Apocalisse e pittura: L’insediamento del Maligno delle Fiandre

Fine del quindicesimo secolo: mentre in Italia, sotto il segno di Leonardo da Vinci, la pittura è tutt’una profusione di rappresentazioni di annunciazioni, apoteosi e scene sacre idealizzate secondo un’umanistica fiducia nell’uomo e nella forma, nelle Fiandre, invece, s’insinua il Maligno. Hieronymous Bosch e il suo erede artistico Brueghel il Vecchio prendono di certo le mosse da un contesto spazio-culturale e forse anche storico ben diverso, poiché nelle terre della Controriforma si è spiritualmente ancora nel Medioevo, in un tardo Medioevo che negli animi viene vissuto come l’ultimo tempo della storia. Niente prelude ad un Rinascimento, inteso nel senso di un rinnovamento dell’uomo e della fede; tutt’al più si prefigura nelle città anseatiche lo sviluppo di un nuovo modello economico, quello capitalista, che viene avvertito dall’artista come l’ultimo spasmo di un mondo che ormai ha intrapreso la strada della distruzione.
Nella Salita al Calvario, le figure intente a beffarsi del dolore di Cristo e a complottare sadicamente fra di loro portano gli abiti dei ceti più potenti dell’epoca di Bosch: oltre a un cavaliere e ad un frate, guardiani dell’ordine tradizionale ormai sprofondati in una completa abiettezza da sottouomini, si possono identificare anche dei mercanti e dei borghesi. Tempo di transizione quindi, ma di transizione verso il peggio, e, probabilmente, dopo che il Nazareno sarà stato definitivamente liquidato, verso il nulla. Diverso il periodo, diversa la crisi, ma identico è il sentimento della fine che si ravvisa nel dipinto I pilastri della società di George Grosz. La prima guerra mondiale si è conclusa e in una Germania sanguinante e indebitata fanno il loro gioco gli untori della revanche nazionale, supportati dalla grande industria. Questa volta le élite che prosperano come un cancro sulla decadenza di tutta la società vengono simboleggiate dal borghese militarista imbevuto di una prussiana smania di conquista, dal giornalista ipocrita che sparge odio, dal politicante nazionalista, dall’ecclesiasta. Dietro di loro, un ufficiale con la spada insanguinata passa tra i palazzi in fiamme. La caricatura portata all’estremo è ciò che in entrambi i quadri contribuisce alla sintesi di realtà e allucinazione, è ciò che crea quel malessere d’un immagine statica dentro la quale circola e alita un vortice nero che sembra indurirla e spaccarla oppure scioglierla.

Il paragone tra millenarismi pitturali non finisce qui. Nel Trittico del Giudizio di Bruges, e nell’anta destra del Trittico del Carro del Fieno, dei gruppi di demoni e di contorte chimere che si dilettano nello squartare i corpi dei peccatori pullulano in tutto il quadro come a volerlo invadere, mentre nel Trittico della guerra di Otto Dix (1929-1932) un sopravvissuto con una maschera antigas si aggira tra i fumi e tra masse di carne sciolta e radiottiva. Tutto ciò in una cornice infernale, fatta di case, torri e città in fiamme. Non deve sorprendere che tali visioni apocalittiche siano sorte in dei contesti “in cui tutte le cornici della vita normale” sembrano “saltare definitivamente” (Al culmine della disperazione, Cioran).

Tutte le norme e gli ideali correnti vanno in malora, e con essi la struttura del mondo stesso sembra prossima al crollo: difficile separare i tre piani di disperazione individuale, collettiva, e cosmica, che si fondono nei quadri. Un solo evento potrebbe stravolgere l’esistenza marcescente ridotta alla cinica frenesia onanistica, aspirante alla dissoluzione nella consumazione dell’istante. Tale evento è l’intervento supremo, più terribile della vita stessa, che l’annienti o la rimodelli. Per un uomo del tardo medioevo o per un contemporaneo disilluso, niente come il pensiero dell’Apocalisse può canalizzare le energie mistiche e gli slanci antisociali. Solamente un’apocalisse può mettere fine al tempo vissuto come tortura e lasciar sognare d’una vita al di fuori di esso (per gli amanti del regno dei cieli), o dentro un chaos assurdo dove esso non si raffreddi mai.

 

L’intellettuale dissidente

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