‘Anatomia di una caduta’ di Triet. Tutti i rapporti di coppia possono essere tossici

“La finestra sul cortile” incontra “Storia di un matrimonio” nel mystery alpino “Anatomia di una caduta della francese Triet che ha vinto la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes. Si tratta di un film più femminista dei tanti film femministi per contratto che prevede l’analisi di un ménage coniugale accreditando nel contempo l’ipotesi che non potremo mai comprendere pienamente nessuno tranne noi stessi: la constatazione del fatto che i matrimoni – anzi tutte le relazioni in generale – possano risultare tossici funziona, infatti, solo come una delle spinte e controspinte di un enigmatico resoconto.

La Triet aggira i canoni del genere processuale grazie al gioco di zoom, inquadrature dal basso e movimenti di macchina continui ma sempre tenuti al servizio della sceneggiatura scritta insieme al compagno Arthur Harari, costruita sull’uso di due lingue (francese e inglese in originale, italiano e inglese nel doppiaggio) e gestita su diversi livelli ognuno dei quali complementare all’altro. La trama, insomma, è tortuosa perché il film sta tutto nelle sue scelte stilistiche: Sandra, Samuel e il figlio ipovedente Daniel vivono sopra Grenoble lontani dal mondo e la società. Un giorno Samuel viene trovato morto ai piedi del loro chalet.

Viene aperta un’indagine sulla morte sospetta, ma le testimonianze di alcuni si confondono, i ricordi di altri vacillano… Incidente, suicidio o omicidio? Sandra viene accusata nonostante i dubbi. Un anno dopo, Daniel assiste al processo di sua madre o meglio alla dissezione del nucleo familiare: ogni rivelazione risulta tagliente come un colpo di bisturi che per l’effetto sorpresa fa vacillare le nostre certezze e se la suspense funziona è, appunto, perché possiamo credere alternativamente a tutti i testimoni e protagonisti.

Il riferimento del titolo a “Anatomia di un omicidio” di Preminger non è casuale, ma anche se si profila l’identikit una donna forte e sicura di sé, in realtà la regista preferisce mettere a nudo le sue fragilità e i suoi dubbi; inoltre il leitmotiv -ovvero la rete dei sensi di colpa che il marito ha steso per difendere un patriarcato del tutto inutile rispetto a una moglie in carriera- stavolta risiede proprio nella durata di due ore e mezza che fa percepire il freddo degli esterni innevati penetrato nella casa dove finisce col raggelare anche il nucleo degli abitanti. Cosa peserà di più nel giudizio della corte e soprattutto in quello del pubblico?

Il risentimento? Il tradimento? La sensazione di non potersi mai fidare del partner? O, peggio, la consapevolezza che niente importi a nessuno dei coinvolti? “Anatomia di una caduta” pone domande profonde sui suoi personaggi, ma raggiunge la massima intensità quando riconosce di non possedere le risposte.

La verità, secondo Triet, è scomoda e sottile, crea dissociazione e disagio. E la vita secondo la regista è “un caos in cui tutti siamo persi”, dove la compulsione a giudicare è superiore alla disponibilità a comprendere, e tutti si sentono in credito: di attenzione, di riconoscimento, e soprattutto di amore privo di condizioni e giudizi.

 

Anatomia di una caduta

Addio a Jean-Luc Godard, tra i massimi pionieri della storia del cinema

Jean-Luc Godard è il regista che, insieme agli altri componenti della Nouvelle vague – il movimento che caratterizzò la cinematografia francese sul finire degli anni Cinquanta – ha iniziato una delle rivoluzioni iconografiche più importanti del Novecento e ha cambiato per sempre non solo il modo di fare film e raccontare storie, ma anche il modo di fruirle. In un lasso di tempo relativamente breve, tra il 1960 e il 1967, Godard girò 15 pellicole attraverso cui operò una vera e propria rivoluzione, cambiando i codici stessi del linguaggio cinematografico: un’eredità dalla quale i grandi film d’autore non possono prescindere. Un esempio sono le connessioni stilistiche tra i film di Godard e quelli di Wes Anderson, di Quentin Tarantino o di Xavier Dolan, solo per citarne alcuni.

Pochi artisti viventi possono considerarsi pionieri della cosiddetta settima arte e Jean-Luc Godard è senza dubbio uno di questi. Come disse il collega italiano Bernardo Bertolucci nel 1988, presentando al pubblico del canale inglese BBC2 Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), il primo lungometraggio del regista francese uscito nelle sale nel 1960. À bout de souffle è la linea di demarcazione tra queste due epoche della storia del cinema, fu una vera e propria rivoluzione di stile, un coraggioso manifesto artistico siglato dalle generazioni successive di cineasti. Il soggetto fu scritto da François Truffaut e si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto: dopo un’estate di eccessi in Costa Azzurra insieme alla bella fidanzata americana, un giovane uccide un poliziotto per raggiungere più velocemente possibile la madre morente, ma il ragazzo viene denunciato dalla fidanzata alle autorità.

Paradossi, flussi di coscienze e di conoscenze, provocazioni contro la perdita delle immagini, la fragilità dei supporti, la difficoltà di vedere i film di ieri e il desiderio di più storie del cinema, il cinema fatto e quello pensato, nel lavorìo delle proprie interpretazioni. Godard non accetta che il cinema fissi definitivamente il passato e che ogni cosa proiettata sia irrimediabilmente accaduta, come una immagine statica di Buster Keaton o del ragazzo di Ladri di biciclette, il cinema è ancora e sempre il presente, perché l’accaduto riaccade ogni volta nella mente dello spettatore, cambia di posizione, nella sua mutabilità continua, rispetto agli eventi, vive nel tempo presente dell’ermeneutica.

Godard non ebbe paura di dichiarare la finzione cinematografica e così il cinema si emancipò dalla convenzione che voleva il pubblico come uno spettatore passivo di una storia a lui estranea rendendolo protagonista, imponendogli una presa di posizione, un pensiero. Il pubblico ha la responsabilità di ciò che viene proiettato nelle sale […] io per primo mi sento responsabile di quello che vedo”, sono queste le parole di Godard. Il cineasta ha infatti sempre rivendicato una libertà stilistica che, non solo le case di produzione, ma anche il pubblico, troppo spesso non hanno voluto e non vogliono tuttora concedere al linguaggio cinematografico. Gli attori scelti da Godard erano parte di questo progetto rivoluzionario: alcuni erano professionisti, altri furono presi dalla strada, l’importante era rendere la sceneggiatura un oggetto in continua evoluzione. Le donne furono il perno su cui ruotava la sua poetica: amate, odiate, compatite, il regista costruì le figure femminili delle sue storie. “Mi identifico più con i personaggi femminili che con quelli maschili, sin dal mio primo film”, rivelò nell’intervista a Dick Cavett. ”Le donne sono più spontanee rispetto agli uomini al giorno d’oggi […] hanno idee migliori”. Chissà se ancora oggi direbbe lo stesso.

Tra i meriti del cinema di Jean Luc Godard c’è quello di aver rappresentato la complessa realtà delle donne agli inizi degli anni Sessanta. Tramite pellicole come La donna è donna (Une femme est une femme), Questa è la mia vita (Vivre sa vie) o Due o tre cose che so di lei (2 ou 3 choses que je sais d’elle), il regista parigino ha mostrato sul grande schermo una nuova figura femminile, intenta a contrastare i retaggi della società patriarcale che avevano invece ingabbiato la generazione precedente.

 

https://thevision.com/intrattenimento/jean-luc-godard-2/

‘Une femme douce’, il realismo poetico e rarefatto di Bresson

Fin dalla sua prima presentazione internazionale, al Festival di San Sebastian, nel giugno del 1969, Une femme douce solleva fra la critica italiana reazioni contrastanti, fra chi accoglie il nuovo film di Robert Bresson con perplessità, quando non lo stronca decisamente, e chi invece elogia Une femme douce, collocandolo fra le migliori opere del maestro francese.

Una grande attesa circonda il film di Bresson, che partecipa a San Sebastian in concorso, e per questa ragione non è stato più presentato a Cannes, dove inizialmente avrebbe dovuto far parte della Quinzaine des réalisateurs.

Dando conto del programma del festival, il quotidiano torinese «La Stampa» annuncia: «Fra i film più attesi in concorso Una donna dolce di Bresson».

Il festival è vinto da Francis Ford Coppola con The Rain People, mentre la giuria, presieduta da Josef von Sternberg, assegna all’opera di Bresson la Concha de plata (Conchiglia d’argento), ex aequo con lo spagnolo Los desafios di Claudio Guerin, José Louis Egla e Victor Erice.

Une femme douce: trama del film

Questa la trama del film di Bresson: una giovane e bella donna s’uccide, gettandosi dalla finestra del proprio appartamento. Composto il suo cadavere sul letto nuziale, il marito s’interroga sulle possibili ragioni del suo atto. Divenuto proprietario di un banco di pegni dopo una negativa esperienza in banca, l’uomo l’aveva conosciuta, ancora giovanissima, mentre era costretta a impegnare gli oggetti più cari.

Attratto dal suo dolce riserbo, dalla sua calma bellezza, aveva chiesto disposarla. Una volta sposata, confondendo l’amore con il possesso fisico, aveva soffocato la personalità della moglie, represso i suoi interessi culturali, aspramente rimproverata la sua generosità coi clienti.

Incapace di comunicare con lei, l’uomo è in preda alla gelosia; sentimento tanto più acutamente provato quando un giovane sconosciuto aveva cominciato a frequentare il negozio. So crea in questo modo fra loro un insopportabile stato di tensione, al punto che la donna finisce con l’ammalarsi. Poche ore dopo, la loro riconciliazione, la giovane donna si toglie la vita: un suicidio allegorico che sta a significare la morte morale come scelta responsabile e rifiuto di una vita umiliante, come riflesso dell’altro.

Accoglienza delle critica

Qualche mese dopo Une femme douce è presentato alla Mostra veneziana, dove è parte del programma della sezione Informativa. «L’accoglienza è stata contrastata», annota Lino Micciché sull’«Avanti!» , e i giudizi che si registrano fra i critici italiani presenti al Lido oscillano di nuovo fra l’aperto elogio e un’avvertibile perplessità di fronte ad un regista che non sembra preoccupato di porsi in sintonia col suo tempo, ma persegue al contrario un proprio cammino, con un’ostinazione e una coerenza che ad alcuni appare farsi maniera.

Fra le diverse voci che, al contrario, si levano in elogio di Une femme douce, includendolo fra i migliori film al Lido, incontriamo Pietro Bianchi che su «Il Giorno» scrive: «Tra i molti film offerti dalla Mostra (cibo abbondante quanto scarso di succhi vitali) Une femme douce […] ci è sembrato un’opera ricca di quei valori pudichi, e come segreti, che sono la dote dell’illustre regista di Un condannato a morte è fuggito».

A favore di Une femme douce è anche la «Rivista del Cinematografo», su cui Marco Bongioanni formula un secco biasimo contro la critica che colpevolmente lo trascura: «La critica del Lido (ancora una volta forse per incapacità di intendere) ha ovattato di silenzio l’opera bressoniana», che invece appare a Sergio Raffaelli «forse il migliore di tutti quelli proiettati quest’anno a Venezia».

«È un film notevolissimo sul piano artistico e il più bressoniano, per tematica e stile», annota Sergio Raffaelli, per il quale il regista «possiede un mondo poetico e modi espressivi inconfondibili e inimitabili» e «ogni suo nuovo film costituisce un grande evento artistico e culturale».

Il rapporto con il pubblico

In apertura di un ampio saggio su Une femme douce, anche Giorgio Tinazzi richiama l’attenzione sulla difficoltà che abitualmente lo spettatore incontra di fronte all’opera di Bresson, con cui non ha confidenza.

«Non è mai stato facile il rapporto di Bresson col pubblico», osserva Tinazzi; «la definizione di regista “difficile” ha comportato […] una sorta di confino: o verso il chiuso specialismo, spesso inerte, di certi “cinephiles” o verso fugaci apparizioni sui normali schermi, magari accompagnate dagli usuali quanto generici “omaggi” della critica e da un sicuro insuccesso commerciale».

Spiazzano lo spettatore la povertà, il rigore che impregnano Une femme douce e, in generale, l’opera bressoniana, in cui s’incarna una idea di cinema che non impiega «i mezzi del teatro (attori, regia, ecc.) e si serve della macchina da presa per riprodurre», secondo una celebre affermazione del regista, ma «che usa i mezzi del cinematografo e si serve]della macchina da presa per creare»

La mite di Dostoevskij, la fonte di Bresson

Il film è sconcertante, a volte urticante, altre bellissimo. Bresson si è ispirato al poema medievale di Chrétien de Troyes Lancelot ou Le chevalier à la charrette; ma è Dostoevskij lo scrittore a cui Bresson è legato più strettamente, accanto al francese Georges Bernanos, dai cui romanzi Le journal d’un curé de campagne e Nouvelle histoire de Mouchette trae due suoi indiscussi capolavori, l’omonimo film Le journal d’un curé de campagne, del 1959, e Mouchette.

Motivando il suo interesse per Dostoevskij, Bresson richiama in una intervista sulla «Rivista del Cinematografo», «la dimensione soprannaturale che egli ha raggiunto in tutto quello che ha fatto; una dimensione che non hanno gli altri novellisti, né Stendhal, né Balzac e neanche Tolstoj» e, dopo Une femme douce, tratto dalla novella La mite, Bresson s’ispira a Dostoevskij anche per Quatre nuits d’un rêveur (1971), la cui fonte è il romanzo Le notti bianche; ma ricordiamo anche il suo film Pickpocket, in cui è possibile cogliere un’eco di Delitto e castigo.

Un cinema rarefatto ed essenziale

Il confronto con i suoi film precedenti coinvolge anche lo stile e la critica si divide intorno al giudizio sul processo di rarefazione, di scarnificazione a cui Bresson sottopone ulteriormente in Une femme douce il linguaggio cinematografico, e che impregna in profondità il film.

«Il suo è cinema d’autore per eccellenza, splendidamente scarno, volutamente spoglio e teso», si legge sul «Paese Sera», e Giulio Schmidt coglie con una suggestiva immagine il tratto che identifica Une femme douce, «un film dalla cornice di ghiaccio, sotto cui palpita un destino senza luce».

«In questa occasione, Bresson epura ancor di più il suo stile: rarefazione di oggetti, personaggi e ambienti»; il risultato è un racconto che «presenta una struttura esemplarmente compatta, tutta tesa al raggiungimento d’una sintesi espressiva attraverso lascelta minuziosa, precisa, consapevole d’uno scarno ma essenziale materiale filmico.

L’austerità che impregna Une femme douce investe ugualmente la recitazione. Come è noto, il regista francese non ama far ricorso nei suoi film ad attori di professione. Niente attori (niente direzione di attori). Niente parti (niente studio delle parti). Niente regia>>.

La prova di Dominique Sanda

C’è un punto tuttavia su cui il giudizio è unanime.

Ed è la superlativa prova che Dominique Sanda offre nella parte della femme douce. Per l’attrice, che all’epoca aveva vent’anni e una esperienza di fotomodella, il film segna il debutto sullo schermo ed è l’inizio di una folgorante carriera che prosegue con Il conformista di Bertolucci e Il giardino dei Finzi Contini di De Sica.

Une femme douce è forse il film più povero e dimesso di tutto il cinema», com menta Giuseppe Turroni, in cui Bresson «riduce il tutto allo zero» e «arriva all’incandescente sublimazione di un dato ridotto al minimo essenziale».

Confrontando il suo cinema con «la rinuncia compiuta dagli astrattisti più volutamente poveri del nostro secolo: Klee, Mondrian», lo definisce un «austero narratore del gesto e della situazione», mentre Pietro Bianchi scorge Une femme douce un punto di affinità con la pittura di Giorgio Morandi, con cui il regista francese ha in comune «un gusto che è frutto di disciplina interiore, per il limite, per un segno trattenuto che sfiori la realtà suggerendone l’essenza più per ciò che esclude che per ciò che lascia vedere>>.

 

Fonte

https://www.academia.edu/9927085/Robert_Bresson_Une_femme_douce

‘Fino all’ultimo respiro’: il noir revisionista di Jean Luc Godard a 60 anni dalla sua uscita

Fino all’ultimo respiro, pellicola rivoluzionaria del 1960 di Jean-Luc Godard, in un certo senso imita una tendenza tipica della Hollywood degli anni Quaranta, il film noir o poliziesco. Questo genere di film trattava di investigatori cinici, gangster e uomini ordinari tentati dal malaffare; spesso una femme fatale attraeva il protagonista in una missione pericolosa il cui scopo non è dato sapere, basti pensare a film come Il mistero del falco o La fiamma del peccato.

L’intreccio del capolavoro Fino all’ultimo respiro, lo collega ad un comune motivo noir, il film di “fuorilegge” con dei giovani criminali in fuga, ad esempio La donna del bandito di Nicholas Ray del 1949. La storia ha per protagonista un ladro d’auto che uccide un poliziotto in moto della stradale e fugge a Parigi per trovare i soldi per riparare in Italia. Tenta anche di convincere Patricia (Jean Seberg), una studentessa d’arte americana e aspirante scrittrice con cui inizia una breve relazione, a seguirlo.

Dopo aver equivocato per qualche giorno, la ragazza capisce e proprio quando Michel sta per ricevere il contante di cui ha bisogno, Patricia chiama la polizia e lui viene ucciso.

Tuttavia la presentazione di questa storia da parte di Godard non potrebbe mai essere spacciato per un patinato prodotto degli studios: il comportamento di Michel è indotto dai film che Fino all’ultimo respiro imita, si passa infatti i pollici sulle labbra in omaggio all’idolo del regista francese, Humphrey Bogart, ma, nonostante questo è un bel ladro (interpretato da Belmondo) la cui vita sfugge al suo controllo e può solo fantasticare di essere una romantica testa calda di Hollywood.

Film manifesto della Nouvelle Vague, Fino all’ultimo respiro si pone in modo ambivalente nei confronti del cinema hollywoodiano e ne pervade sia la forma che la tecnica. Per contrasto il film di Godard appare goffo e casuale, quasi amatoriale, rende ambigue le motivazioni dei personaggi e indugia su dialoghi secondari, mentre il montaggio ha salti frenetici e, mentre i noir venivano girati negli studios dove ci si avvaleva di luci che rendevano i personaggi meditabondi, Fino all’ultimo respiro ricorre a luci esterne.

Queste tecniche rendono la storia di Michel stravagante, precaria e priva di glamour, la cui azione si muove a scatti irregolari inserita in brevi sequenze che si alternano a lunghi dialoghi in apparenza insignificanti, ad esempio è opportuno soffermarsi sulla lunghissima conversazione tra Michel e Patricia, i quali, per quasi venticinque minuti chiacchierano nella stanza da letto della ragazza; la maggior parte della conversazione è banale, come quando Michel critica il modo della ragazza di mettersi il rossetto. I due cercano di prevalere l’uno sull’altra in modo sconclusionato fino a quando Patricia dice che non fuggirà con lui perché non sa se lui la ama e Michele risponde: <<Quando lo saprai?>>, Patricia: <<Presto>>, Michel: <<Cosa significa presto? Fra un mese, un anno?>>, Patricia: <<Presto significa presto>>.

Anche se i due fanno l’amore, alla fine della scena non si ha un passo in avanti o indietro nel sentimento di Michel verso Patricia, e lui non ha compiuto nessun progresso nemmeno verso la fuga. Da queste scene si capisce che Michel è un delinquente errante che si lascia distrarre facilmente, più che un tormentato eroe noir.

Il finale del film è enigmatico perché non solo Michel non riuscirà a portare a termine i suoi obiettivi ma morirà dissanguato pronunciando come ultime parole: <<E’ davvero uno schifo>>, mentre Patricia lo guarda e poi guarda fissa nella telecamere lasciandoci con tante domande.

Con Fino all’ultimo respiro, Godard ha infranto le regole della fluidità delle immagini e dei suoni, facendone un film discontinuo che si propone di revisionare la tradizione in modo grezzo, avvalendosi di tecniche certamente non tradizionali, come il motivo dei misteriosi sguardi lanciati dai personaggi dritti nella macchina da presa, quasi ad interrogare lo spettatore.

Godard, che non ha mai voluto criticare i film di Hollywood, ha dato alle convenzioni identificate con il cinema hollywoodiano uno sfondo contemporaneo ed europeo creando un nuovo tipo di eroe ed eroina che avrebbero avuto i loro epigoni nei protagonista della Rabbia giovane di Terrence Malick, Bonnie e Clyde di Arthur Penn e Una vita al massimo di Tony Scott.

‘Doppio amore’, il thriller erotico di Ozon che si compiace delle proprie visioni a scapito delle narrazioni

Incurante del fatto che i critici d’antan usavano puntualmente l’espressione “cinema ginecologico” per stroncare i film di Tinto Brass e affini, Ozon esordisce quasi subito con uno zoom all’indietro dello speculum dall’interno di una vagina seguito dal fulmineo taglio di montaggio che riprende in verticale il dettaglio di un occhio della paziente. In quanto all’interpretazione della sequenza ambientata in uno studio medico, gli spettatori sono lasciati del tutto liberi (azzardiamo: il sesso sta nello sguardo?). Per Doppio amore, dunque, le reazioni del pubblico saranno forti e divise già dall’incipit, ma in ogni caso il resto del film non stacca mai il pedale dalla sistematica esasperazione dei temi cari al regista: il sesso, la cartografia dei desideri segreti, i trompe-l’oeil tra sogno e realtà, i disturbi ossessivo-compulsivi, la tematica del doppio e una spirale di incubi riverberati da quadri, arredi, finestre e, guarda caso, un’infinità di specchi nella “pupilla” della macchina da presa in qualche modo assimilata al dilatatore corporeo dell’inizio. Trasponendo a Parigi un racconto dell’americana J. C. Oates, l’autore di Sotto la sabbia, Angel e Frantz dà fondo alle sue innegabili e talvolta esaltanti doti d’eleganza formale e raffinatezza compositiva per allestire l’ennesimo thriller erotico tipico di un cinéfilo edipico sotto perenne influenza di padri geniali quanto ingombranti (Bunuel, Hitchcock, Polanski, De Palma, Cronenberg) da cui, però, non riesce mai a liberarsi e quindi simbolicamente a uccidere.

Grazie alle sedute presso lo psicoanalista Paul di cui diventerà presto l’amante, Chloé sorvegliante al museo del Palais de Tokyo –interpretata dalla Vacth di Giovane e bella qui circonfusa da un sex appeal ancora più conturbante- cerca di scoprire l’origine dei fantasmi interiori che la inducono ad alternare paura e frigidità con disinibite fantasie carnali; ma ad alterare l’apparente efficacia della terapia è l’entrata in scena del gemello monozigote Louis (interpretato dalla stesso attore Renier), anch’esso analista, inevitabile innesco di un ménage a tre completo di pratiche hard e manipolazioni reciproche. Purtroppo penalizzato dalla prevedibilità del percorso a scatole cinesi di un film che da Rosemary’s Baby e Inseparabili finisce per sfociare nel parossismo horror alla Alien o Possession, Ozon si compiace giustamente delle sue visioni, ma trascura un po’ troppo le narrazioni, sembra guardarsi mentre filma come se entrasse nei giochi morbosi del trio e si concede una serie di colpi di scena fini a se stessi che sedano gran parte delle emozioni suscitate con tanto impegno.

 

DOPPIO AMORE
Regia: Francois Ozon
Con: Marine Vacth, Jérémie Renier, Jacqueline Bisset
Genere: Thriller erotico. Francia/Belgio 2017

 

Doppio amore

In morte di Jeanne Moreau, colei che ha ridefinito lo statuto di attrice europea

Jeanne Moreau era Jeanne Moreau molto prima della Nouvelle Vague e lo sarebbe stato anche molto dopo. Tuttavia ad oggi ancora la ricordiamo per il contributo che ha dato a quella stagione incredibile del cinema e come, tra la fine degli anni ‘50 e la fine dei ‘60, abbia ridefinito lo statuto di attrice europea, di fatto creando un precedente, delle orme che prima e non esistevano e altre dopo di lei hanno potuto percorrere.

Se Brigitte Bardot era la risposta francese a Marilyn Monroe, Jeanne Moreau con quella bocca perennemente all’ingiù e l’occhio a mezz’asta era la risposta, con 20 anni di ritardo, a Bette Davis. Volto durissimo, recitazione inflessibile, frequentazioni frivole e una versatilità impressionante, non era bella nel senso più convenzionale ma riusciva ad essere attraente, lavorava su di sé, sui suoi personaggi, sui caratteri e le espressioni per creare quell’attrazione che ad altre riesce spontanea. Aveva un’estensione espressiva impressionante che le valeva, in anni in cui non era facile, il ruolo da protagonista in commedia, thriller e drammi alla stessa maniera.

Jeanne Moreau: dalla commedia francese, dal teatro, alla Nouvelle Vague

Notata già ad inizio carriera da Orson Welles, amante di molti dei registi con cui ha lavorato (e sempre i più grandi, lo faceva notare lei stessa), Jeanne Moreau è partita dalla Comedie Française, dal teatro, dove faceva il revisore dei conti prima di approdare in scena e cominciare a lasciare il segno. All’inizio degli anni ‘50 già poteva vantare un divorzio con un regista di cinema Richard Pottier, che l’aveva diretta in uno dei primi film di peso, ma sarà in realtà con Jacques Becker a fare il vero salto di categoria.
Grisbi, uno dei film più imponenti che si ricordino nel cinema francese pre-Nouvelle Vague, la vede in un ruolo minore (e inusuale per lei, quello della donna lasciva) accanto ad un mastodontico Jean Gabin. Era uno dei film preferiti in assoluto di François Truffaut che subito la volle conoscere e con cui nacque un feeling immediato. Tanto che nell’esordio di Truffaut alla regia (dopo più di un decennio da noto critico cinematografico), I 400 Colpi, nonostante fosse già nota Jeanne Moreau fa un piccolissimo cameo (è la donna con cagnolino che Antoine Doinel incontra di notte).

Partono però un po’ prima i 10 anni clamorosi e irripetibili di Jeanne Moreau, nel 1958 con Ascensore Per il Patibolo. Louis Malle la vuole nel film e poi la vorrà ancora subito dopo in Le Amanti, di fatto lanciandola nel circuito degli autori “nuovi”, l’anno dopo poi arriva la particina in I 400 Colpi che prelude alla futura collaborazione con Truffaut.
Ma intanto Roger Vadim, il regista che aveva lanciato Brigitte Bardot, vuole lei per Le Relazioni Pericolose e nel 1961 Michelangelo Antonioni, la più grande star del cinema d’autore del momento (assieme a Godard) la sceglie per uno dei suoi film più decisivi: La Notte. Sembra già l’apice di una carriera ma l’anno seguente arriva il film per cui ancora è ricordata: Jules E Jim.

In scena dall’inizio alla fine con Oskar Werner e Henri Serre non c’è storia, la sua Catherine è il film. E mentre Jules E Jim rivede definitivamente il rapporto tra macchina da presa e ambiente, all’insegna della libertà, distruggendo le catene controllate della messa in scena convenzionale, pulita e ordinata, Jeanne Moreau distrugge definitivamente ogni categoria femminile. Né donna frivola, né intellettuale algida, né seriosa, né festosa, né disponibile, né distante. Al di fuori degli schemi usuali crea una categoria nuova di cui ancora moltissime attrici beneficiano (ad oggi su tutte Isabelle Huppert). E in cima a questo si aggiunge il successo musicale con la canzone che fa da tema al film “Le Tourbillon” (che lancerà anche una piccola ma soddisfacente carriera di cantante).

A questo punto, davvero, la vogliono tutti. È bravissima e amata dal pubblico, il suo successo esce immediatamente dalla Francia. Sarà in Eva per Joseph Losey e in Il Processo di Orson Welles (che la vorrà ancora 3 anni dopo per Falstaff e poi altri 3 anni dopo per Storia Immortale), poi è biondissima per Jacques Demy e in divisa in Il Diario di Una Cameriera di Buñuel. È anche scelta per l’unico ruolo femminile francese nel film hollywoodiano Il Treno con Burt Lancaster (dell’immenso regista d’azione John Frankenheimer).

Nel 1965 proprio Louis Malle finalmente la mette insieme a Brigitte Bardot nella commedia d’avventura rosa Viva Maria! ma è solo nel 1968, quando ritrova Truffaut, che mette a segno l’ultimo grande classico di questo suo incredibile decennio: La Sposa In Nero.
Thriller di vendetta decostruito in cui conta solo lei, molto più di ogni vittima, lei e i suoi mille travestimenti, i suoi diversi volti e stati d’animo. La Sposa In Nero è tutto girato sullo suo star power d’autore (in anni in cui quest’espressione poteva avere un senso).

Con il tramonto di quell’era incredibile, lentamente tramonta anche la stella di Jeanne Moreau. Non smette mai di fare film, sono semmai i film che smettono di essere buoni per lei. Non mancherà di essere presente ne Gli Ultimi Fuochi di Elia Kazan, in Querelle De Brest di Fassbinder o ancora in Fino alla Fine Del Mondo di Wim Wenders, ma sono solo episodi.
Instancabile darà il via ad una breve carriera da cineasta (su pressione di Orson Welles) con due film, Scene Di Un’Amicizia Tra Donne e L’Adolescente (un terzo lo avrebbe voluto girare ma non c’è riuscita), più un documentario Lillian Gish.
Curiosamente Luc Besson la vorrà per un ruolo in Nikita, involontariamente mettendola in un altro film di svolta per il cinema francese a fare da mentore ad Anne Parillaud.

Fonte:

Jeanne Moreau, l’attrice che ha creato una nuova categoria per le donne al cinema

In morte di Jacques Rivette

Da qualche tempo era affetto da Alzheimer, Jacques Rivette, l’elegante regista esponente della Nouvelle Vague, lodato dalla critica e poco conosciuto al pubblico, che si è spento a ottantasette anni il 29 gennaio scorso a Parigi. Nato a Rouen nel 1928, Rivette, si trasferisce a Parigi per studiare presso la Sorbona ma ben presto sceglie la cinefilia collaborando alla “Gazette du cinéma” e sui celebri “Cahiers du cinéma” (di cui è stato anche direttore nel 1963) e stringendo amicizie registi come Astruc, Godard e Rohmer. L’esordio dietro la cinepresa avviene grazie ad un corto del 1956, Le coup du berger, ma il suo primo film è Paris nous appartient, prodotto da altri due grandi rappresentanti del cinema francese, Truffaut e Chabrol, un must da cineteca, un thriller esistenzialistico che però risulterà essere un fiasco.

Jacques Rivette, un regista raffinato

Il cinema di Jacques Rivette offre il ritratto di un universo caleidoscopico e labirintico, che riflette tra finzione e realtà, un’umanità angosciata, pensiamo alla pellicola Suzanne Simonin, la religieuse, tratto dal romanzo di Denis Diderot, scritto prima per il teatro e poi trasposto sul grande schermo. Si tratta di un’opera di successo ma che è stata molto criticata e censurata.
Con L’amoru fou (1967), Rivette affronta tematiche contemporanee sempre col piglio esistenzialista, “tampinando” una coppia come se si trovasse in uno dei realities odierni, mentre con Out 1: spectre (1970), il regista francese intreccia spunti balzacchiani ai percorsi di una compagnia teatrale. Ma Rivette continua ad essere ignorato dal pubblico. Tuttavia i successivi film Merry-Go-Round, Céline et Julie vont en bateau, L’amore in pezzi, Una recita a quattro, Alto basso fragile e Chi lo sa? risultano più interessanti per la raffinatezza che Rivette conferisce alle immagini, mettendo in rilievo la recitazione di taglio teatrale dei suoi attori. Ma in Jacques Rivette convivono più anime, ricontrabili in due film antitetici tra loro: La bella scontrosa (1991), uno dei più bei film sulla creazione artistica resa attraverso lo scontro sensuale tra la protagonista, la modella interpretata da Emmanuelle Beart e il pittore Michel Piccoli alle prese con un quadro incompiuto e l’inquietante noir Storia di Marie e Julien (2003), che racconta di un amore oscuro scandito dai tic tac degli orologi che arredano la fatiscente casa del protagonista.

L’Eros, i segreti, l’inquietudine, il doppio, la memoria, il tempo: sono queste le tematiche intorno alle quali ha riflettuto Rivette, la cui ultima sortita al cinema risale al 2009 con Questione di punti di vista, stravagante opera sullo spettacolo del circo ambulante, che riflette sui drammi sentimentali.

Robert Bresson, scrutatore dei destini umani

Considerato universalmente uno dei più grandi maestri del minimalismo, il regista e sceneggiatore francese Robert Bresson (Bromont-Lamothe, 25 settembre 1901 – Parigi, 18 dicembre 1999), Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia del 1989, è stato un intellettuale rigoroso, come il suo collega René Clair. Ma se Clair amava scherzare sui destini umani, Bresson ne ha scrutato impassibile il fluire, osservando il cammino del male nell’animo dei suoi personaggi o seguendone il lungo riscatto, senza intervenire in alcun modo. Bresson si affida solo agli strumenti del cinema: le inquadrature, il tempo, i movimenti della macchina da presa, i rumori, questi sono gli elementi indispensabili per scandagliare l’animo umano. Ma, arrivato sulla soglia di ciò che non potrà mai essere conosciuto fino in fondo, si arresta.

Bresson è stato la spia che il cinema pian piano è andato incontro a quella perdita di identità che avvenne nel dopoguerra; il rigore del linguaggio non può più essere riferito alle teorizzazioni sullo specifico filmico di cui si dibatté nel muto; il regista ha evitato la scorciatoia della narratività perché seguendola non giungerebbe mai al soprannaturale che ha sempre cercato e quindi si è concentrato su ogni singola inquadratura.

Al regista francese è stato attribuito un rigore discendente dal giansenismo: se il peccato originale ha macchiato l’uomo, non resta che l’aiuto della Grazia per redimerlo, sempre quando e dove Dio voglia; l’uomo dunque è schiavo di sé stesso e del peccato di cui non ha colpa. Poco si sa di questo regista austero che ha avuto una formazione filosofica, e dedicandosi anche alla pittura; l’interesse per il cinema arriva intorno ai venti anni, Bresson più si concentra sul rapporto tra autore e macchina da presa più che sull’aspetto narrativo.

Dopo il mediometraggio Gli affari pubblici, girato nel 1932, Bresson rinuncia a proseguire; scoppiata la guerra parte per il fronte, cade prigioniero dei tedeschi e trascorre più di un anno in un campo di concentramento; viene liberato del 1943, si riavvicina di nuovo al cinema realizzando un film scandaloso per gli eccessi di rigore stilistico: La conversa di Belfort, un confronto serrato tra due donne in un convento, una, Anne-Marie giunta per seguire la propria vocazione, l’altra, Thérese vi si è nascosta perché ha ucciso il proprio uomo nemmeno si lascia sfiorare dalla fede. Morendo, Anne-Marie convertirà Thérese.

Con Perfidia (1944, tratto da un romanzo di Diderot), il regista francese riprende il discorso sul male e lo estremizza; la protagonista della vicenda è Hélene, una donna superba che vuole vendicarsi dell’uomo che l’ha abbandonata e fa in modo che anche lui si innamori di una prostituta, con la complicità della madre della ragazza, in cambio di una ricca ricompensa. Il giovane si innamora della ragazza e la sposa, a questo punto Hélene rivela il passato della ragazza, ma quando il male sta per trionfare, interviene la Grazia con la massima “il passato non conta” e tutto finisce bene per i due innamorati. In Perfidia non vi sono colpi di scena o altre trovate che mettano in evidenza la metodica perfidia di Hélene che ha diversi punti in comune con la marchesa de Merteuil de Le relazioni pericolose di Laclos; vi è solo una macchina da presa “inquisitiva” che isola i dettagli e imprime sullo schermo una gelida fotografia.

Nel 1950 Bresson ricava dal romanzo omonimo dello spiritualista Georges Bernacos, Il diario di un curato di campagna. La vita ascetica del giovane curato di Ambricourt ha in sé i caratteri esemplari del sacrificio. Malato di tumore, il prete tenta con ogni mezzo di convertire gli abitanti del paese, affida le sue sofferenze e i suoi pensieri ad un diario. La sua missione è benedetta dall’eroismo della fede, di fronte a lui il male la fa da padrone; quando il dolore si fa troppo forte, il prete si rifugia nella casa di un compagno di seminario che si è spretato. Si spegne dopo essere stato benedetto da lui e dopo aver scritto al curato di un paese vicino che disapprovava la sua “missione”: “Che importa? Tutto è grazia”. La pellicola affida ad un costante scavo nella natura e nei volti dei personaggi il suo messaggio, un messaggio indiretto, alla Bresson, la cui ambizione, per questo film in particolare, è quella di creare, come ha sostenuto lui stesso, il soprannaturale partendo dal reale. Difficile dire se il proposito è stato puenamente raggiunto, ma di sicuro mai durante il film si ha l’impressione di assistere ad una dichiarazione di fede: “Ogni inquadratura è come una parola, che in sé non significa nulla perché ricava il suo significato dal contesto”, (Bresson a proposito de Il diario di un curatodi campagna).

Il massimo del realismo Bresson lo raggiunge con il film Un condannato a morte è fuggito del 1956, diario delle giornate e delle notti trascorse dal tenente Fontaine nella prigione di Montluc, intento alla preparazione della fuga. I gesti, gli oggetti, gli sguardi, i rumori, i passi, l’alternarsi del buoi e della luce, cancelli che si aprono e si chiudono: è questo il tessuto narrativo del film. Salvarsi per Fontaine significa non solo salvare la vita, vuol dire qualcosa che attiene a quel mistero della Grazia.

Con Diario di un ladro (1959) Bresson realizza la sua opera più compatta sul piano formale: narra la storia di un giovane studente che, prima per necessità poi per vocazione, diviene borsaiolo fin quandouna ragazza cambia la sua vita e gli indica la strada del riscatto. Ha affermato il regista Louis Malle:

“Bresson si spinge più lontano. Trova una soluzione geniale quella che gli appariva la contraddizione insolubile del cinema, c’è la presenza irritante, privilegiata, troppo abile della macchina presa nell’azione: le assegna il ruolo di occhio del creatore. Che esso sia sempre al posto giusto, che ostenti un improbabile virtuosismo, che preveda e controlli tutto ciò che accade non ci stupisce pi ma mostra ancor meglio le intenzioni di Bresson. Se guardate bene questo film vedrete che i personaggi sono dominati dalla macchina da presa, tirati, spinti, trattenuti”. 

Con i film successivi l’apertura alla speranza cede il posto al pessimismo: il destino dei personaggi è segnato e il regista sembra mettere in scena le riflessioni esistenziale di Sartre. Au hasard Balthazar (1966) è la tragica parabola esistenziale di Balthazar, l’asino candido e rassegnato che passa di padrone in padrone, registrando lungo l’arco della sua vita tutto il male del mondo. Nessun sacrificio può riscattare un mondo dominato dal male, sembra voler dire Bresson con un linguaggio essenziale e asciutto.

Profondo pessimismo anche in Mouchette-Tutta la vita in una notte (1967), storia della quattordicenne Mouchette che nessuno ama che incontra per caso, durante un temporale, un bracconiere. Costui le racconta di aver ucciso il guardiacaccia; la ragazza lo aiuta a costruirsi un alibi e lo assiste durante una crisi di epilessia. Ma il bracconiere si è inventato tutto: appena può violenta la ragazza la quale, giunta a casa, trova la madre morta. Non sopportando di essere al centro delle chiacchiere del paese, Mouchette si annega.

Una scena tratta dal film Mouchette

Così bella così dolce (1969) è un piccolo gioiello nella nouvelle vague: Bresson narra la noia della vita di coppia aggiungendoci un tragico epilogo: di fronte al cadavere della giovane moglie appena suicidatasi, il marito si interroga sulle ragioni di questo gesto estremo. Non ci sono nomi, solo Lei e Lui, negli asciutti ricordi; il suicidio della donna non è un atto di negazione ma di dolorosa affermazione, una ribellione contro la vita meschina, lontana dal vero amore, che però deve lasciare spazio all’altra vita, che inizia con la morte.

Solitudine e poesia caretterizzano il rarefatto Quattro notti di un sognatore (1971), storia di un pittore che vive in solitudine, con i suoi sogni e i suoi quadri; egli non riesce ad approcciare l’altro sesso. Una notte vede una ragazza che vuole suicidarsi su un ponte, la ferma e i due iniziano a conoscersi. La ragazza gli racconta il perché del suo gesto: aspetta il suo amato che le aveva promesso di tornare dopo un anno. Lui la conforta e cerca di aiutarla, ma si innamora di lei. L’uomo amato dalla ragazza tornerà e il pittore soffrirà. Bresson traspone come Visconti, un racconto di Dostoevskij: Le notti bianche, riuscendo ad esprimere la discrepanza tra il mondo ideale che sogna il protagonista e il mondo reale che lo delude. La pellicola offre anche l’occasione al grande regista di riflettere sulla difficoltà dell’arte a essere compresa: il protagonista nasconde continuamente i suoi quadri al mondo e l’unico amico che si vede nel film e che si presenta a casa del giovane pittore, parla dell’arte con una difficoltà di linguaggio incredibile.

Il diavolo probabilmente (1977), penultimo film di Bresson, austero e semiotico, segna il distacco da parte del regista da una civiltà cui egli sente di non appartenere più:: un giovane studente angosciato di fronte alla realtà che lo circonda, che gli appare come governata da una forza oscura (il diavolo, probabilmente), non ricevendo risposte convincenti dalla religione, dal sesso e dalla politica, si fa assassinare in un cimitero da un coetaneo. Anche lui dunque, come Mouchette e la bella e dolce, si uccide, ma il suo è il suicidio più laico che Bresson abbia mai messo in scena. Ha affermato il critico Ugo Casiraghi:

“In un universo che ha rinunciato sia alla ragione sia alla fede, dove il prete ha fatto scappare Dio e lo psicanalista è il nuovo confessore della borghesia, dove la scienza è mistica del potere e lo spiritualismo si frantuma in sette, dove l’unica politica è il rifiuto di tutte le politiche, Bresson non entra in dialettica con le strutture ormai crollate. Né fa i conti con esse: la quotidianità essendo assurda e indecifrabile, la polemica deve apparirgli inutile e banale. Dato che il pianeta è ormai preda di un soprannaturale oscuro e maligno, egli sembra rifugiarsi in un pianeta a sé, in una personale sovrastruttura”.

Una scena tratta dal film Il diavolo probabilmente

Nel 1983 Bresson gira il suo ultimo lucido ed intransigente film, L’argent, parabola sulla maledizione del denaro, premio speciale della giuria a Cannes. I giovani cineasti che si sono affiancati a Robert Bresson, lo hanno surrogato ma sono stati pronti a riconoscere la paternità dell’appassionato, spirituale e saggio moralista, appartenente alla parte meno frivola della cultura francese.

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