dovuto parlare di yoga ma che non lo fa, e che quando sembra farlo, lo fa per i fanatici dello yoga, in modo superficiale.

Carrère, dice di meditare, fare yoga e tai chi da trent’anni, ma certamente conosce poco di questa pratica, cosa che non per forza deve andare a suo sfavore e infatti  liquida la mindfulness con quattro parole non rendendosi neanche conto di coltivare proprio la mindfulness, e non di meditare o praticare yoga in modo “ortodosso”.

Carrère non ne sa molto, e quando accenna due parole sulla mindfulness fa pure errori, scrivendo che il suo fondatore è uno psichiatra, cosa che non è, perché Jon Kabat-Zinn è un biologo. Poi insulta pure un certo Ram Dass“apostolo dell’LSD, che in età avanzata è diventato un vecchio guru della mindfulness”, definendolo uno yogi-barbuto-vegetariano-indossatore di sandali-babbeo-imbecille-pericoloso, che scrive libri brutti, stupidi e inutili, quei libri di autoaiuto che vendono tanto.

Insomma l’impressione è che lo scrittore francese si faccia anche beffe delle maeditazione, vantandosi di non saperne fino in fondo. E allora? Forse deve aver capito che per curare certi male meditare non serve a nulla, e che l’amore, l’erotismo, le cure farmacologiche, possano essere più efficaci. Essere ignoranti in materia di yoga non è un crimine, come una certa dose di stravaganza. Come se Carrère fosse il primo ad esercitarla, sebbene essere più informati non guasta mai.

Un ‘autobiografia riuscita a metà

Il risultato è un’autobiografia mal riuscita. E tutto perché Carrère considera -giustamente- i suoi pensieri troppo importanti, intelligenti, fondamentali, non capendo che per l’Oriente i pensieri vanno abbandonati, sono soltanto illusione, non hanno nessun peso, nessuna importanza, allontanano dalla realtà ultima, confondono, sono ignoranza, così come il desiderio, l’attaccamento.

Per Carrère la meditazione è niente più che “l’ennesimo giochino narcisistico. E questo mi rattrista”. E se non avesse torto? E se alcuni occidentali hanno semplicemente un complesso di inferiorità nei confronti degli orientali da questo punto di vista?

Lo yoga non è qualcosa che serve per mantenersi in forma, una ginnastica, e Carrère sembra averlo capito, ma anche lui pratica comunque per tenersi in forma e soprattutto per provare a gestire la propria mente. E cosa ci sarebbe in fondo di male in questo:

“Trovo che sia già molto conquistarsi con la meditazione un po’ di stabilità psichica e di profondità strategica”. 

D’altronde non è tanto utile e produttivo entrare troppo in sè stessi: meditare è un atto egoistico. Mira a concentrarsi in un vuoto interiore, guardando sè stessi, sulla propria presunta forza interiore lasciando gli altri, l’amore (come ci dice lo scrittore francese) e il trascendente fuori dalla porta. Il modo migliore invece è proprio farlo entrare invece di perseguire come ossessi questa moda che sta spopolando.

 

Fonte Dejanira Bada

Quando Bukowski in una sua poesia diceva: ‘l’uomo di oggi è merce deperibile’

Bukowski dissacra il sogno americano. La sua è una critica feroce all’America benestante, puritana, conservatrice; una presa di posizione destabilizzante nei confronti dell’America del consumismo e del conformismo. Ce lo dice senza giri di parole in una sua poesia: l’uomo di oggi è merce deperibile.

Lo scrittore americano è un ribelle solitario, che svela il grottesco della società a stelle e strisce; è per questa ragione che in America è rimasto sempre underground ed invece in Francia ed in Germania ha avuto grande successo. Bukowski svela gli scheletri dell’armadio della rispettabilità borghese. I personaggi dei suoi libri sono assurdi e la loro grama esistenza può apparire talvolta al lettore insensata e vuota.

Troviamo, quando va bene, mariti ubriachi e mogli brontolone affacciate alla ringhiera, affittacamere spilorce e maleodoranti. E tutti indistintamente che cercano di ammazzare il tempo, mentre aspettano di morire. Bukowski è troppo vecchio per appartenere alla beat generation e troppo originale per classificarlo in qualsiasi altra scuola poetica.

Per alcuni versi potremmo definire lo scrittore erede di Fante o almeno potremmo dire che ha un debito nei suoi confronti. Infatti lui stesso ha dichiarato a riguardo di Fante: Ecco, finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità”.

Bukowski dice no all’impegno politico, no all’establishment letterario: è un uomo a mani vuote, senza alcuna certezza né ideologia. Per quanto riguarda ogni presa di posizione politica, Bukowski ci ricorda che gli uomini non sono mai forti come le loro idee. L’unica rivoluzione che forse potrebbe fare è quella dei barboni, che lui immagina nel suo racconto “La vendetta dei dannati” in “Niente canzoni d’amore”.

Inoltre in un suo libro di poesie “Si prega di allegare 10 dollari per ogni poesia inviata” scrive a proposito dell’elite culturale: “Dire che sono un poeta mi mette in compagnia di grafomani matti e rincoglioniti che si mascherano da grandi saggi”.

L’originalità delle sue poesie sta nel fatto che non c’è distanza tra l’espressione poetica e la lingua ordinaria americana. Lo stile colloquiale d’intonazione bassa con cui si rivolge al lettore è rassicurante, però quando meno te lo aspetti ecco che Bukowski colpisce con la sua sicura fulmineità. E’ singolare il suo modo di evocare la condizione umana: quello di Bukowski evoca una storia d’uomo disilluso che, assunta liricamente, desta risonanze in tutti ed esprime efficacemente il malessere di un’epoca. Un altro aspetto interessante è che troviamo uomini in carne ed ossa, non cifre e segni.

La sua non è una poesia intellettualistica. Kerouac aveva scritto su un rotolo di carta telescrivente “On the road”. Vi narrava con un ritmo febbrile le peripezie di due giovani che percorrevano gli Stati Uniti da costa a costa. Ma in Kerouac c’era il desiderio di avventura, la voglia di esplorare il mondo e di effettuare un viaggio interiore tra Jazz, droghe, alcol. In Bukowski prevale invece una mistura sapiente di disincanto, cinismo, autoironia.

In W. Burroughs ci imbattiamo in scenari onirici e psichedelici, che mettono a dura prova l’immagine prefabbricata dell’America. Troviamo le sue esperienze da tossicomane, gli allucinogeni, gli spacciatori, gli alcolizzati ed una moltitudine di trasgressori e trasgressioni. Ma in Burroughs è rintracciabile anche la paranoia, il tema ricorrente della cospirazione, la presenza più o meno discreta del “Demoralizzatore totale”.

In Bukowski invece no. Egli non perde mai il contatto con la realtà. Ci sorprende per il suo sguardo diretto alle cose quotidiane, per la sua immediatezza nel coglierne i tratti essenziali. Nei suoi testi non ci sono né allusioni, né allegorie. Ogni suo libro nel suo insieme è così chiaro, che si può abbracciarlo tutto con un solo pensiero.

Nei suoi libri troviamo innanzitutto le sue più grandi passioni: la musica classica e la letteratura. Gli ambienti descritti nei suoi racconti e nelle sue poesie sono il bar, la strada, l’ospedale, l’ippodromo, la squallida stanza d’albergo, il manicomio, la bettola in cui è costretto a vivere. L’aspetto che più impressiona di Bukowski è l’occhio mirifico, la non comune capacità di cogliere il dettaglio di ogni ambiente e di ogni personaggio. Le sue storie poi spiazzano, perché sono vere eppure all’apparenza inverosimili.

Un’altra qualità è la battuta sferzante, l’aforisma tagliente, che spesso al momento giusto riesce a riassumere ed allo stesso tempo a sdrammatizzare la situazione paradossale in cui si trovano i personaggi. Ma questo non è ancora tutto. Il personaggio Bukowski entra prepotentemente in ogni suo racconto con le sue contraddizioni ed i suoi vizi. Un personaggio dedito agli eccessi: all’alcool, all’erotismo sfrenato e sfacciato, talvolta alle risse.

Insomma individualismo e boheme, o per dirla in termini italiani genio e sregolatezza. Lo scrittore usa spesso a questo proposito il suo alter ego Henry Chinaski, che come lui ha lavorato alle poste, il quale a tratti si comporta come un ragazzino a tratti rivela una saggezza illuminante. E’ un uomo conflittuale, mai pienamente risolto, le cui storie senza uscita alimentano continuamente il suo disagio esistenziale.

Bukowski dimostra il talento di fare della propria esperienza personale motivo e pretesto di condizioni più universali. Un tema che più volte Bukowski mette a fuoco è il rapporto difficile con le donne: sembra misogino e maschilista, eppure ha bisogno di relazioni a lungo termine con le donne: relazioni che non riesce a far durare a lungo per i suoi scatti d’ira e per i suoi umori altalenanti.

Nelle sue vicissitudini sentimentali regnano incontrastate incomunicabilità ed estraneità reciproca. La donna non è mai idealizzata, contemplata. Non è mai fatta simbolo di niente. Eppure nella sua vita sarà proprio una sua donna, Linda Lee a mettere freno agli impulsi distruttivi dello scrittore. Gli farà ridurre l’assunzione di alcol, lo metterà a dieta, lo incoraggerà ad andare tutti i giorni alle corse dei cavalli per distrarsi e a non alzarsi mai prima di mezzogiorno. Bukowski mette a nudo i difetti delle donne con un certo sarcasmo. Però allo stesso tempo mette a nudo anche i suoi difetti ed i suoi limiti di uomo. E questa sincerità disarmante da sola è rara e preziosa tra tutti gli scrittori esistiti ed esistenti.

 

Di Davide Morelli

Addio a Carlos Ruiz Zafón: le 10 più belle frasi del capolavoro ‘L’Ombra del vento’

Carlos Ruiz Zafón è stato un scrittore catalano. Nato a Barcellona nel 1964 si è spento ieri a Los Angeles all’età di 55anni.

Già sceneggiatore, autore di libri per ragazzi, copywriter e direttore creativo lo scrittore si rimette nuovamente in gioco nel 2001. Questa volta nel mondo della narrativa degli adulti, esordendo con il romanzo L’ombra del vento, intriso di gotico, mistero ed intrigo. Il libro scala i vertici delle classifiche letterarie, diventando ben presto un best seller.

Il successo  consacra Carlos Ruiz Zafón nel mondo dell’editoria e nel cuore di molti lettori. Autore spagnolo più letto dopo Cervantes, Zafón, attraverso artifici narrativi catapulta il lettore nel magico e ammaliante mondo dei libri e della letteratura. Ed è proprio questa la sua più grande eredità.

L’ombra del vento ha venduto oltre 15mila copie in tutto il mondo, più di un milione solo in Italia. Da qui nasce è nata una quadrilogia intitolata Il Cimitero dei libri dimenticati, che dopo L’ombra del vento è proseguita con Il gioco dell’angelo (2008), Il prigioniero del cielo (2012), concludendosi con Il labirinto degli spiriti (2016), tutti editi da Mondadori e tradotti da Bruno Arpaia.

Una mattina il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, nel cuore della città vecchia di Barcellona al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo in cui migliaia di libri di cui il tempo ha cancellato il ricordo, vengono sottratti all’oblio. Daniel viene attratto dalla copertina di un libro intitolato L’ombra del vento di Julian Carax, un autore sconosciuto. Da quel momento comincia ad appassionarsi sempre di più alla storia. Il ragazzo viene catturato dalla storia e vuole assolutamente avere maggiori notizie sull’autore. Comincia ad indagare dapprima in biblioteca e poi in maniera più profonda attraverso viaggi. Le frenetiche ricerche condurranno il protagonista in atmosfere misteriose ed intrigati labirinti. La vita di Daniel e quella del protagonista del suo libro si intrecciano irrimediabilmente portando a galla numerosi parallelismi. La narrazione si snoda in una Barcellona, ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e al contempo quella cupa del dopoguerra.

Attraverso l’espediente narrativo, la trama mescola fantasy, realismo ed elementi del giallo. Un romanzo storico, una tragedia d’amore che ricorda il feuilleton ottocentesco sapientemente modernizzare da Zafón.

Un caso editoriale che ha proclamato Carlos Ruiz Zafón una delle voci più significative della narrativa internazionale, destinato a stregare chiunque intercetti le sue pagine. Un romanzo in cui i bagliori di un passato angosciante si riflettono sul presente del giovane protagonista, in una Barcellona dalla duplice identità: quella ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e quella cupa del dopoguerra.

 

1 “Mi balenò in mente il pensiero che dietro ogni copertina si celasse un universo da esplorare e che, fuori di lì, la gente sprecasse il tempo ascoltando partite di calcio e sceneggiati alla radio, paga della propria mediocrità” 

2 “Quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell’oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno”

3 “Ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza”

4 “Ignoravo il piacere che può dare la parola scritta, il piacere di penetrare nei segreti dell’anima, di abbandonarsi all’immaginazione, alla bellezza e al mistero dell’invenzione letteraria” .

 5 “Quel libro mi ha insegnato che la lettura può farmi vivere con maggiore intensità, che può restituirmi la vista. Ecco perché un romanzo considerato insignificante dai più ha cambiato la mia vita” .

6 “La malvagità presuppone un certo spessore morale, forza di volontà e intelligenza. L’idiota invece non si sofferma a ragionare, obbedisce all’istinto, come un animale nella stalla, convinto di agire in nome del bene e di avere sempre ragione. Si sente orgoglioso in quanto può rompere le palle, con licenza parlando, a tutti coloro che considera diversi, per il colore della pelle, perché hanno altre opinioni, perché parlano un’altra lingua, perché non sono nati nel suo paese o, come nel caso di don Federico, perché non approva il loro modo di divertirsi. Nel mondo c’è bisogno di più gente cattiva e di meno rimbambiti”. 

7 “In genere il destino si apposta dietro l’angolo, come un borsaiolo, una prostituta o un venditore di biglietti della lotteria, le sue incarnazioni più frequenti. Ma non fa mai visita a domicilio. Bisogna andare a cercarlo” .

8 “Nulla succede per caso, non credi? Tutto, in fondo, è governato da un’intelligenza oscura. Il tutto fa parte di qualcosa che non riusciamo a intendere, ma che ci possiede” .

9 “Non volevo abbandonare la magia di quella storia né, per il momento, dire addio ai suoi protagonisti. Un giorno sentii dire a un cliente della libreria che poche cose impressionano un lettore quanto il primo libro capace di toccargli il cuore. L’eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale – non importa quanti altri libri leggeremo, quante cose apprenderemo o dimenticheremo – prima o poi faremo ritorno”.

9 “La vita è breve, soprattutto la parte migliore” . 

 

 

‘Chicche di riso’, l’umorismo di Alessandro Pagani

Chicche di riso dello scrittore e musicista fiorentino Alessandro Pagani (editore “96, Rue de la Fontaine”) è una raccolta di 500 battute e/o freddure tra satira e comicità, tra umorismo e circostanze grottesche, in frasi, neo aforismi e brevi dialoghi, tutti da scoprire.

Con questo nuovo scritto riguardante il mondo della risata, l’autore ha voluto di cogliere i momenti di ‘imbarazzo’ che possono scaturire dall’ambiguità delle parole di tutti i giorni, in quelle situazioni paradossali che possono sembrare banali, ma che a volte non lo sono. Un modo semplice, ma non semplicistico, per non prendersi troppo sul serio.
Al termine del libro, come una sorta di omaggio al lettore, un breve racconto dal titolo Piccolo racconto onirico.

Come recita la prefazione scritta da Cristiano Militello (toscano come l’autore del libro), in “Chicche di riso” Alessandro Pagani, si mette nel solco dei Bartezzaghi e dei Campanile, passando per Woody Allen (la numero 499 avrebbe potuto scriverla tranquillamente lui). L’autore ci regala o, meglio, ci fa pagare il giusto, una valanga di freddure con predilezione per il calembour, anzi, ad esser precisi, per i metaplasmi, le metatassi e i metasememi.

La dimensione schizofrenica della realtà ci fa spesso dimenticare che esiste un luogo parallelo al tangibile, dentro una visione diversa delle cose, in una giustapposizione solo apparentemente incongrua tra ciò che è, quello che sembra e il fantastico opposto: il mondo surreale. Attorno al sottile confine fra oggettività e prospettive meno logiche, questa sfera è il territorio inconsueto dove inoltrarsi e incontrarsi per vedere il mondo da un punto di vista difforme, al fine di esorcizzarne gli effetti (e gli affetti) talvolta troppo gravosi per dominarne stereotipi ed eccessiva sacralità. Attraverso l’ironia, la satira, sarcasmo e ‘ingannevoli’ nonsense, il surreale sovverte ogni aspettativa sistematica andando oltre il raziocinio e la dialettica, servendosi dell’assurdo per innescare provocazioni, allusioni e paradossi più o meno espliciti, che oltrepassano l’ordinarietà. Le cinquecento frasi che seguono, oltre a sfatare luoghi comuni, personaggi reali e dell’immaginario collettivo, tentano di ridicolizzare la consuetudine sociale della monotonia quotidiana attraverso l’uso delle parole e con l’aiuto di situazioni umoristiche che tutti, almeno una volta nella vita, da protagonisti o spettatori, potremmo affrontare.

Chicche d riso è un libro leggero e divertente dedicato soprattutto a chi ha voglia di non prendersi sempre sul serio, chi vuole irridere sui paradossi e contraddizioni della nostra epoca, che però non manca di riflessioni intelligenti e acute sulla vita e sui modi di approcciare ad essa.

‘Il guardiano delle stelle’: il piccolo principe di oggi di Davide Amante

Ci sono libri che vi intrattengono per il tempo richiesto a leggerli, vi sono libri che raccontano della vostra generazione e della vostra epoca, poi vi sono libri – pochi – che vanno oltre il tempo. Il Guardiano delle Stelle (DMA Books), di Davide Amante è uno di questi.

Una favola straordinaria, semplice e incredibilmente profonda allo stesso tempo, ci guida alla comprensione degli aspetti fondamentali della vita. Il viaggio di una bambina di 10 anni, di nome Anais, verso l’altro lato di un’isola è, in effetti, un viaggio attraverso la vita. Una favola di grande interesse per bambini e forse più ancora per adulti, ma certo per chi sia di maggior interesse, bambini o adulti, è ancora da stabilirsi.”

Davide Amante è un autore con all’attivo 3 romanzi pubblicati, di cui uno di essi, ‘The Wallenberg Dossier’ (‘Punto di fuga Wallenberg‘), su cui si sta producendo un film. Ha scritto sceneggiature in lingua inglese per il cinema.
Ha collaborato con il Politecnico di Milano, su invito del Dipartimento di Architettura, insegnando agli studenti l’interpretazione e la trasposizione dell’opera letteraria negli allestimenti scenici teatrali e cinematografici.

Il Guardiano delle Stelle – Il Viaggio di Anais insieme al Vento è stato pubblicato ai primi del 2019. La favola-romanzo di 75 pagine, con una dozzina di illustrazioni originali a matita, è la storia di una bambina di 10 anni e del suo viaggio verso ‘l’altro lato’ di una piccola isola. L’autore ha scritto originariamente il libro per le sue due figlie piccole nel 2018 ma è diventato subito chiaro che la storia era di una categoria a parte.

La casa editrice si è assicurata il tutto esaurito della prima edizione, in italiano, francese e inglese. Il libro narra la storia della piccola Anais di 10 anni, una bambina che vive in una grande città e si sente sola. Ogni estate la bambina si reca su un’isola per incontrarvi il nonno, il guardiano del faro. Una estate in particolare una burrasca giunge sull’isola e il vento soffia tanto forte che Anais, preoccupata, si volge verso la linea dell’orizzonte.

La bambina scopre che la burrasca è così intensa da rimuovere perfino il colore blu dal cielo, lasciandolo tutto trasparente. Allora, per la prima volta, Anais scopre l’altro lato delle cose e qui comincia il suo viaggio verso l’altro lato dell’isola. Accompagnata dal vento, da un lupo selvatico e dalla sua speciale relazione con la natura, Anais scoprirà la bellezza del mondo e della vita. Il suo viaggio la condurrà a scoprire il significato della vita, delle proprie emozioni e dell’amore.

Il libro è disponibile su Amazon in tre lingue. Esso è adatto per bambini a partire dagli 8 anni di età e per gli adulti. Il libro è inoltre stato selezionato come esempio ideale per la Dialogic Reading.

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