‘Une femme douce’, il realismo poetico e rarefatto di Bresson

Fin dalla sua prima presentazione internazionale, al Festival di San Sebastian, nel giugno del 1969, Une femme douce solleva fra la critica italiana reazioni contrastanti, fra chi accoglie il nuovo film di Robert Bresson con perplessità, quando non lo stronca decisamente, e chi invece elogia Une femme douce, collocandolo fra le migliori opere del maestro francese.

Una grande attesa circonda il film di Bresson, che partecipa a San Sebastian in concorso, e per questa ragione non è stato più presentato a Cannes, dove inizialmente avrebbe dovuto far parte della Quinzaine des réalisateurs.

Dando conto del programma del festival, il quotidiano torinese «La Stampa» annuncia: «Fra i film più attesi in concorso Una donna dolce di Bresson».

Il festival è vinto da Francis Ford Coppola con The Rain People, mentre la giuria, presieduta da Josef von Sternberg, assegna all’opera di Bresson la Concha de plata (Conchiglia d’argento), ex aequo con lo spagnolo Los desafios di Claudio Guerin, José Louis Egla e Victor Erice.

Une femme douce: trama del film

Questa la trama del film di Bresson: una giovane e bella donna s’uccide, gettandosi dalla finestra del proprio appartamento. Composto il suo cadavere sul letto nuziale, il marito s’interroga sulle possibili ragioni del suo atto. Divenuto proprietario di un banco di pegni dopo una negativa esperienza in banca, l’uomo l’aveva conosciuta, ancora giovanissima, mentre era costretta a impegnare gli oggetti più cari.

Attratto dal suo dolce riserbo, dalla sua calma bellezza, aveva chiesto disposarla. Una volta sposata, confondendo l’amore con il possesso fisico, aveva soffocato la personalità della moglie, represso i suoi interessi culturali, aspramente rimproverata la sua generosità coi clienti.

Incapace di comunicare con lei, l’uomo è in preda alla gelosia; sentimento tanto più acutamente provato quando un giovane sconosciuto aveva cominciato a frequentare il negozio. So crea in questo modo fra loro un insopportabile stato di tensione, al punto che la donna finisce con l’ammalarsi. Poche ore dopo, la loro riconciliazione, la giovane donna si toglie la vita: un suicidio allegorico che sta a significare la morte morale come scelta responsabile e rifiuto di una vita umiliante, come riflesso dell’altro.

Accoglienza delle critica

Qualche mese dopo Une femme douce è presentato alla Mostra veneziana, dove è parte del programma della sezione Informativa. «L’accoglienza è stata contrastata», annota Lino Micciché sull’«Avanti!» , e i giudizi che si registrano fra i critici italiani presenti al Lido oscillano di nuovo fra l’aperto elogio e un’avvertibile perplessità di fronte ad un regista che non sembra preoccupato di porsi in sintonia col suo tempo, ma persegue al contrario un proprio cammino, con un’ostinazione e una coerenza che ad alcuni appare farsi maniera.

Fra le diverse voci che, al contrario, si levano in elogio di Une femme douce, includendolo fra i migliori film al Lido, incontriamo Pietro Bianchi che su «Il Giorno» scrive: «Tra i molti film offerti dalla Mostra (cibo abbondante quanto scarso di succhi vitali) Une femme douce […] ci è sembrato un’opera ricca di quei valori pudichi, e come segreti, che sono la dote dell’illustre regista di Un condannato a morte è fuggito».

A favore di Une femme douce è anche la «Rivista del Cinematografo», su cui Marco Bongioanni formula un secco biasimo contro la critica che colpevolmente lo trascura: «La critica del Lido (ancora una volta forse per incapacità di intendere) ha ovattato di silenzio l’opera bressoniana», che invece appare a Sergio Raffaelli «forse il migliore di tutti quelli proiettati quest’anno a Venezia».

«È un film notevolissimo sul piano artistico e il più bressoniano, per tematica e stile», annota Sergio Raffaelli, per il quale il regista «possiede un mondo poetico e modi espressivi inconfondibili e inimitabili» e «ogni suo nuovo film costituisce un grande evento artistico e culturale».

Il rapporto con il pubblico

In apertura di un ampio saggio su Une femme douce, anche Giorgio Tinazzi richiama l’attenzione sulla difficoltà che abitualmente lo spettatore incontra di fronte all’opera di Bresson, con cui non ha confidenza.

«Non è mai stato facile il rapporto di Bresson col pubblico», osserva Tinazzi; «la definizione di regista “difficile” ha comportato […] una sorta di confino: o verso il chiuso specialismo, spesso inerte, di certi “cinephiles” o verso fugaci apparizioni sui normali schermi, magari accompagnate dagli usuali quanto generici “omaggi” della critica e da un sicuro insuccesso commerciale».

Spiazzano lo spettatore la povertà, il rigore che impregnano Une femme douce e, in generale, l’opera bressoniana, in cui s’incarna una idea di cinema che non impiega «i mezzi del teatro (attori, regia, ecc.) e si serve della macchina da presa per riprodurre», secondo una celebre affermazione del regista, ma «che usa i mezzi del cinematografo e si serve]della macchina da presa per creare»

La mite di Dostoevskij, la fonte di Bresson

Il film è sconcertante, a volte urticante, altre bellissimo. Bresson si è ispirato al poema medievale di Chrétien de Troyes Lancelot ou Le chevalier à la charrette; ma è Dostoevskij lo scrittore a cui Bresson è legato più strettamente, accanto al francese Georges Bernanos, dai cui romanzi Le journal d’un curé de campagne e Nouvelle histoire de Mouchette trae due suoi indiscussi capolavori, l’omonimo film Le journal d’un curé de campagne, del 1959, e Mouchette.

Motivando il suo interesse per Dostoevskij, Bresson richiama in una intervista sulla «Rivista del Cinematografo», «la dimensione soprannaturale che egli ha raggiunto in tutto quello che ha fatto; una dimensione che non hanno gli altri novellisti, né Stendhal, né Balzac e neanche Tolstoj» e, dopo Une femme douce, tratto dalla novella La mite, Bresson s’ispira a Dostoevskij anche per Quatre nuits d’un rêveur (1971), la cui fonte è il romanzo Le notti bianche; ma ricordiamo anche il suo film Pickpocket, in cui è possibile cogliere un’eco di Delitto e castigo.

Un cinema rarefatto ed essenziale

Il confronto con i suoi film precedenti coinvolge anche lo stile e la critica si divide intorno al giudizio sul processo di rarefazione, di scarnificazione a cui Bresson sottopone ulteriormente in Une femme douce il linguaggio cinematografico, e che impregna in profondità il film.

«Il suo è cinema d’autore per eccellenza, splendidamente scarno, volutamente spoglio e teso», si legge sul «Paese Sera», e Giulio Schmidt coglie con una suggestiva immagine il tratto che identifica Une femme douce, «un film dalla cornice di ghiaccio, sotto cui palpita un destino senza luce».

«In questa occasione, Bresson epura ancor di più il suo stile: rarefazione di oggetti, personaggi e ambienti»; il risultato è un racconto che «presenta una struttura esemplarmente compatta, tutta tesa al raggiungimento d’una sintesi espressiva attraverso lascelta minuziosa, precisa, consapevole d’uno scarno ma essenziale materiale filmico.

L’austerità che impregna Une femme douce investe ugualmente la recitazione. Come è noto, il regista francese non ama far ricorso nei suoi film ad attori di professione. Niente attori (niente direzione di attori). Niente parti (niente studio delle parti). Niente regia>>.

La prova di Dominique Sanda

C’è un punto tuttavia su cui il giudizio è unanime.

Ed è la superlativa prova che Dominique Sanda offre nella parte della femme douce. Per l’attrice, che all’epoca aveva vent’anni e una esperienza di fotomodella, il film segna il debutto sullo schermo ed è l’inizio di una folgorante carriera che prosegue con Il conformista di Bertolucci e Il giardino dei Finzi Contini di De Sica.

Une femme douce è forse il film più povero e dimesso di tutto il cinema», com menta Giuseppe Turroni, in cui Bresson «riduce il tutto allo zero» e «arriva all’incandescente sublimazione di un dato ridotto al minimo essenziale».

Confrontando il suo cinema con «la rinuncia compiuta dagli astrattisti più volutamente poveri del nostro secolo: Klee, Mondrian», lo definisce un «austero narratore del gesto e della situazione», mentre Pietro Bianchi scorge Une femme douce un punto di affinità con la pittura di Giorgio Morandi, con cui il regista francese ha in comune «un gusto che è frutto di disciplina interiore, per il limite, per un segno trattenuto che sfiori la realtà suggerendone l’essenza più per ciò che esclude che per ciò che lascia vedere>>.

 

Fonte

https://www.academia.edu/9927085/Robert_Bresson_Une_femme_douce

Il cinema francese tra il 1930 e il 1950, meglio conosciuto come realismo poetico

Il cinema francese tra il 1930 e il 1950 vive un periodo di fasti e splendore, meglio conosciuto come “realismo poetico”, formula suggestiva ma fuorviante in quanto non ci consente di conoscere totalmente uno dei periodi più ricchi culturalmente e linguisticamente del cinema mondiale. Vale la pena, quindi, esaminarlo in maniera approfondita.

Prima di tutto per comprendere meglio un concetto come quello di realismo poetico, è necessario metterlo a confronto non solo con le modalità della realizzazione dei film ma anche con gli atteggiamenti stessi dei registi, con le loro ideologie professate. Il cinema francese non nasce da sperimentazioni di imprenditori improvvisati ma da una profonda cultura, dalla letteratura, da Flaubert, da Balzac, da Simenon.

Dal punto di vista economico quello del realismo poetico non è un tipo di cinema importante, l’industria non brilla, eppure vengono prodotti capolavori; merito in primis di validi sceneggiatori come Prévert, di talentuosi scenografi come Trauner e Meerson, di geniali operatori come Claude Renoir, Courant, Agostini, di musicisti di ottima scuola come Jaubert e soprattutto di strepitosi attori come Jean Gabin, Michèle Morgan, Michel Simon, Charles Boyer.
La Francia attraversa un periodo di crisi da tutti i punti di vista, i sindacati agiscono più volte ma sempre inutilmente, nel 1935 nasce il <<Fronte popolare>> formato dal partito radicale, da quello socialista e da quello comunista, il quale manterrà il potere solo per due anni. In questo clima dove il cinema non può che vivere una condizione divisa, ottimistica e precaria nello stesso tempo, si fanno avanti due registi “intellettuali ribelli”: René Clair e Jean Vigo.

Il primo ama la piccola realtà della Parigi popolare, il secondo descrive con malignità ed ilarità l’ambiente circostante, collocandovi in posizione dominante delle carogne. Vigo sostituisce l’amore alla protesta anarchica, respingendo i vizi della borghesia, Clair, più razionale e si limita a rifugiarsi in un mondo fatto di brava gente che attendono un colpo di fortuna, accogliendo invece quei vizi, basta prendere come esempio due loro film, Sous les toits de Paris di Clair, e L’Atalante di Vigo per capirlo. Vigo scherza con il destino cantando l’amore, Clair lo subisce, il destino. Alla luce di queste considerazioni è alquanto improbabile l’applicazione della definizione di realismo poetico per questi due cineasti d’avanguardia che non hanno nulla in comune.

Il poco considerato Jean Grémillon può rientrare in quella definizione, il suo amore per quel realismo che troppo spesso è soffocato dall’estetismo compensano una certa debolezza nella resa del melodramma. Tuttavia Grémillon non è da annoverare tra i registi più importanti di questo periodo. Julien Duvivier invece conosce benissimo il linguaggio cinematografico e spesso si ispira al realismo della cronaca nera, pensiamo all’intrigante Pepé le Mokò del 1936 (parodiato da Totò), e si lascia affascinare dal dramma sentimentale come si evince da Carnet di ballo del 1937, giudicato miglior film straniero alla Mostra di Venezia.

Jean Renoir

Diversi registi perseguono il pessimismo, e sarebbe interessante capire chi lo fa per gioco o per convinzione, e tra questi spicca il nome di Marcel Carné, il quale comunica un’asprezza sociale che accompagna i personaggi vittime del destino dei suoi film, come i protagonisti de Il porto delle nebbie del 1938 e Alba tragica del 1939 con un grande Jean Gabin che sembra aver scritto in fronte: <<Ecco il destino che mi aspetta e non è dei più belli>>. Dov’è il realismo nei film di Carné? Nell’amore, si direbbe, che sembra concreto, reso dal regista con una progressione lenta e metodica, contrastata dall’ineluttabilità verosimile del destino; ciò rende la poesia non soave, ma arida.

Jean-vigo

Un discorso a parte merita il grandissimo Jean Renoir, il quale ritrae i pregiudizi, le convenzioni, le stupidaggini della borghesia coinvolgendo, nella sua nostalgia per la libertà, anche la natura (pensiamo a Una scampagnata del 1936). Renoir in un certo senso, ha anticipato il neorealismo rappresentando personaggi legati alla propria terra d’origine, come accade in Toni (1934) e in Boudu salvato dalle acque (1932). Ma il cineasta francese dimostra di avere anche uno spiccato spirito libertario e anarchico come dimostra ne Il delitto del signor Lange del 1935.
La grande illusione (1937), capolavoro della cinematografia mondiale, fa emergere il lato romantico di Renoir, La regola del gioco (1939), altro capolavoro, è una summa di tutte le sue opere: ironia tagliente, profondità di campo, personaggi vuoti e frenetici per raccontare la società borghese nella quale ricchi e nobili si confondono per i quali, citando una ricorrente battuta del film, <<è tutta una questione di classe>>.
La Storia incombe: la Francia viene occupata dai Tedeschi e viene divisa in due zone, si forma il governo di Vichy, e poi la Resistenza; Prévert e Cocteau forniscono materiale interessante al cinema che lo assimila senza problemi. Nel 1942 si fa avanti un nuovo regista Stanislas Steeman con un giallo, L’assassino abita al 21, ma oltre al ritmo incalzante a ad un certa predisposizione nel raccontare il male, non vi è null’altro.

Henri-Georges Clouzot invece ha un talento speciale nell’individuare i punti deboli, i disvalori della società e del mondo. Ma al pubblico non va a genio e il regista è messo al bando. Finalmente nel 1947 può dirigere il suo capolavoro, Legittima difesa, pellicola che ci pone alcuni interrogativi riguardo l’egoismo e la sua perfidia che nasconde dei punti oscuri; Clouzot è un”urlatore”, un “consolatore”, secondo lui laddove non è possibile avere la meglio sul destino, si può trovare una consolazione. Il realismo poetico qui è da ricercare nel sentimento e nella psicologia.

Henri-Georges Clouzot

Senza dubbio, pur non essendo l’espressione “realismo poetico” del tutto fondata per questo periodo, essa, coinvolgendo di più lo spettatore, facendolo immedesimare nei protagonisti, (attraverso l’uso della soggettiva) ha influenzato non poco il cinema moderno, basti pensare al Neorealismo alla Nouvelle Vague.

 

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