‘Ananke’ di Angela Greco: quando la poesia codifica il mondo tra libertà e necessità

Di sicuro, oggi come oggi, nella poesia contemporanea italiana “le mappe non sono più possibili”, come ha scritto Giulio Ferroni. Inoltre forse oggi è improbabile il rapporto tra impegno e poesia, tra religione e poesia. Tuttavia si può affermare che è saldo il legame tra filosofia e poesia.

Sanguineti sosteneva comunque che la poesia fosse uno sguardo vergine sul mondo. Quindi sarebbe l’animo umano a fare poetico il mondo. Potremmo però anche pensare che la poesia si trovi sia nella mente che nella realtà, oppure che nasca da una interazione tra le due. Se consideriamo la poesia come mimesi allora il poetico sta nel mondo. Se consideriamo la poesia come rivelazione allora il merito sta tutto nell’artista o in Dio. Se consideriamo la poesia come trasfigurazione o come insieme di “corrispondenze” (come le intendeva Baudelaire, che creavano perciò “una foresta di simboli) allora il poetico sta sia nel mondo che nell’io.

 

Angela Greco: la poesia codifica il mondo

 

In tal senso la poetessa Angela Greco non solo sa cercare la poesia in ogni angolo di mondo, ma sa anche codificare poeticamente il mondo. Sa riflettere profondamente sul mondo oltre a filtrare le voci e le suggestioni dei grandi poeti. Questo è ciò che conta e non è affatto poco. Essere poeti deve quindi intendersi se non come un lavoro (visto che pochissimi riescono a guadagnare qualcosa con i versi.

Un tempo si diceva “ut pictura poesis”, ma oggi la pittura, a differenza della poesia, riesce ad essere ancora remunerativa) quantomeno come un continuo ed ininterrotto lavorio: essere sempre in ascolto, scegliere parole, revisionare tutto, accordare il tempo della vita a quello della poesia.

La nuova raccolta di Angela Greco si intitola Ananke, che significa in greco “forza del destino”, ma toglietevi dalla testa che sia fatalista: piuttosto pone continuamente l’accento sull’eterna lotta tra libertà e necessità. Questo libro è edito da Giuliano Ladolfi editore, che, come sanno addetti ai lavori ed appassionati di poesia, è selettivo e premia la qualità.

Come mette ben in evidenza nella bella prefazione il poeta Fabrizio Bregoli, la poesia della Greco deve intendersi come testimonianza del nostro tempo, della nostra epoca, che però non cade mai nel “cronachismo”, che non indica mai col dito e né si volge al tragico o addirittura all’apocalittico, dato che l’atmosfera dell’opera è sempre rarefatta.

Il pensiero poetante

Angela Greco si dimostra una poetessa significativa nel panorama letterario e che questa opera è segno inequivocabile della maturità raggiunta. L’autrice ha la disposizione d’animo, l’educazione al gusto e la tecnica per tradurre le occasioni, che la vita le dà, in poesia autentica.

È una poesia, contrassegnata in parte dallo stile colloquiale, che al contempo è espressione del proprio vissuto (interrogandosi su mutamento ed identità) senza cadere nell’egocentrismo (i componimenti non sono confessionali, in essi non prevale il dato egoico) ed è “pensiero poetante”: una poesia che quindi affronta i rovelli esistenziali e metafisici e cerca sempre il codice di accesso all’essere, senza mai essere consolatoria. Poesia in questo senso deve intendersi anche come psichismo tra la poetessa e gli affetti più cari.

L’autrice riesce sempre a non essere né prolissa, né troppo lineare, a rientrare a pieno diritto nei crismi della letterarietà. Riesce sempre a limare, a non perdersi in intellettualismi e ad evitare le semplificazioni. Il suo linguaggio è sempre diretto. Le sue cadenze sono intellegibili. Non gioca mai con i termini, non usa circonlocuzioni, che finirebbero per mistificare la realtà. Le sue parole sono essenziali come in “Satura”, ma a differenza dell’ultimo Montale la sua epigrammicità non è mai totalmente negativa, pessimista.

Come ha scritto Andrea Afribo da “Ora serrata retinae” di Magrelli in poesia “non è più vietato farsi capire”. È vero che come il poeta Lello Voce recentemente ha dichiarato la poesia debba essere considerata uno stato di eccezione della lingua.

Una raccolta che procede per sottrazione

La poesia della Greco non è poesia dell’inconscio, né iperletteraria. Non scarnifica, non spolpa la parola fino a giungere all’afasia, come fanno alcuni, né ne rovescia il senso come un guanto, come fanno altri. La poetessa talvolta procede per sottrazione, ma non eccede mai. Non solo ma – questo vale per tutti – è sempre difficile stabilire un discrimine tra accumulo e sottrazione, tra battere e levare.

A questo proposito va ricordato il paradosso del sortite, che è un paradosso generalmente attribuito al filosofo Eubilide, secondo cui non sappiamo mai definire un mucchio di sabbia, visto che togliendo o aggiungendo un granello alla volta abbiamo sempre un mucchio di sabbia.

Secondo questo paradosso anche un granello di sabbia è un mucchio di sabbia. Allo stesso modo a forza di sottrarre o aggiungere non sapremo mai esattamente che cosa sia poesia. Potremmo paradossalmente pensare che la Divina Commedia equivalga ad una poesia di tre parole. L’autrice ad ogni modo entra sempre in medias res, non si perde in preamboli.

Sa essere espressiva senza cadere nell’eloquenza o nella contro-eloquenza. Sa che le parole hanno un peso ed un preciso significato: può sembrare scontato, ma non lo è perché molti oggi perdono il rapporto autentico tra le parole e le cose. Dosa sempre le forze, non si mette a strafare, parte talvolta in sordina per poi assestare il colpo finale con le sue clausole, per  dare la stoccata finale al lettore, elargendo le sue epifanie, che non sono mai evasioni ma rivelazioni gnomiche.

La mosca di Wittgenstein è  intrappolata nella bottiglia, ma potrebbe rimanere impigliata anche nella tela di ragno. Forse nessuno sa come indicarle la via di uscita. Importante è tentarci, come fa la Greco. Il linguaggio serve anche a questo. Rimbaud cercò per tutta la vita invano il luogo e la formula. La poetessa il luogo l’ha trovato: è Massafra, in provincia di Taranto.

Tra frammenti di dialogo e sentenze, espresse in una certa compostezza formale (senza far parte della corrente neometrica) il suo incedere, la sua dizione si dimostrano autonomi e la sua cifra stilistica risulta originale:

“… Quando la fame/ ha un significato differente e/ la notte è uno stomaco che/ ricorda ogni dettaglio”, “…si procede/ per sottrazioni, operazioni lontane/ dei quaderni di quando eravamo piccole mani, / fiocchi colorati per distinguersi nella ressa, / inciampi di parole e ginocchia ferite”, “Il freddo stupidisce le mani; ripenso allora al tuo petto,/ di notte, poggiato contro l’intermittenza degli eventi”, “Bisogna tornare a innamorarsi/ con gli occhi. Qui dove l’inverno/ profuma di resine bruciate nei camini, turiboli domestici / per le quotidiane sacralità, angeli vegliano/ sul crocevia di giorni di pietra”, “Rimane questo giorno sospeso/ tra ananke e indicibile; una via/ sconosciuta a penna e ragione,/ dove camminare prima dell’ultimo buio,/ senza stelle, se non i pensieri nascosti./ Ci sovrastano il tuo cielo, la sorte e le cesoie/ pronti a recidere l’ultima parola. Continua a bussare a questa bocca l’attesa”.

Angela Greco riesce a bilanciarsi sapientemente tra il dentro ed il fuori, tra interno ed esterno, tra il soggetto e il mondo. Non si perde in stratificazioni, né in rizomi. Il suo dettato non è mai straniante, né eccessivo, pur mostrando le contraddizioni dell’amore, l’incomunicabilità, l’alienazione di noi contemporanei. Il trascendente in questa sua raccolta è un denominatore comune implicito,  una caratteristica sottotraccia, così come è sottintesa la presenza del male e la presenza probabilmente di un deus absconditus: tre aspetti pervasivi in chi ha una vera  fede cristiana oggi.

La poesia può salvare?

La poesia forse non salverà l’anima, ma come ha scritto la poetessa Donatella Bisutti può salvare la vita. Abbiamo bisogno di una poesia come questa in una epoca, in cui siamo tutti  cittadini del web e il virtuale ci distacca dalla realtà; siamo in un’epoca in cui il Grande Fratello è diventato realtà e viviamo in un panottico tecnologico; siamo in un’epoca in cui siamo passati velocemente dalla metafora del cervello come computer ai braccialetti neurali, che leggono nel cervello, e ad alcuni geni dell’informatica, che vogliono impiantare un microchip nel cervello.

Ai giorni nostri, in cui con i social sta sempre più dominando un immaginario artefatto, è giusto e sacrosanto farsi stimolare dall’immaginario poetico, che è autentico. Abbiamo bisogno di poesia in questa massificazione imperante, con questo spirito dei tempi che nega la soggettività. L’UNESCO celebra ogni anno il 21 marzo come giornata della poesia perché essa ha «un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comprensione interculturali, della diversità linguistica e culturale, della comunicazione e della pace». Bisognerebbe ricordarsele spesso queste parole. Infine bisogna ricordarsi che secondo Junger il nichilismo non ha accesso ai giardini  dell’arte.

 

Di Davide Morelli

Salvatore Satta, il giurista scrittore, lirico ed evocativo, autore del capolavoro misconosciuto ‘Il giorno del giudizio’

Salvatore Satta è un nome noto ai più come autore di uno dei più grandi romanzi della letteratura del Novecento, il romanzo postumo Il giorno del giudizio del 1977, capolavoro misconosciuto, opera biblica, agrodolce, evocativa, dalla prosa scarna, nella quale dietro le storie asciutte e feroci, dietro la concretezza durissima dei fatti, sentiamo una continua febbre visionaria. Sospeso nel momento innaturale e veggente del giudizio, un intero mondo parla qui per la prima volta e si inabissa: ogni sua traccia ha in queste pagine un’intensità violenta, dolorosa e, a tratti, di disperata dolcezza. Alla fine sentiamo che davvero «il sogno galoppava in quelle brulle lande». Agli addetti ai lavori, invece, è noto come finissimo giurista. I suoi scritti giurisprudenziali sono raccolti nel monumentale volume Soliloqui e colloqui di un giurista nel quale si trovano, tra le varie barbosità destinate ai tecnici del diritto, riflessioni di filosofia politica e del diritto che per chiarezza concettuale e radicalità di indagine nulla hanno da invidiare ai testi di uno Schmitt o di un Mortati. Nuorese di nascita e di vocazione, studente del prestigioso Liceo Azuni di Sassari e della Facoltà di Giurisprudenza della stessa città, Satta è entrato postumo nell’olimpo dei letterati italiani, fornendo salda ispirazione a quella scuola di letteratura sarda formata da Sergio Atzeni, Salvatore Niffoi e altri apprezzatissimi autori. La sua confidenza con le lettere era evidente già nell’opera giovanile La veranda, paragonata da Marino Moretti a La montagna incantata di Thomas Mann, e pubblicata soltanto negli anni Ottanta.

Eppure, se mettiamo da parte Il giorno del giudizio“straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere”,  la destrezza lirica di Salvatore Satta si manifesta con luminosità nella scrittura privata, estemporanea, effimera quasi a raggiungere i livelli degli attuali messaggi di chat; ma a differenza di questi ultimi, deprecabili nella loro presuntuosa lapidarietà à la Twitter, o nella ostentata vacuità da gruppo gossipparo su Whatsapp, i messaggi di Satta istituiscono un genere letterario a sé, che richiama il poetare giocondo del Mallarmé dei Loisirs de la Poste. Perché prima che insigne giurista, raffinato pensatore e uomo di tormentata fede, Salvatore Satta è stato amorevole padre ed esemplare marito, e la raccolta dei Padrigali mattutini (Ilisso, 2015, pp. 123) ne è testimone. Nel periodo di docenza all’Università di Genova, nel secondo dopoguerra, egli dedicava i primi minuti della giornata alla stesura di brevi lettere in versi, senza l’intento di raggiungere lontani continenti, bensì con l’unico scopo di scavalcare il tempo e lasciare un avviso, una comunicazione, un saluto, una testimonianza di passaggio alla propria consorte, qui ricorrente sotto il nomignolo di Mucio, stretta ancora nel sonno della prima luce mattutina.

«7.VI.55

Cara Mucio,
ho scritto la lettera per Zizzi Bachisio,
e questo mi ha tarpato le ali. Non
posso risalire dai profondati abissi per
offrirti un verso mattutino. Ma sia come fatto.
[…]
State allegri, rinfrescatevi al bagno,
e pensate a un malinconico individuo
che stasera dovrete purtroppo rivedere.
Avete e favete.
BiBi»

Così Salvatore Satta, levatosi dal talamo all’aurora, si dedicava giocosamente a una poesia spensierata, talvolta firmando i propri versi come BiBi, Pater Bibus, Il viandato, Il penestrello, L’errante, talaltra non disdegnando la simulazione storica e letteraria, trasformandosi dunque in Ettore, in Ulisse, in Romeo, finanche in Pindaro, Dante, Bocaccio:

«Canto 7500 LA DIVINA COMMEDIA Gli oziosi

Come colui che lascia moglie e prole
e la placida casa in riva al mare
per pascersi di inutili parole,
tal mi vid’io, e vedermi ancor pare,
quando uscii per andare a quel congresso
di gente che non sa che cosa fare,
tra Jaeger porco e Enrico Tullio fesso.

Bibi Dante».

C’è in questi messaggi privati l’avversione nei confronti della vita accademica (i riferimenti portano ai giuristi Nicola Jaeger ed Enrico Tullio Liebman), ritmata dagli incontri di gente che non sa che cosa fare, così lontana dai piccoli ma determinanti problemi di una quotidianità angustiata tra un frigorifero rotto e il bisogno di un viaggio:

«Il frigorifero piange: non potresti dare un
“colpo” di telefono alla Fiat? Forse ci riesci.
Raccogli tutti i messaggi telefonici con
cura. Prepara una gita per domani».
O ancora, a indicare un’uscita frettolosa dalla casa:
«Impossibilitato lasciare
versi prego far sturare
lavandino

Pindaro».
«Non sono né Onorio né Arcadio
ma sono la tua metà.
Trasporta pure l’armadio
se questa è la tua voluttà.
Per la follia che ti invasa
staccarmi non so più da te.
Però le chiavi di casa,
cara, le porto con me».
Ma le preoccupazioni casalinghe («nel bagno dei frugoletti si è staccato / il galleggiante del wc. / Vedi di farlo riparare. / Tutta la notte è corsa l’acqua dentro il / mio confuso cervello. /Spero che possiate andare al bagno. / Vi seguirò col pensiero […]») costituiscono soltanto una parte della costellazione tanto lirica quanto ironica di Salvatore Satta. Concepiti per essere destinati privatamente alla moglie amata, la studiosa di letteratura russa Laura Boschian, i padrigali si danno al lettore in una veste esoterica, piena di riferimenti a colleghi, parenti e amici stretti, i quali compaiono sotto falso nome e ricostruiscono il quadro di rapporti che il giurista intratteneva nel suo periodo ligure. Si legge in una carta targata Università di Genova – Facoltà di Giurisprudenza:
«Lentamente migliora la mia panza
ma l’anima si strugge di dolore,
perché mi sveglia nelle male ore
il pensiero di Gano di Maganza.

Di te, di me egli si è preso a gabbo,
del complesso muciano, quel serpente.
Non resta che augurare un accidente
Al tristo sassarese impiccababbo».

Ogni pagina costituisce dunque una rivelazione della vita privata e, allo stesso tempo, un nuovo misterioso gradino da interpretare – sono in tal senso utilissimi l’introduzione di Valerio Magrelli e il repertorio fotografico che chiude il volume. Una paterna tenerezza e una profonda nostalgia della patria accompagnano i basicheddos a tottis, i pistoccos e i tormentati ricordi di una terra:

«Nell’alba mi volgo a ritroso
misuro tutto il passato
forse perché ho mangiato
un papassino schifoso.

Rivedo l’olio fetente
il vino che ha preso lo spunto
ripenso con disappunto
al sardo amico e al parente.

In questi tristi pensieri
muovo incontro al mio giorno
l’oggi mi si fa ieri
la sola speme è il ritorno».

Nessuna verbosità o loquela avvocatesca nei padrigali sattiani di Salvatore Satta, bensì l’entusiasmo un po’ fanciullesco per l’officina della parola che si fa divertissements, come tradisce un verso: «[…] ho scritto / così solo per la rima». E se l’improvvisato poeta si profonde in una scrittura aulica o anacronistica, eccolo già intendo ad aggiungere, come fosse giudice di se stesso, delle note esplicative che fanno il verso al commento critico. Ridefinendo i propri ruoli familiari e sociali, l’autore si ritaglia un angolo tra l’esclusione della vita casalinga, da cui si allontana e che saluta attraverso le rime, e l’uscita nel vasto, spaventoso e ostile mondo extra-domestico. Ecco dunque il distacco dal giaciglio diventare occasione di rielaborazione, non più troppo s-pensierata, della propria vita:

«Nella notte insonne ho fatto come Dighino
con l’Iliade: ho voltato in prosa la
poesia della mia vita. Ma ora sono in
piedi e rifaccio il lavoro inverso: ricompongo
in versi e in rime la prosa, e mi appresto
ad aggiungere un breve capitolo all’eterno
poema. Farò rimare Giussani con Torchiani,
Invernizzi con Bizzi, Delitala con Cicala.
Difficile sarà trovare una rima con Lichinchi».

Il gioco della parola, dove la leggiadria del verso e il sentimento di nostalgia si scontrano, sfocia nel congedo che mai è abbandono, ma sempre virile e paterna coscienza del proprio ruolo di sorvegliante e difensore. La superiorità dell’uomo in seno al focolare per Salvatore Satta, si fa forza protettrice, scudo domestico, riparo per chi, immerso nel sonno, non ha spada:

«Madre, suoceri, figli e canarini,
dormono tutti di un profondo sonno.
Solo colui che vi è maestro e donno
veglia sui vostri placidi destini».

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