Frank Capra, cantore del New Deal e dell’America fiduciosa

Quando suo padre, povero contadino siciliano di quarantotto anni, emigrò per gli Stati Uniti d’America, Frank Capra (18 Maggio 1897, Bisacquino- 3 Settembre 1991, La Quinta, California), aveva cinque anni e non appena arrivato negli States cominciò a praticare i lavori più duri e di tutta la famiglia fu lui ad andare a scuola, iscrivendosi al Californian Institute of Technology, perché la matematica risultava facile a Capra che non voleva diventare un poeta, un umorista, ma un bravo ingegnere chimico.

Quando si parla di Frank Capra si pensa sempre al Capra degli anni Trenta e Quaranta, quello di E’ arrivata la felicità, de La vita è meravigliosa, di Accadde una notte, non a colui che ha inventato buona parte del cinema americano e internazionale (Pensiamo anche a film come La grande sparata del 1926, e all’Affare Donovan del 1929). Ma Frank Capra inizia per caso a fare il regista: dopo aver conseguito la laurea va soldato dato che gli Stati Uniti erano entrati in guerra e finita la guerra si ritrova senza lavoro, si mette a fare i lavori più disparati per mantenersi sino al giorno in cui si ritrova a San Francisco con un conto d’albergo da pagare e i bagagli chiusi a chiave in camera e in mano un giornale sul quale c’era scritto che a Golden Gate Park giravano un film. Il futuro regista inspiegabilmente si reca sul luogo e domanda ad un uomo che film intedesse girare e questi gli risponde: “Un vero film, con la gente e le cose”. Capra non era mai stato in un teatro di posa, ma sapeva che la pellicola non durava più di quattro minuti perché aveva fatto il fotografo e per dimostrare a quell’uomo che ne sapeva moltissimo, ridacchiando, gli dice che non avrebbero mai potuto fare quello che volevano perché la pellicola durava solo pochi minuti. Tale informazione sconvolge l’uomo chiede a Capra quanto vuole per aiutarlo, il giovane fa un conto dei soldi che avrebbe dovuto dare all’albergo e risponde settantacinque dollari, quanto riceverà dall’uomo per poi tornare in albergo e quindi partire; ma Capra si sente in debito con quell’uomo e torna da lui per girare il film a Calcutta. Da questo momento inizia l’avventura da soggettista e sceneggiatore prima, da regista poi, di Frank Capra.

Benché americano, Capra è fortemente italiano, lo si capisce guardando i suoi film, apparentemente innocui e conformisti, ma scaturiti da un profondo anticonformismo individualista tipicamente italiano: piccola gente che lotta contro la gente grossa, gli ostacoli della vita, le avversità, questo è molto italiano, ma il modo di trarre le conclusione da parte di Capra è americano, la sua piccola gente vince sempre, non viene mai piegata dalle avversità, come invece accade nel neorealismo. Che si tratti di un ottimismo nazionale-storico? Può darsi ma Capra ha girato i suoi film di maggior successo dopo la Depressione del 1929, mostrando come gli americani, popolo spesso incompreso ed equivocato, siano ottimisti, critici di loro stessi, capaci di ridere di loro stessi.

Frank Capra è stato il vero cantore del New Deal e dell’America fiduciosa, cui è stato anche affidato il compito, nel momento dell’entrata in guerra, di spiegare ai connazionali le ragioni del conflitto con la serie di sette film di montaggio Perché combattiamo (1942-45), dopo aver girato successi come La donna del miracolo (1931) satira sulle sette protestanti in America interpretato da Barbara Stanwyck, attrice protagonista anche nel surreale Proibito (1932), il realistico e fiabesco Signora per un giorno (1933), realizza il celeberrimo Accadde una notte (1934), una storia d’amore e dispetto, ma anche un sorridente quadretto delle difficoltà che incontrano le classi medie rovinate dalla crisi del 1929; i ricchi non hanno problemi economici ma familiari come i capricci della viziata ma divertente Ellis (Claudette Colbert) che scappa di casa perché il padre non le consente di sposare uno stupido damerino arrivista. Durante la fuga, Ellis incontra Peter (Clark Gable) un giornalista alla ricerca di uno scoop per salvare il suo posto di lavoro. Si innamoreranno e scapperanno insieme. Per Capra i cattivi non esistono o se esistono non si “esibiscono”. Il film è ricco di trovate spiritose come il celebre autostop di Ellis che alza la gonna.

In E’ arrivata la felicità (1936), Longfellow Deeds (Gary Cooper), un giovane semplice, riceve una ricca eredità; a New York finisce nella mani di lestofanti e scrocconi, il giovane si ribella e decide di donare i soldi ai contadini piegati dalla crisi. Lo portano in tribunale per interdirlo ma alla fine vincerà lui. Ne L’eterna illusione (1938) c’è un solo cattivo, un uomo che ha costruito la propria fortuna sulle speculazioni edilizie, i buoni invece sono impersonati dal figlio dello speculatore (James Stewart) e dalla segretaria (Jean Arthur) che si amano. Intorno ruota una tribù di buoni, capeggiata da un capitalista (Lionel Barrymore). Lo scontro è inevitabile e la tribù di buoni riesce a convertire lo speculatore. In Mr Smith va a Washington, contro l’unico buono (James Stewart) è schierato addirittura il Senato statunitense, covo di corruttori. Ancora una volta il regista si rifugia nella soluzione della conversione dei cattivi: il buon esempio è l’antidoto del male.

Arriva John Done (1941) lascia un dubbio, non si sa se il cattivo si convertirà. Gli Stati Uniti sono in guerra e la vicenda del cittadino comune (Gary Cooper) rimane in sospeso. Nel capolavoro che tutti conoscono La vita è meravigliosa (1946), l’ottimismo si rivela per ciò che è: il frutto di una falsa coscienza. Capra non vede più difese di fronte alla forza del male, il tono, brillante e sciolto tipico della migliore screwball comedy, si contrae in lamento che introduce l’angosciosa sequenza del “come se” (come sarebbe stato il mondo se non fosse esistito il buono pronto a sacrificarsi per tutti, ovvero un James Stewart più commovente che mai). La realtà esterna si insinua nel minuscolo mondo piccolo borghese dove si svolge la lotta tra buoni e cattivi e ne altera la verosimiglianza. La vita è meravigliosa è una fiaba che racconta come un goffo angelo, salvando dal suicidio il buono, ottenga le ali. In cielo c’è giustizia quindi, sulla terra al massimo la solidarietà tra gli uomini, ma c’è anche tanta cupezza: il nero predomina e questo rappresenta il lato non consolatorio della fiaba, ma le fiabe in fondo sono crudeli, come sostiene Sergio Leone, meglio di ogni altro tipo di narrazione mostrano il male con schiettezza, senza mezzi termini.

Sembra che sia sempre il solito mondo affollato di tanta brava gente e di qualche mascalzone ma ne La vita è meravigliosa è cambiato qualcosa o forse no ma Capra e il New Deal ci hanno creduto. Qui l’illusione è giunta al termine.

Frank Capra è stato un regista che come pochi si è inserito nel sistema, in una fase peraltro, dove si afferma fortemente l’immagine del verosimile. Eppure la sua parabola artistica, da Accadde una notte a La vita è meravigliosa, mostra quanto siano potenti le pressioni esterni sulla fiducia dell’industria nell’oggettività dell’immagine cinematografica come copia del mondo e persino Capra ritiene difficile credere che sul grande schermo si rifletta la vita.

 

Bibliografia, F. Di Giammatteo, Storia del cinema.

Dal New Deal ai nuovi linguaggi: Ford, Chaplin, Welles

La Grande Depressione e il New Deal fanno aprire gli occhi all’America e al suo cinema. Le statistiche infatti indicavano in un centinaio di milioni alla settimana gli spettatori al cinema e tra loro moltissimi erano bambini, i quali ricavavano dalle storie sul grande schermo, illusioni e conforto. Il moralismo puritano esigeva che il male fosse sempre punito e il bene, se non premiato, quantomeno celebrato, sotto l’egida di un credo industriale ottimista. Ma ecco che giunge la Depressione portando con se caos e smarrimento. Il New Deal di Roosevelt, ripropone l’ottimismo con lo slogan “L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”.

Il cinema dei generi della Hollywood classica è uno dei mezzi più potenti per arrivare alle masse ma non rappresenta tutto il cinema. L’epoca degli sperimentalismo è finita anche se tornerà più avanti con nuove vesti. In questi anni, la separazione fra l’apparato dei generi e la libertà creativa, riguarda le strutture stesse degli Studios e lo si può capire analizzando i punti in comune che ci sono tra autori più tradizionali a quelli che hanno dato il via ad una rivoluzione linguistica. Le opere di Ford, Chaplin e Welles non sarebbero concepibili se non avessero sempre di fronte i genere che consentono ad Hollywood di avere  successo.

John Ford ha alle spalle il successo Il cavallo d’acciaio (1924) e passa con grande disinvoltura dal dramma marinaro di Uomini senza donne (1930) all’umorismo sulla popolarità de Il giudice, Il battello pazzo, Dr Bull, al film di guerra La pattuglia sperduta (1934), dalla storia irlandese Il traditore (1935), al film d’azione Uragano (1937). Ford analizza il legame di solidarietà dal quale possono scaturire imprese degne di uomini: ci si ritrova uniti per affrontare i pericoli, per essere in pace con se stessi. Con Ombre rosse (1939), il regista giunge alla prima grande affermazione del tema intorno al quale Ford ha sempre lavorato, quello della solidarietà appunto intessendo una vicenda fatta di tutti gli stereotipi della letteratura di frontiera. Ma Ford è il maestro delle cose semplici, anche ingenue, dei piani ravvicinati, tutti in movimento frenetico, nel conferire epicità e letterarietà alle sue pellicole.

Sfidando la retorica del melodramma, Ford dichiara guerra anche alle pressioni politiche. Se il presidente Roosevelt adotta provvedimenti per risollevare l’agricoltura, nulla vieta che se ne parli e il regista lo fa in una delle sequenze più idilliache del suo Furore (1940), storia della migrazione di una famiglia di contadini dall’Oklahoma alla California, tratto dall’omonimo romanzo di Steinbeck. Ford, che incarna un certo spirito americano, dimostra quanto sia sensibile al dolore umano e come sia capace di tradurlo in immagini asciutte. La coesione del gruppo come conquista resta il tema di fondo sul quale Ford struttura il linguaggio, ma quando se ne allontana, per compiacere il produttore che punta sul facile successo, il meccanismo si inceppa e i difetti vengono a galla come dimostrano il film Com’era verde la mia valle (1941).

Dello stesso spirito solidale, anche l’inglese Chaplin, che negli U.S.A. ha trovata una felice patria, incarna l’individualismo di chi affronta ogni ostacolo per realizzare il suo sogno di libertà. Inizialmente respinto da tutti, l’omino inglese non realizza nulla, e le delusioni aumentano come quella che riscatta l’aura dickensiana da cui è avvolta e da lui guarita, che lo scambia per un altro e alla fine lo allontana dopo avergli fatto l’elemosina. Questo accade in Luci della ribalta (1931), film muto in cui Chaplin non polemizza, ma graffia. E graffia ancora di più in Tempi moderni. Questi tempi moderni sono tempi di oppressione dove se nasci operaio non hai altra strada: sarai costretto per tutta la vita a compiere gli stessi gesti idioti, ti ribellerai e sarai punito.

 

Chaplin compone una satira anarchica e perfida; parte con l’operaio che avvita i bulloni alla catena di montaggio, lo infila in una manifestazione sindacale senza che lo sappia, lo manda in galera, lo costringe a vivere in una baracca, gli trova lavoro come cameriere in una bettola e fa accadere il finimondo. Ma non importa, alla fine il protagonista si incammina verso il futuro con la sua amata (la celeberrima scena finale che vede i due perdersi all’orizzonte). Ma il film non piacque al pubblico. Il regista mantiene vivo il linguaggio delle immagini mute caricandole di verosimiglianza, opponendogli non parole ma canzoncine. La sfida al sonoro da parte di Chaplin continua, nonostante abbia subito, sino a questo momento, solo sconfitte. Il Grande Dittatore (1940) offre al cineasta inglese un’importante occasione per riscattarsi, scendendo a compromessi con i propri turbamenti espressivi. Il suo cinema, del resto, non ha mai puntato alla specificità (cosa che invece contraddistinguerà Orson Welles), non ha mai imposto la propria sintassi alla realtà ripresa, accettando il linguaggio primitivo. Ma per Il Grande Dittatore, Chaplin si concentra sul suono: affida allo sproloquiante Hitler, interpretato magnificamente da lui stesso, un discorso in un maccheronico anglo-tedesco-spagnolo assolutamente incomprensibile. A parte la presenza del barbiere ebreo che assomiglia ad Hitler e che alla fine, truccato come il dittatore, prende la parola e pronuncia un appassionato discorso per auspicare un futuro di pace tra gli uomini. il film non riserva grandi sorprese: vi sono le solite gag, tra le quali però spicca quella che vede Hitler danzare con il mappamondo che poi gli scoppierà in mano.

Chaplin ha ormai raggiunto la sua maturità e dopo la satira della dittatura, passa ad una sprezzante affermazione di libertà anarchica, la quale, appena terminata la guerra, giustifica perfino il delitto. Si tratta del film Monsierur Verdoux (1947), la cui idea proviene da Welles: la Depressione ha gettato sul lastrico milioni di persone e ogni mezzo è lecito se serve ad assistere la propria famiglia. Il fine giustifica i mezzi, insomma; e il mite bancario Verdoux (interpretato da Chaplin stesso) è un disoccupato con una moglie paralitica e con un figlioletto da mantenere, è giustificabile quindi secondo il regista, ma è un uomo dotato di fascino e astuzia. Verdoux sfrutta le sue doti per approfittarsi di ricche vedove per poi derubarle e ucciderle. Alla fine sarà arrestato e si difenderà con sarcasmo, salendo serenamente al patibolo, dopo aver rifiutato i conforti religiosi del sacerdote, in fondo si considera in pace con Dio; ha fatto ciò che ha fatto per amore e per necessità. Chaplin ha abbandonato il suo omino per deprecare i mali del mondo, scherzando saggiamente.

Orson Welles appartiene alla categoria dei registi che fanno dell’opera il palcoscenico su cui esibirsi e non si tratta di una questione di autobiografismo, poco importa sapere se nei film di Welles c’è traccia della sua vita. Importa invece sapere da dove nasce il titanismo che respira la sua opera. Cosa regge il suo cinema che assicura il successo del cinema americano? L’ideologia di frontiera, la stessa alla quale si è ispirato Roosevelt. Il precoce e provocatorio Welles lavora per il New Deal. A soli 21 anni mette in scena un Macbeth (1936) ambientato ad Haiti ed interpretato da attori di colore. Poco dopo realizza un Giulio Cesare moderno e non si fa mancare delle provocazioni come quella della Guerra dei mondi di H. G. Welles trasmessa alla radio come una radiocronaca.

 

E veniamo al capolavoro Citizien Kane (Quarto potere) del 1941, una prova di orgoglio democratico sottolineato dal termine citizien del titolo. Lo spirito della frontiera si incarna per il regista, nell’arroganza del protagonista, uomo infelice, del suo film, che vuole conquistare tutto. Welles ha ritratto l’America che rifiuta. E c’è un segreto da scoprire in Quarto potere: chi è questo Kane che muore solo nel suo castello? Cos’è l’allusione contenuta nella parola “rosebud”? Un giornalista indaga…

Welles forza i limiti della visività come nessun altro ha mai fatto prima: le inquadrature in profondità dilatano sia lo spazio che il tempo, vi sono lunghe pause, personaggi che entrano in grandi spazi, che indugiano e a Kane sfugge sempre tutto. E il segreto è minuscolo a dispetto della titanicità del protagonista, e si scoprirà per caso. La “specificità cinematografica” di Welles non ha nulla di americano: è una forma di ribellione ai luoghi comuni, uno sforzo a rompere con le regole imposte dai pregiudizi culturali, dalle attese del pubblico, dall’economia.

Welles ha toccato un tasto sensibile per l’America: il suo orgoglio nazionale, sovvertendo i principi della drammaturgia americana. Chaplin ha affrontano lo stesso tema nel 1936 mettendo sotto accusa il taylorismo ma pagando con l’insuccesso.

 

Bibliografia: F. Di Giammatteo, Storia del cinema.

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