Addio a Jean-Luc Godard, tra i massimi pionieri della storia del cinema

Jean-Luc Godard è il regista che, insieme agli altri componenti della Nouvelle vague – il movimento che caratterizzò la cinematografia francese sul finire degli anni Cinquanta – ha iniziato una delle rivoluzioni iconografiche più importanti del Novecento e ha cambiato per sempre non solo il modo di fare film e raccontare storie, ma anche il modo di fruirle. In un lasso di tempo relativamente breve, tra il 1960 e il 1967, Godard girò 15 pellicole attraverso cui operò una vera e propria rivoluzione, cambiando i codici stessi del linguaggio cinematografico: un’eredità dalla quale i grandi film d’autore non possono prescindere. Un esempio sono le connessioni stilistiche tra i film di Godard e quelli di Wes Anderson, di Quentin Tarantino o di Xavier Dolan, solo per citarne alcuni.

Pochi artisti viventi possono considerarsi pionieri della cosiddetta settima arte e Jean-Luc Godard è senza dubbio uno di questi. Come disse il collega italiano Bernardo Bertolucci nel 1988, presentando al pubblico del canale inglese BBC2 Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), il primo lungometraggio del regista francese uscito nelle sale nel 1960. À bout de souffle è la linea di demarcazione tra queste due epoche della storia del cinema, fu una vera e propria rivoluzione di stile, un coraggioso manifesto artistico siglato dalle generazioni successive di cineasti. Il soggetto fu scritto da François Truffaut e si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto: dopo un’estate di eccessi in Costa Azzurra insieme alla bella fidanzata americana, un giovane uccide un poliziotto per raggiungere più velocemente possibile la madre morente, ma il ragazzo viene denunciato dalla fidanzata alle autorità.

Paradossi, flussi di coscienze e di conoscenze, provocazioni contro la perdita delle immagini, la fragilità dei supporti, la difficoltà di vedere i film di ieri e il desiderio di più storie del cinema, il cinema fatto e quello pensato, nel lavorìo delle proprie interpretazioni. Godard non accetta che il cinema fissi definitivamente il passato e che ogni cosa proiettata sia irrimediabilmente accaduta, come una immagine statica di Buster Keaton o del ragazzo di Ladri di biciclette, il cinema è ancora e sempre il presente, perché l’accaduto riaccade ogni volta nella mente dello spettatore, cambia di posizione, nella sua mutabilità continua, rispetto agli eventi, vive nel tempo presente dell’ermeneutica.

Godard non ebbe paura di dichiarare la finzione cinematografica e così il cinema si emancipò dalla convenzione che voleva il pubblico come uno spettatore passivo di una storia a lui estranea rendendolo protagonista, imponendogli una presa di posizione, un pensiero. Il pubblico ha la responsabilità di ciò che viene proiettato nelle sale […] io per primo mi sento responsabile di quello che vedo”, sono queste le parole di Godard. Il cineasta ha infatti sempre rivendicato una libertà stilistica che, non solo le case di produzione, ma anche il pubblico, troppo spesso non hanno voluto e non vogliono tuttora concedere al linguaggio cinematografico. Gli attori scelti da Godard erano parte di questo progetto rivoluzionario: alcuni erano professionisti, altri furono presi dalla strada, l’importante era rendere la sceneggiatura un oggetto in continua evoluzione. Le donne furono il perno su cui ruotava la sua poetica: amate, odiate, compatite, il regista costruì le figure femminili delle sue storie. “Mi identifico più con i personaggi femminili che con quelli maschili, sin dal mio primo film”, rivelò nell’intervista a Dick Cavett. ”Le donne sono più spontanee rispetto agli uomini al giorno d’oggi […] hanno idee migliori”. Chissà se ancora oggi direbbe lo stesso.

Tra i meriti del cinema di Jean Luc Godard c’è quello di aver rappresentato la complessa realtà delle donne agli inizi degli anni Sessanta. Tramite pellicole come La donna è donna (Une femme est une femme), Questa è la mia vita (Vivre sa vie) o Due o tre cose che so di lei (2 ou 3 choses que je sais d’elle), il regista parigino ha mostrato sul grande schermo una nuova figura femminile, intenta a contrastare i retaggi della società patriarcale che avevano invece ingabbiato la generazione precedente.

 

https://thevision.com/intrattenimento/jean-luc-godard-2/

‘I due stendardi’, il cult di Rebatet tradotto per la prima volta in italiano segna il ritorno della casa editrice Settecolori

Ritorna la casa editrice Settecolori: in arrivo il cult di Lucien Rebatet I due stendardi e il romanzo “La fionda” di Jünger. Fondata da Pino Grillo, è ora guidata dal figlio Manuel. In passato ha pubblicato opere di Nico Perrone, Maurizio Serra, Maurizio Cabona, Alain de Benoist e Alberto Pasolini Zanelli.

Un preannunciato ritorno in grande stile, sia pure in pieno lockdown Covid-19, della gloriosa casa editrice fondata nel 1978 da Pino Grillo. In passato, oltre a pubblicare scritti di Stenio Solinas, Grillo ha fatto conoscere in Italia opere di Robert Brasillach, Jean Cau, Langendorf, Maurizio Cabona, Alain De Benoist, Drieu La Rochelle, ha stampato testi di Giuseppe Berto, Alberto Pasolini Zanelli, Nico Perrone e Maurizio Serra (Fratelli separati. Drieu, Aragon, Malraux, 2008. Vincitore Premio Acqui Storia, 2008). Insomma libri “maledetti”, certamente non di routine e politicamente corretti.

Più recentemente, dopo la morte del fondatore, la casa editrice calabrese – ora con sede a Milano – è stata condotta dal figlio Manuel e da noti intellettuali non-conformisti a partire da Stenio Solinas all’art director Gianluca Seta. Giorni fa l’editore ha ufficializzato i programmi, invero ambiziosi, di un’editrice sui generis, non-consumista.

Se Guerra e pace di Lev Tolstoj, scritto tra il 1863 ed il 1869, pubblicato per la prima volta sulla rivista Russkij Vestnik, spaventò molti lettori con le sue 1572 pagine, tanto che l’autore dovette sopprimere a malincuore nelle successive edizioni molte parti che gli erano costate un enorme lavoro di ricerca minuziosa, altrettanto mi successe con il romanzo di Lucien Rebatet.

Un libro che si colloca tra i capolavori nascosti del nostro tempo, opera di inesauribile umanità, traboccante di musica (Rebatet fu per un lungo periodo un importante critico musicale), d’amore, di comprensione profonda del dolore. Nelle lettere francesi dovrebbe aver diritto ad un posto d’onore fra il Voyage di Céline e la Recherche di Proust.

All’impianto narrativo ‘ideologico’ Rebatet presta una cornice di stampo ottocentesco, come avrebbero potuto fare Hugo, Flaubert, Balzac, Stendhal, un grande affresco della vita sociale ed intellettuale della Francia del primo ‘900. Un po’ contraddittorio con la sulfurea personalità (o la maschera) dell’autore, che aspirava di poter ascendere l’Olimpo delle lettere francesi, non come un pamphlétaire del giornalismo d’assalto, e che invece rimase, forse a torto, anche al di sotto, nella fama postera, di un Céline, per restare ad un altro maudit.

Come efficacemente ha scritto Stenio Solinas sul “Giornale”, nell’articolo Il demonio Rebatet, piccolo ideologo grande narratore, del 2015:

Il risultato ultimo è che Les Deux Étendards è contemporaneamente un feuilleton e un testo filosofico, un romanzo d’amore e un trattato sulle passioni. Chi, una volta lettolo, pensasse di trovarsi di fronte a un Rebatet completamente diverso da quello fegatoso, isterico e sfrenato di Les Décombres, dimostrerebbe tuttavia una curiosa miopia. Non ci sono due Rebatet, uno «buono» e uno «cattivo», ce n’è uno solo, di cui il secondo è la versione più meditata, più felice, più ambiziosa e più appagata del primo. I temi dello scontro politico vengono spogliati dalle contingenze, dalle frenesie, dalle ambiguità di una scelta di campo obbligata e risistemati nell’ambito di una disfida fra concezioni del mondo dove non c’è il nemico, ma l’avversario, dove le ragioni e i torti sono equamente divisi. Non c’è la miseria dell’impegno partigiano, c’è la grandezza di chi non abbassa i propri ideali a propaganda. In carcere, Rebatet scoprì la letteratura e si riscattò dalla politica”. 

Ci sono settant’anni perché I due stendardi, romanzo dal sapore stendhaliano, pubblicato in Francia nel 1951, abbia visto la luce in Italia. All’origine di tutto c’è il il triangolo amoroso tra Michel, Régis e Anne-Marie dietro cui si cela però lo scontro tra due concezioni della vita, due morali, due estetiche.

Da una parte campeggia il misticismo di una esistenza segnata dalla fede, dall’altro il piacere e il dolore di chi vive e muore senza altro credo che il proprio valore. Attraverso le vicende, i tormenti, le aspirazioni dei tre giovani Rebatet mette in scena un potente romanzo di idee. Se l’ossessione di Michel per Anne-Marie permette a Rebatet di scandagliare il sentimento amoroso e di analizzare le sue manifestazioni con una cura, una minuzia e un’attenzione alla psicologia dell’intimità di cui non erano stati capaci nemmeno Proust e Stendhal, il cuore del romanzo rimane la ricerca se la salvezza sta nell’aldiqua o nell’aldilà.

Alla pari di Alla ricerca del tempo perduto ne I due stendardi Rebatet intreccia vite e passioni adottando tecniche di scrittura musicale anche se la chiave del libro è il cinema. Sembra di immergersi nella pura tradizione delle pellicole d’atmosfera mélo degli anni Quaranta e Cinquanta. Il rapporto tra cinema e romanzo non sfugge a Truffaut che riprende diverse scene del libro per tradurle in immagini nei suoi film e amava suggellare ogni nuova amicizia donandone una copia.

 

Fonte

“I due stendardi” di Rebatet: un romanzo d’amore e un trattato sulle passioni

‘Il filo nascosto’, l’ultimo capolavoro di P.T. Anderson che accosta con rigore narrativo i misteri della creazione artigianale a quelli dei rapporti di coppia

Mentre gli uomini amano svestire le donne, lo stilista Reynolds Woodcock, fulcro della moda britannica, che abbaglia anche la famiglia reale, ama vestirle per trasformarle in feticci privati di una volontà di dominio che le sublima nel momento in cui le imprigiona. Se Day-Lewis con il suo sguardo sfuggente ed enigmatico giganteggia –ancorché non gli giovi l’eccessiva affettazione del doppiaggio italiano- nel ruolo inventato a partire da figure storiche del cinico e anaffettivo protagonista di Il filo nascosto è perché P. T. Anderson gli costruisce attorno, appunto, come con l’ago, il filo e il centimetro, una tela di comportamenti, gerarchie, nevrosi e rituali su cui la cinepresa indaga cercando di scioglierne l’intrinseco rebus. Quasi sempre serrato nelle stanze del lussuoso edificio che riunisce abitazione e atelier del sarto più venerato della Londra anni 50, il film candidato a sei Oscar, ma in ogni caso già iscritto al novero dei cult-movie, utilizza il tema della moda come un mezzo anziché un fine, riuscendo ad avvicinare con una rigorosa strategia narrativa (sino a correre il rischio di estenuare gli spettatori) i misteri della creazione artigianale/artistica a quelli dei rapporti amorosi/morbosi di coppia.

Il fatto che il film pretenda e meriti un attenzione spasmodica è certificato dal titolo originale Phantom Thread, Il filo fantasma, perché la struttura registica opera come un campo magnetico dell’impenetrabile, il non detto o mostrato (come il sesso sempre relegato dietro porte chiuse) proprio come Reynolds cuce negli orli o le fodere degli abiti i suoi messaggi segreti. Quando nel cerchio magico della maison viene ammessa Alma (Krieps), una timida cameriera più vicina ai ritratti di Vermeer che ai cliché della “femme fatale”, s’avverte dapprima solo una scossa; tanto più che la giovane –non scacciata come le abituali amanti dopo qualche notte- è sottoposta all’inflessibile tutela della sorella dell’egotistico guru chiaramente ispirata al modello hitchcockiano dell’inquietante governante di Rebecca, la prima moglie. Diventata prima musa e modella e poi moglie, però, Alma diventerà una “donna che visse due volte” in grado trasferire tonalità fotografiche, suoni, musica, ritmi di ciascuna sequenza, se non inquadratura del film dalla commedia romantica al noir sadomaso. La genialità di Anderson sta nell’abolire le facili chiavi dello psicologismo per lasciare campo libero all’ovattata violenza dei giochi perversi che nei protagonisti fungono da contrappunto alle rispettive strategie di potere.

Il filo nascosto: la follia irridente di Anderson

Opaco e sinuoso, Il filo nascosto serve due attori indefettibili che si misurano sulla scena di un’epoca (gli anni ’50) sensibile alla seduzione cinegenica e in una relazione più complessa di quella che il quadro iniziale lasciava immaginare. Daniel Day-Lewis, maestro del linguaggio e della verità del corpo a discapito dell’eloquenza, trasforma il suo nel recettore di passioni di un personaggio privato di tante parole e dotato di un’aggressività a fior di pelle. Daniel Day-Lewis appartiene di fatto a quegli attori prossimi all’afasia, la cui rivolta sorda traspira dal corpo e la verità di un ruolo arriva necessariamente dall’interiore. Per l’attore inglese la performance è sempre un gesto da automatizzare, una vita da assimilare, una psicologia da dominare. A rischio di dannarsi. Questa intensità spiega una carriera e un ruolo, l’ultimo ha dichiarato l’interprete, che coltivano esigenza e rigore. Il ritratto di uno stilista senza concessioni, devoto alla sua arte, funziona come una metafora della maniera notoriamente intensa dell’attore di affrontare la sua. Il regista, che ritrova Daniel Day-Lewis dieci anni dopo Il petroliere, è d’altronde anche lui un maniaco assodato del dettaglio che aggiunge un’altra mano di senso a un’opera confezionata imbastendo sottotesti.

Alla maniera dei tessuti selezionati da Mr. Woodcock, gli ultimi tre film di Anderson assomigliano più a fili incrociati di trama e di ordito che alle vecchie costruzioni corali. Al climax violento o assurdo (il colpo di pistola di Boogie Nights o la pioggia di rane di Magnolia), subentra una follia lucida e irridente che minaccia i piani a ripetizione, che smarrisce gli sguardi nel fuori campo, che promette scarti, che disegna fughe interrotte. Come quella di Reynolds Woodcock davanti al sorriso enigmatico di Alma, che colloca il film tra veglia e allucinazione, lasciando planare il dubbio sul loro confine.

La determinazione di far cedere l’altro all’amore senza condizioni

Il regista di riferimento per Il filo nascosto è François Truffaut (sebbene siano più profondi sono i riferimenti letterari, come certi racconti di Henry James dominati dall’opposizione tra vita e arte e dall’attrazione-terrore per la donna), che Anderson ha descritto come l’unico in grado di “assalirlo emotivamente” perché “rispetta le regole, ma ad un certo punto ci butta sopra qualcosa di punk rock”. E il paragone è con un film di Truffaut in particolare: La mia droga si chiama Julie.
Sia Il filo nascosto che La mia droga si chiama Julie raccontano un’ossessione amorosa, o meglio, la determinazione di uno dei due personaggi a far comprendere all’altro la natura profonda dell’amore, e a convincerlo a cedervi senza condizioni. E in entrambi il grimaldello per sbloccare la relazione di coppia è il veleno. Ma le relazioni fra i personaggi sono diversamente incrociate. Ne La mia droga si chiama Julie infatti è Louis (Jean Paul Belmondo) ad essere così travolto dal sentimento per Julie (Catherine Deneuve) da accettare, come estrema prova d’amore, che lei gli somministri un topicida. Nel romanzo originale, Vertigine senza fine di William Irish, la morte dell’uomo era il finale. Nel film del terminalmente romantico Truffaut il finale suggerisce invece l’inizio di una nuova fase della storia d’amore fra Louis e Julie, quella in cui la donna si rende finalmente conto di potersi abbandonare a quell’uomo diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto e al suo amore incondizionato, che come tale richiede una resa totale.

Il filo nascosto è dunque anche un autoritratto deformato attraverso il suo protagonista esteta-asceta, ma risulta essere proprio l’opposto di un gioco auto-referenziale: mentre riflette su di sé, si sporge sull’ignoto, affrontando il rapporto tra maschile e femminile come opposizione primaria e storica. La struttura da romance allegorico permette un’abbagliante riaffermazione delle potenzialità del cinema, che vanno molto oltre la semplice narrazione. Il filo nascosto è in equilibrio mirabile tra una fortissima sensualità (è come se il film cercasse di rendere visibile anche l’olfatto, il gusto, il tatto) e, a partire da essa, una dimensione teorica non astratta, ma fatta della sostanza di ciò che si vede. Anderson racconta il tentativo di creare una donna, che diventa invece il riconoscimento dell’altro e il riconoscimento della propria finitezza da parte dell’uomo; ma lo fa in maniera allusiva, in una parabola senza morale. Lo spettatore è continuamente spiazzato, fino a un epilogo quasi beffardo. Il film tuttavia non è mai cervellotico: se è impervio, è per l’intensità di ogni inquadratura, di ogni movimento di macchina, per la sottile ambiguità che attraversa ogni gesto, come leggere pieghe nel tessuto del film.

 

Fonti:  http://www.mymovies.it/film/2017/phantom-thread/

Il filo nascosto

In morte di Jeanne Moreau, colei che ha ridefinito lo statuto di attrice europea

Jeanne Moreau era Jeanne Moreau molto prima della Nouvelle Vague e lo sarebbe stato anche molto dopo. Tuttavia ad oggi ancora la ricordiamo per il contributo che ha dato a quella stagione incredibile del cinema e come, tra la fine degli anni ‘50 e la fine dei ‘60, abbia ridefinito lo statuto di attrice europea, di fatto creando un precedente, delle orme che prima e non esistevano e altre dopo di lei hanno potuto percorrere.

Se Brigitte Bardot era la risposta francese a Marilyn Monroe, Jeanne Moreau con quella bocca perennemente all’ingiù e l’occhio a mezz’asta era la risposta, con 20 anni di ritardo, a Bette Davis. Volto durissimo, recitazione inflessibile, frequentazioni frivole e una versatilità impressionante, non era bella nel senso più convenzionale ma riusciva ad essere attraente, lavorava su di sé, sui suoi personaggi, sui caratteri e le espressioni per creare quell’attrazione che ad altre riesce spontanea. Aveva un’estensione espressiva impressionante che le valeva, in anni in cui non era facile, il ruolo da protagonista in commedia, thriller e drammi alla stessa maniera.

Jeanne Moreau: dalla commedia francese, dal teatro, alla Nouvelle Vague

Notata già ad inizio carriera da Orson Welles, amante di molti dei registi con cui ha lavorato (e sempre i più grandi, lo faceva notare lei stessa), Jeanne Moreau è partita dalla Comedie Française, dal teatro, dove faceva il revisore dei conti prima di approdare in scena e cominciare a lasciare il segno. All’inizio degli anni ‘50 già poteva vantare un divorzio con un regista di cinema Richard Pottier, che l’aveva diretta in uno dei primi film di peso, ma sarà in realtà con Jacques Becker a fare il vero salto di categoria.
Grisbi, uno dei film più imponenti che si ricordino nel cinema francese pre-Nouvelle Vague, la vede in un ruolo minore (e inusuale per lei, quello della donna lasciva) accanto ad un mastodontico Jean Gabin. Era uno dei film preferiti in assoluto di François Truffaut che subito la volle conoscere e con cui nacque un feeling immediato. Tanto che nell’esordio di Truffaut alla regia (dopo più di un decennio da noto critico cinematografico), I 400 Colpi, nonostante fosse già nota Jeanne Moreau fa un piccolissimo cameo (è la donna con cagnolino che Antoine Doinel incontra di notte).

Partono però un po’ prima i 10 anni clamorosi e irripetibili di Jeanne Moreau, nel 1958 con Ascensore Per il Patibolo. Louis Malle la vuole nel film e poi la vorrà ancora subito dopo in Le Amanti, di fatto lanciandola nel circuito degli autori “nuovi”, l’anno dopo poi arriva la particina in I 400 Colpi che prelude alla futura collaborazione con Truffaut.
Ma intanto Roger Vadim, il regista che aveva lanciato Brigitte Bardot, vuole lei per Le Relazioni Pericolose e nel 1961 Michelangelo Antonioni, la più grande star del cinema d’autore del momento (assieme a Godard) la sceglie per uno dei suoi film più decisivi: La Notte. Sembra già l’apice di una carriera ma l’anno seguente arriva il film per cui ancora è ricordata: Jules E Jim.

In scena dall’inizio alla fine con Oskar Werner e Henri Serre non c’è storia, la sua Catherine è il film. E mentre Jules E Jim rivede definitivamente il rapporto tra macchina da presa e ambiente, all’insegna della libertà, distruggendo le catene controllate della messa in scena convenzionale, pulita e ordinata, Jeanne Moreau distrugge definitivamente ogni categoria femminile. Né donna frivola, né intellettuale algida, né seriosa, né festosa, né disponibile, né distante. Al di fuori degli schemi usuali crea una categoria nuova di cui ancora moltissime attrici beneficiano (ad oggi su tutte Isabelle Huppert). E in cima a questo si aggiunge il successo musicale con la canzone che fa da tema al film “Le Tourbillon” (che lancerà anche una piccola ma soddisfacente carriera di cantante).

A questo punto, davvero, la vogliono tutti. È bravissima e amata dal pubblico, il suo successo esce immediatamente dalla Francia. Sarà in Eva per Joseph Losey e in Il Processo di Orson Welles (che la vorrà ancora 3 anni dopo per Falstaff e poi altri 3 anni dopo per Storia Immortale), poi è biondissima per Jacques Demy e in divisa in Il Diario di Una Cameriera di Buñuel. È anche scelta per l’unico ruolo femminile francese nel film hollywoodiano Il Treno con Burt Lancaster (dell’immenso regista d’azione John Frankenheimer).

Nel 1965 proprio Louis Malle finalmente la mette insieme a Brigitte Bardot nella commedia d’avventura rosa Viva Maria! ma è solo nel 1968, quando ritrova Truffaut, che mette a segno l’ultimo grande classico di questo suo incredibile decennio: La Sposa In Nero.
Thriller di vendetta decostruito in cui conta solo lei, molto più di ogni vittima, lei e i suoi mille travestimenti, i suoi diversi volti e stati d’animo. La Sposa In Nero è tutto girato sullo suo star power d’autore (in anni in cui quest’espressione poteva avere un senso).

Con il tramonto di quell’era incredibile, lentamente tramonta anche la stella di Jeanne Moreau. Non smette mai di fare film, sono semmai i film che smettono di essere buoni per lei. Non mancherà di essere presente ne Gli Ultimi Fuochi di Elia Kazan, in Querelle De Brest di Fassbinder o ancora in Fino alla Fine Del Mondo di Wim Wenders, ma sono solo episodi.
Instancabile darà il via ad una breve carriera da cineasta (su pressione di Orson Welles) con due film, Scene Di Un’Amicizia Tra Donne e L’Adolescente (un terzo lo avrebbe voluto girare ma non c’è riuscita), più un documentario Lillian Gish.
Curiosamente Luc Besson la vorrà per un ruolo in Nikita, involontariamente mettendola in un altro film di svolta per il cinema francese a fare da mentore ad Anne Parillaud.

Fonte:

Jeanne Moreau, l’attrice che ha creato una nuova categoria per le donne al cinema

In morte di Jacques Rivette

Da qualche tempo era affetto da Alzheimer, Jacques Rivette, l’elegante regista esponente della Nouvelle Vague, lodato dalla critica e poco conosciuto al pubblico, che si è spento a ottantasette anni il 29 gennaio scorso a Parigi. Nato a Rouen nel 1928, Rivette, si trasferisce a Parigi per studiare presso la Sorbona ma ben presto sceglie la cinefilia collaborando alla “Gazette du cinéma” e sui celebri “Cahiers du cinéma” (di cui è stato anche direttore nel 1963) e stringendo amicizie registi come Astruc, Godard e Rohmer. L’esordio dietro la cinepresa avviene grazie ad un corto del 1956, Le coup du berger, ma il suo primo film è Paris nous appartient, prodotto da altri due grandi rappresentanti del cinema francese, Truffaut e Chabrol, un must da cineteca, un thriller esistenzialistico che però risulterà essere un fiasco.

Jacques Rivette, un regista raffinato

Il cinema di Jacques Rivette offre il ritratto di un universo caleidoscopico e labirintico, che riflette tra finzione e realtà, un’umanità angosciata, pensiamo alla pellicola Suzanne Simonin, la religieuse, tratto dal romanzo di Denis Diderot, scritto prima per il teatro e poi trasposto sul grande schermo. Si tratta di un’opera di successo ma che è stata molto criticata e censurata.
Con L’amoru fou (1967), Rivette affronta tematiche contemporanee sempre col piglio esistenzialista, “tampinando” una coppia come se si trovasse in uno dei realities odierni, mentre con Out 1: spectre (1970), il regista francese intreccia spunti balzacchiani ai percorsi di una compagnia teatrale. Ma Rivette continua ad essere ignorato dal pubblico. Tuttavia i successivi film Merry-Go-Round, Céline et Julie vont en bateau, L’amore in pezzi, Una recita a quattro, Alto basso fragile e Chi lo sa? risultano più interessanti per la raffinatezza che Rivette conferisce alle immagini, mettendo in rilievo la recitazione di taglio teatrale dei suoi attori. Ma in Jacques Rivette convivono più anime, ricontrabili in due film antitetici tra loro: La bella scontrosa (1991), uno dei più bei film sulla creazione artistica resa attraverso lo scontro sensuale tra la protagonista, la modella interpretata da Emmanuelle Beart e il pittore Michel Piccoli alle prese con un quadro incompiuto e l’inquietante noir Storia di Marie e Julien (2003), che racconta di un amore oscuro scandito dai tic tac degli orologi che arredano la fatiscente casa del protagonista.

L’Eros, i segreti, l’inquietudine, il doppio, la memoria, il tempo: sono queste le tematiche intorno alle quali ha riflettuto Rivette, la cui ultima sortita al cinema risale al 2009 con Questione di punti di vista, stravagante opera sullo spettacolo del circo ambulante, che riflette sui drammi sentimentali.

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