‘Viaggio al termine della notte’, il capolavoro di Céline che ha meglio rappresentato il Novecento

Viaggio al termine della notte si è imposto come il romanzo che ha saputo meglio capire e rappresentare il Novecento, illuminandone con provocatoria originalità espressiva gli aspetti fondamentali. «Céline è stato creato da Dio per dare scandalo», scrisse Bernanos quando nel 1932 il romanzo diventò un successo mondiale, suscitando entusiasmi e contrasti feroci. Lo «scandalo Céline», che dura tuttora, è la profetica lucidità del suo delirio, uno sguardo che nulla perdona a sé e agli altri, che ha il coraggio di affrontare la notte dell’uomo così com’è. Questo libro sembra riassumere in sé la disperazione del Novecento: è in realtà un’opera potentemente comica, esilarante, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo.

Il romanzo di Céline, pubblicato nel 1932, è suddiviso in episodi non numerati che rispettano l’ordine cronologico degli eventi narrati. Henri Godard ha osservato come l’andamento delle storie raccontate all’interno di ciascun episodio sia ciclico: incominciano con un errore, una gaffe, una sfida mal calcolata, uno scatto d’umore che precipitano Bardamu (il narratore e protagonista del Voyage) in un tragicomico balletto di situazioni difficili o disperate, da cui il protagonista esce sempre a fatica, sempre provvisoriamente. In mezzo l’accumularsi di ostacoli e delle minacce, i segni
nefasti che annunciano il precipitare del dramma, il suo accelerarsi; e lo sconforto lucido e amaro delle riflessioni che Bardamu ne ricava.

La Prima Guerra Mondiale è cominciata. Ferdinand Bardamu lascia la sua dimora in Place de Clichy e si arruola volontario nell’esercito francese. Attorno a lui vi sono uomini e luoghi disperati: colonnelli senza immaginazione, generali rabbiosi, villaggi e civili che galleggiano da qualche parte nella notte. La notte del Bardamu divenuto Brigadiere è un luogo prima fisico e poi simbolico che si mangia la strada e invade l’intimità. In una città del nord «tutta illuminata e sparsa come se l’avessero perduta» Bardamu incontra Léon Robinson, la voce che lungo tutta una vita accompagnerà Bardamu, manifestandosi in momenti e luoghi disparati, da un capo all’altro della terra, al punto che il lettore a lungo resterà in dubbio se definire le sue apparizioni reali o frutto della coscienza alterata del narratore.

“È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre”.

Robinson è dunque il disertore, disarmato e pacifista, colui che si arrende e insieme ne approfitta, uno dei tanti prodotti della guerra. Alla fine dell’episodio di Robinson, i due uomini si salutano augurandosi buona fortuna.

Dopo un tempo indefinito, Bardamu rimane ferito e si guadagna una medaglia militare. Questo gli permette di affrancarsi e di fare della malattia uno degli obiettivi che perseguirà per tutta la durata della guerra. In ospedale, a Parigi, incontra Lola, un’infermiera
americana. Bardamu se ne innamora. I due fanno lunghe passeggiate ed è durante una di queste che Lola gli rivela lo sgomento di invecchiare, di ritrovarsi adulta a guerra finita, di aver sprecato, a causa di un destino avverso, gli anni migliori nella sofferenza. Lola si
ammala di anoressia, mentre Bardamu alza la voce in un bar facendosi addirittura portare via a forza. La diagnosi di folle è discutibile, ma si fa strada in lui la possibilità di restare rinchiuso fino alla pace e lasciare che questa faccenda della guerra se la sbrighino gli altri, i ragionevoli.Dopo una discussione con Bardamu sull’inutilità di una guerra di cui tra diecimila anni nessuno si ricorderà, Lola, che contrariamente al protagonista è molto patriottica, decide di lasciarlo.

Bardamu si consola frequentando la bottega-bordello di Madame Herote dove conosce Musyne, una giovane violinista con un debole per i
sudamericani. La storia finisce presto. Bardamu comincia a frequentare un’attrice della Comédie-Française ma la storia è destinata a concludersi velocemente. Bardamu medita un modo per lasciare l’ospedale che sente sempre più simile a una prigione.

Marcia in modo strano la pietà. Se qualcuno avesse detto al comandante Pincon che lui altro non era che uno sporco assassino vigliacco, gli avrebbe fatto un piacere enorme, quello di farci fucilare seduta stante dal capitano della gerdarmeria che non lo lasciava mai d’un passo e che, lui, pensava esattamente quello. Era mica coi tedeschi che ce l’aveva, il capitano della gerdarmeria.

L’episodio che segue è breve. Racconta di quando, nel 1913, insieme al collega Jean Voireuse, Bardamu lavorava come commesso presso il signor Roger Puta, gioielliere della Madeleine. Bardamu deve portare a passeggio i cani da guardia del negozio per quaranta franchi al mese mentre Puta rifornisce di gioielli il Ministero. Madame Puta, di contro, fa un tutt’uno con la cassa ed è felice di non avere figli: poiché la guerra è un dovere e bisogna che i figli di qualcuno ci vadano a combattere, si sente sollevata a sapere che i figli in questione non siano i suoi. È questa la prima volta in cui Bardamu incontra nuovamente Robinson e, insieme a Voireuse, passeggiano fino a Place Vendôme.

L’episodio si chiude con con un’anticipazione: Jean Voireuse morirà due anni più tardi, in Bretagna, in un sanatorio marino, in una camera a gas della Somme. La prima e unica volta che nella sua vita avrà l’occasione di vedere il mare.

Una volta fuori dal mattatoio, Bardamu progetta di raggiungere l’America ma non ha il denaro per farlo. Il viaggio è solo rimandato. Imbarcato su una nave della Compagnia dei Corsari Riuniti, l’Amiral-Bragueton, che insieme a ufficiali e funzionari trasporta un carico
di cotone, Bardamu raggiunge l’Africa. Il viaggio trascorre in un clima di spossatezza per il caldo soffocante che, una volta superate le coste del Portogallo, diviene condizione permanente: gli uomini si consolano con il ghiaccio del whisky.

Il finale di Viaggio al termine della notte è tanto folle quanto grottesco: un’improbabile uscita a quattro, Bardamu, Robinson, Madelon e Sophie, la giovane assistente polacca assunta presso l’Asilo dallo stesso Bardamu; la morte di Robinson, crivellato dai colpi a fuoco sparati da una Madelon fuori di sé, dopo numerose pagine di delirio senza contenuto (l’eco degli spari giunge al lettore come interminabile nonostante il tutto si consumi all’interno di un taxi).

Così si chiude la spudorata opera di Céline: la follia è da ogni parte, regolata e sregolata, cala la notte del Novecento, secolo di cui il Voyage diviene opera simbolo e racconto spietato.

La prosa di Céline è nuova, un mix micidiale di crudo realismo e umorismo nero, costruita su espressioni gergali, dure, oscene, e si arricchisce con l‘argot francese e con il linguaggio dei reietti, perché Céline vuole adottare il punto di vista dei poveri e degli emarginati, quelli sputati fuori dalla società. Uno stile di rottura con la classicità della lingua francese, un vero e proprio jazz linguistico, con dislocazione delle parole, anticipate o posticipate nella frase.

L’humour del romanzo emerge soprattutto negli ambigui rapporti tra i personaggi, uniti dalle circostanze, compagni nella “notte” ma sempre e diffidenti gli uni con gli altri.

L’autore è entrato nel delirio e lo ha raccontato in un viaggio attraverso il cinismo, l’ipocrisia, la falsità, la cattiveria e tutto ciò che di negativo c’è nell’ “uomo” e di un uomo che si è nutrito di pane e miseria, schiavo di un desiderio mai appagato.

‘Sotto il sole di Satana’, il Dio vivente secondo Bernanos

Sotto il sole di Satana, pubblicato nel 1926, è l’opera prima dello scrittore francese Georges Bernanos. Secondo il teologo Hans Urs von Balthasar, che dello scrittore francese fu amico ed ammiratore, «nonostante tutte le debolezze resta la sua opera più acuta ed anche la chiave per interpretare le altre»

Bernanos aveva letto la vita di san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, e ne era rimasto affascinato. Il santo, al quale per poco non era stata rifiutata l’ordinazione per le scarse capacità intellettuali, aveva tuttavia scosso la sua epoca.

Aveva attirato una folla incredibile di persone al suo confessionale, predetto il futuro, guarito i malati, letto nei cuori, aveva lottato a tu per tu con il diavolo che per la rabbia gli aveva incendiato il materasso. Il Curato d’Ars aveva, dunque, affascinato lo scrittore per la pura semplicità del suo cuore di bambino per la quale egli amava solo Dio e le anime dei peccatori.

Con il suo romanzo, Bernanos voleva rappresentare un umile parroco di campagna al centro del XX secolo. Non voleva certo riproporre pedissequamente la biografia di Giovanni Maria Vianne, bensì ritrarre i suoi lineamenti principali in decisa opposizione al conformismo religioso e all’ateismo della scienza.

Voleva, infine, liberarsi delle proprie paure addossandole a padre Donissan, il protagonista del suo romanzo. Sotto il sole di Satana viene riproposto ai lettori nell’anno che Benedetto XVI ha voluto dedicare al sacerdote. L’intento non è certo quello di opporre un modello sacerdotale alternativo ai preti dei nostri tempi.

Si vuole evidenziare, invece, l’attualità di alcune tematiche care a Bernanos: il peso del male sulla scena del mondo e nella storia di
ogni uomo; l’ansia di liberarsene fino all’autodistruzione; il desiderio della confessione; la ricerca incessante di Dio che ai fedeli, più ancora dei non credenti, non dà tregua.

Sono tematiche, evidentemente, che non interessano solo i sacerdoti. Secondo Bernanos, tuttavia, non se ne può venire a capo senza di loro. Per questo il volume è diretto a tutti i lettori in ricerca di Dio ed è una scossa per quanti conducono una vita lontano da lui. Nello stesso tempo è un inno di riconoscenza ai sacerdoti, più o meno deboli, più o meno santi. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente».

Quanti frettolosamente si affrettano a criticarli per le loro mancanze e i loro difetti, dovrebbero ugualmente tener conto del compito impossibile che grava sulle loro spalle. Carlo Bo, concludendo il saggio introduttivo con il quale presentava Bernanos per il Meridiano a lui dedicato, scriveva che «l’innesto di una fede nel giuoco del romanzo non ha portato a un indebolimento, a una corruzione del romanzo stesso, bensì a un suo rinnovamento».

Solo uno sciocco può stupirsi del brusco slancio di una volontà a lungo trattenuta e che una dissimulazione necessaria, appena cosciente, ha già improntato di crudeltà – rivincita ineffabile del debole, eterna sorpresa del forte, tranello sempre in agguato! C’è chi s’impegna a seguire
passo passo, nei suoi meandri capricciosi, la passione, più potente e inafferrabile del lampo, e si compiace di essere
un osservatore attento, mentre degli altri non conosce che il riflesso della sua povera smorfia solitaria.

I sentimenti più semplici nascono e crescono in una notte inviolata, vi si confondono o respingono secondo affinità segrete, simili a nubi cariche di elettricità, e sulla superficie delle tenebre non possiamo scorgere che i bagliori dell’inaccessibile tempesta.

Richiesto di spiegare il suo romanzo Bernanos rispose in una conferenza: «Una visione cattolica del mondo». E ancora più concisamente: «Satana e noi». Non è una sfida per i contemporanei che ritengono di poter sottovalutare il male, anzi di ignorarlo? Da questo punto di vista Sotto il sole di Satana ha molto da dire proprio nel nostro tempo, sebbene alla sua uscita destò sorpresa perché mentre la maggior parte degli scrittori, durante il Novecento si occupava di tematiche modernissime, Bernanos sceglieva una tematica antimoderna dal punto di vista strettamente letterario, parlando di Dio e di religione in un romanzo.

Mouchette Marothy, una ragazza comune, volgare eroina del piccolo mondo borghese e provinciale, è un’assassina, un’anima silenziosa, solitaria, glaciale, il capolavoro di Satana. Nessuno sospetterebbe di lei, ma un povero prete di campagna, un rozzo vicario alquanto goffo e ignorante, a volte persino ridicolo, intuisce lo stato di peccato dell’anima della giovane e cerca invano di ricondurla al bene.

Nel romanzo ci sono dunque due protagonisti: nella prima parte del romanzo la protagonista è una ragazza sedicenne decisa a godersi la vita, ma che riesce solo a cadere dalla padella alla brace nei suoi amori e a illudersi di avere il controllo dei guai in cui si va a invischiare; nella seconda parte del romanzo troviamo il futuro parroco, giovane imbranato e volenteroso, dotato per i lavori manuali più che per gli studi, che mortifica la carne e al contempo sospetta, di avere dono particolare, di vedere il cuore dell’uomo. Tuttavia l’uomo è confuso, non riesce a capire se tale dono o fardello gli venga da Dio o dal Satana.

La distinzione tra bene e male sembra virtuale e illusoria, è così sottile che a volte ci si chiede se valga la pena cercare il bene quando è quasi impossibile riconoscerlo o impedirgli di cambiare volto all’improvviso come nell’ultimo mezzo miracolo. La volontà di bene dell’uomo non è sufficiente a metterlo al riparo dal male.

Il romanzo inizia con la storia della ragazza, che sembrerebbe la protagonista ma con il tempo l’attenzione si sposta del tutto sul futuro parroco e la ragazza diventa un personaggio secondario e scompare con tutto il suo mondo. Bernanos sembra voler ragionare al posto di Dio, interpretare il suo piano, lasciandosi andare a ragionamenti ingarbugliati, congetture, pensieri abissali.

Dopo l’incontro col male, il curato si dedicherà alla confessione dei fedeli con zelo e amore verso il prossimo, senza giudicare i peccatori, ma prendendo su di sé questo fardello, avvicinandosi così al vero ideale di santità.

L’attualità di Sotto il sole di Satana è quanto mai palese in questi tempi in cui chi si sente più cristiano di altri, più vicino a Dio, perché da un pulpito emette giudizi sul prossimo. Nel libro è messo vigorosamente in evidenza come il male si annidi nella vanità, soprattutto di certi alti prelati, convinti di sapere già ogni cosa, di essere favoriti da Dio per la loro “solare” erudizione. Il Male dunque non è associabile sempre al buio, a qualcosa che ci sfugge ma al Sole come recita il titolo del romanzo, al visibile.

Bernanos ha tutto il talento e la capacità dei grandi narratori francesi, nel costruire i suoi scenari in modo mirabile, con veloci pennellate di colore, scuro e denso, lasciando filtrare tra le immagini il gusto amaro del dolore e spesso dello sconforto, senza descriverlo, ma lasciandolo aleggiare tra le pagine del romanzo in cui sembra non accadere nulla di eccezionale, e mostrando invece che il prodigioso risiede proprio nella quotidianità.

Irène Némirovsky, tra i casi letterari più potenti degli ultimi decenni

Le sembrò tutto ambiguo, una fatalità, forse, ordita da un romanziere sadico. Il 2 febbraio del 1939 Irène Némirovsky si era fatta battezzare presso l’Abbazia di Sainte-Marie, l’anno dopo veniva censita come ebrea.

La lettera inviata al maresciallo Pétain – “Inutile dire che non mi sono mai occupata di politica, avendo scritto opere puramente letterarie… mi sono impegnata al massimo per far conoscere e amare la Francia” – non aveva sortito effetto.

Eppure, Irène Némirovsky, donna audace, d’intransigente bellezza, cruda, era tra gli scrittori più noti, in Francia. Da David Golder, uscito nel 1929 per Grasset, era stato tratto un film di successo – passato, in Italia, come “La beffa della vita” – girato da Julien Duvivier.

Irène Némirovsky, la femme fatale della letteratura francese

Nel 1931 Robert Brasillach ne aveva esaltato l’afflato lirico, “così toccante e così vero”. Era nata a Kiev, l’11 febbraio del 1903: il papà era banchiere, ebreo non praticante, la madre impediva che si parlasse yiddish o russo, in casa vigeva la legge grammaticale del francese.

La Rivoluzione, ovviamente, ruppe l’idillio: Irène e mammà, vestite da contadine, fuggono, miracolosamente, in Finlandia; insieme al padre approdano a Stoccolma, infine, nel ’19, si stabiliscono a Parigi. Irène si sente francese: pubblica libri di successo – Il ballo, I cani e i lupi, Jezabel, La preda – ma le viene negata la cittadinanza.

Poco gliene importa, ebbra di fama. Ancora nel luglio del 1942, arrestata dai gendarmi di Vichy, non crede nell’inevitabile, e scrive al marito: “Amore mio, in questo momento sono seduta alla gendarmeria dove ho mangiato ribes in attesa che venissero a prendermi. Soprattutto, sta’ tranquillo, sono certa che sarà questione di poco… Copri di baci le mie adorate bambine… Se poteste mandarmi qualcosa… Libri, per favore, e se possibile anche un po’ di burro salato”.

La deportazione ad Aushwitz

Deportata ad Aushwitz, muore il 6 novembre di quell’anno, in una camera a gas. La resurrezione accade, col criterio del prodigio, nel 2004, quando Denoël pubblica Suite francese, il manoscritto dell’ultimo romanzo della Némirovsky, nascosto in una valigia che conteneva diversi effetti personali.

Il successo, la seconda volta, è più clamoroso della prima: sulla scia di Adelphi, non c’è editore italiano che non abbia la propria traduzione di Suite francese – vincitore di un Prix Renaudot postumo –, da cui è tratto un film di dubbia bellezza, con Michelle Williams e Kristin Scott Thomas. La straordinaria storia del manoscritto, insieme alla pubblicazione del “capitolo ritrovato di Suite francese”, è il cuore di un libro, Re di un’ora (Edizioni Ares, 2021), che allinea diversi inediti – il più importante è quello che dona il titolo al testo – e mostra un poco la virtuosa attività pubblicistica della Némirovsky (aveva sintonia con Pearl S. Buck, le piaceva Il postino suona sempre due volte).

L’ebraismo di Irene

A curare il volume, Cinzia Bigliosi, traduttrice di platino – per Bompiani ha appena licenziato la sua versione de Il rosso e il nero; per Feltrinelli ha tradotto Guy de Maupassant, George Sand, Alexandre Dumas –, con una propensione ‘affettiva’ per la Némirovsky (ha tradotto Suite francese per Feltrinelli, La nemica per Astoria, ha curato il libro di Élisabeth Gille, Mirador. Irène Némirowsky mia madre).

Secondo Cinzia Bigliosi il mondo ebraico di Irène Némirovsky è la matrice di un immaginario con il quale la scrittrice intratteneva un rapporto molto forte, anche se fino a poco prima dell’Anschluss, sarebbe rimasto quasi esclusivamente un tema letterario.

Nella vita di Irène l’ebraismo ha agito come una negazione primordiale che partecipò probabilmente all’inconsapevolezza del pericolo nazista da parte di Irène che non ricordava più la propria origine e che ha guardato fin quasi alla fine a quello che le capitava intorno come a un fatto che non potesse riguardarla fino in fondo.

Re di un’ora, il libro più importante di Némirovsky

Re di un’ora è il testo fondativo e fondamentale nell’opera di Irène Némirovsky, per diversi motivi. Prima di tutto l’idea di fondo che nel 1934 sfocerà in questo breve trattato fisiologico, nello stile di Balzac, è ossessiva e il “macher”, ossia il faccendiere di origine levantine sul quale si concentra e che ha molti tratti in comune, se volessimo scivolare nel freudismo, con il padre, è protagonista della maggior parte dei suoi scritti narrativi, in primis David Golder.

Inoltre l’analisi alla quale si abbandona Irène nello scavare tra esempi a lei contemporanei la spinge senza che se ne accorga nella costruzione di un vero e proprio tipo, e in questo modo il “macher” diventa, letto con lo sguardo di oggi, un modello modernissimo di affarista nel quale potremmo riconoscere molti dei personaggi che infestano la vita pubblica e politica, e qualche cella carceraria, affaristi non solo italiani che, giunti dal nulla, salgono in cima a montagne di denaro e di successo per crollare nel vuoto poco dopo, e ricominciare da capo, senza soluzione di continuità.

 

 

Fonte

Davide Brullo

Céline: i manoscritti ritrovati scomparsi nel 1944

Scomparsi nel 1944 con il saccheggio del suo appartamento in Rue Girardon a Montmartre da parte della Resistenza francese, riappaiono in circostanze straordinarie, consegnati all’avvocato specialista in editoria Emmanuel Pierrat dopo la morte della vedova di Céline Lucette Almansor nel 2019, i manoscritti inediti di Louis-Ferdinand Céline. Lo ha rivelato Jérôme Dupuis su “Le Monde” negli scorsi giorni, sconvolgendo il mondo céliniano, letterario e editoriale. 

Tra di essi, come sempre affermato dal romanziere francese in diverse interviste e passi dei suoi libri del dopoguerra e ribadito da Lucette, il manoscritto di 600 fogli di Casse-Pipe, romanzo destinato nelle intenzioni dell’autore a costituire un trittico con i due capolavori Viaggio al termine della notte (1932) e Morte a credito (1936), del quale erano state pubblicate solo le poche pagine sino ad oggi note, un lungo romanzo inedito intitolato Londres, 1.000 fogli di Morte a credito, la Légende du Roi Krogold, e decine di altri scritti, documenti e fotografie inedite.

Lo scrittore francese l’aveva appunto ben detto, sia nei suoi romanzi, come in Da un castello all’altro, quando denunciava come i Maquis non gli avessero lasciato nulla, “né un fazzoletto, né una sedia, né un manoscritto…” e in Rigodon, e nelle lettere ai suoi amici, come a Pierre Monnier nel 1950: “Bisogna dirlo ben forte che se Casse-Pipe è incompleto è perché gli Epuratori hanno gettato tutto il resto, 600 pagine di manoscritto nei bidoni della spazzatura dell’avenue Junot”.

A nulla erano servite sino ad oggi le indagini private dei biografi e dei collezionisti céliniani, che avevano interrogato decine di ex appartenenti alla Resistenza francese e anziani abitanti di Montmartre, percorso in lungo in largo la mappa dei bouquiniste del lungo Senna e dei mercatini delle pulci a Parigi e oltre, e i cataloghi specializzati.

Il tesoro céliniano di rue Girardon, se fosse mai esistito, sembrava perso per sempre. Ma… Lucette Almansor lo aveva pur detto, in una intervista a Philippe Djian nel 1969, mentre parlava dell’uscita dell’ultimo romanzo di Céline, Rigodon:

Gli sono stati sottratti almeno quattro o cinque manoscritti abbozzati, delle opere che erano al quarto o al quinto rimaneggiamento… la fine di Casse-Pipe, certamente, questo romanzo doveva essere completamente terminato, penso. Ma un gran numero di questi documenti riapparirà alla mia morte”.

Profetica: perché qualche mese dopo la morte di Lucette l’8 novembre 2019, il critico teatrale ed ex collaboratore di “Libération” Jean-Pierre Thibaudat si mette in contatto a Parigi con l’avvocato Emmanuel Pierrat, specialista in cause editoriali.

Thibaudat rivelerà all’avvocato Pierrat, e ora a “Le Monde”, la straordinaria notizia: quindici anni prima, un lettore di “Libération” lo aveva contattato e gli aveva consegnato “diversi enormi sacchi contenenti dei fogli manoscritti. Erano scritti di pugno da Louis-Ferdinand Céline. Me li diede con una sola condizione: non renderli pubblici prima della morte di Lucette Destouches, poiché, essendo di sinistra, non intendeva arricchire la vedova dello scrittore”.

Il giornalista, che giura di non aver pagato un soldo per questo tesoro, e di non avere mai voluto specularci finanziariamente – e osserviamo come il solo manoscritto del Viaggio al termine della notte è stato acquistato dallo Stato francese a un’asta nel 2001 a 1,8 milioni di Euro – iniziò quindi a catalogare scrupolosamente i manoscritti e documenti acquisiti, senza farne parola con nessuno; “più di un milione di segnature archivistiche, equivalenti a un libro di 600 pagine”, dice Thibaudat.

Tenendo per sé questo segreto, Thibaudat lavora anno dopo anno sul materiale in pessime condizioni di conservazione dovuto all’essere stato probabilmente nascosto in una cantina, e con i fogli ancora riuniti con le mollette da bucato in legno che Céline era uso impiegare per raggruppare le pagine dei suoi manoscritti nel corso delle stesure e ristesure dei suoi capolavori.

Quindi, l’11 giugno 2020 Thibaudat e l’avvocato Pierrat incontrano gli attuali aventi diritto dell’opera di Céline, ossia il biografo céliniano Francois Gibault e la signora Véronique Chovin, ex allieva di danza e vecchia amica di Lucette.

L’incontro, stupore di Gibault e della Chovin a parte, non ottiene un grande successo, se gli aventi diritto depositano una denuncia per furto al tribunale di Parigi. Una delle questioni da risolvere è come lo sconosciuto donatore abbia acquisito i manoscritti, e chi fossero i Maquis responsabili del furto.

Alcuni dei nomi sono noti, perché suggeriti dallo stesso Céline o perché emersi nelle ricerche biografiche e private dei céliniani: il membro delle FFI (Forces Francąises de l’Intérieur) corso Oscar Rosembly, arrestato per “atti disonesti” e incarcerato a Fresnes per aver saccheggiato diverse abitazioni di collaborazionisti a Montmartre, il Resistente Yvon Morandat, il quale nel dopoguerra contattò invano Céline – che rifiutò di incontrarlo – per restituirgli degli appunti e alcuni mobili (!) da lui trafugati da rue Girardon. Tuttavia, l’identità dell’ex lettore di “Libération” e del trafugatore iniziale rimangono ancora “ignote”.

Ma torniamo alla causa. Nel 2021, Jean-Pierre Thibaudat viene convocato a una udienza all’Ufficio centrale contro il traffico dei beni culturali, e, senza porre alcuna condizione deposita a quell’ufficio l’intero blocco di documenti in suo possesso.

Per Thibaudat, il suo compenso era stato “il piacere di trascriverli per anni e anni. E ciò non ha prezzo”.

Dopo, tutto si è mosso in fretta: autenticazione dei documenti da parte della Biblioteca nazionale di Francia (BNF), soddisfazione dell’avvocato Gibault e della signora Chovin, e loro intenzione di donare alla BNF – che già custodisce quello del Viaggio –  il manoscritto di Morte a credito, e di fare pubblicare i manoscritti inediti all’editore Gallimard, che dovrà poi rivedere parte delle sue pubblicazioni céliniane, come i volumi della Pléiade dedicati ai romanzi di Céline, alla luce del ritrovamento.

Una scoperta epocale, dall’enorme valore letterario e che permetterà, una volta pubblicati questi inediti e le centinaia di altri documenti ritrovati, di gettare nuove luci sull’opera céliniana e la sua stesura, visti i numerosi scritti che “modificheranno molto di quello che si credeva di conoscere della genesi dei primi romanzi di Céline, a partire dal Viaggio al termine della notte, come conclude Jérôme Dupuis su “Le Monde”.

 

 

Andrea Lombardi

Joris-Karl Huysmans: dall’abisso alla fede cattolica

Joris-Karl Huysmans nasce a Parigi nel 1848; di origine fiamminga, è funzionario presso il Ministero degli interni dal 1868, si dedica alla letteratura sotto l’influenza di Zola: al naturalismo infatti si possono ricondurre i suoi primi romanzi, Marta, storia di una fanciulla, La sorelle Vatard e il racconto Zaino in spalla, che Zola raccoglie nelle Serate di Médan, antologia di scrittori naturalisti da lui stesso curata.

Gli esordi di Huysmans

Già nel romanzo successivo, Alla deriva, si manifesta un primo distacco dai temi e dai toni naturalistici, che verrà definitivamente sancito da Controcorrente, libro simbolo del Decadentismo.

Dopo anni di inquietudini spirituali, Huysmans, isolatosi per qualche tempo in un monastero, si converte alla fede cattolica. Tale scelta di vita è accompagnata da nuove opere narrative: Laggiù, In cammino, La cattedrale, L’oblato. Lo scrittore muore a Parigi nel 1907.

Il romanzo-manifesto del decadentismo, Controcorrente ha per protagonista un giovane proveniente da una famiglia aristocratica decaduta per i numerosi matrimoni consanguinei e le tare tramandate con l’ereditarietà. Jean Des Essenties, “esile giovanotto di trent’anni, anemico e nervoso, dalle gote scavate, gli occhi di un azzurro freddo di acciaio”, ha passato la sua adolescenza leggendo e fantasticando.

Controcorrente: trama e contenuti

Perduti i genitori a soli diciassette anni, una volta uscito dal collegio cattolico dove è stato educato, incomincia a vivere esperienze diverse, tra ambienti di nobili, letterati, giovani gaudenti, senza mai trovare appagamento alla proprie inquietudini. Sempre più annoiato del mondo e della vita, il giovane decide di vendere il castello di famiglia, di lasciare Parigi senza dir nulla a nessuno e di ritirarsi in una casa isolata nella regione di Fonteney-aux-Roses.

Predisposta la nuova casa secondo i raffinati gusti che aveva in gioventù, Des Esseintes si circonda di fiori, essenze profumate, mobili pregiati, tappezzerie, quadri, piante inconsuete, per soddisfare in continuazione il piacere di godere delle sensazioni provocate dalla bellezza.

Le sue giornate sono riempite dalle letture degli autori cari: prima di tutto gli scrittori delle età di decadenza quali Petronio e Apuleio, poi molti scrittori di pagine religiose e mistiche, infine qualche contemporaneo come Flaubert, Zola e soprattutto i poeti nuovi quali Baudelaire e Verlaine.

Il fascino della decadenza

L’isolamento, il continuo riandare al passato, la sostituzione di condizioni artificiali a quelle naturali, provocano in lui una grave nevrosi, per curare la quale deve abbandonare il suo rifugio e ritornare a Parigi. All’atto della partenza invoca la fede religiosa per recuperare una speranza di vita ormai del tutto perduta.

Controcorrente riassume nei caratteri del protagonista i tratti di molti intellettuali che eleggono la bellezza a loro guida: una bellezza da ritrovare negli oggetti e da ricercare nei libri da leggere, in nome di una distinzione evidente da tutto ciò che appartiene al mondo della maggioranza. Il rifiuto della civiltà contemporanea in nome dell’amore per le epoche di decadenza non va tuttavia confuso con un ritorno ad un passato idealizzato.

Intellettuali e decadentismo

Nella cultura del decadentismo si rivela l’impossibilità di una “naturalezza” di comportamenti: con la scoperta che non esiste più una naturale armonia, nonché la possibilità di una letteratura capace di rispecchiare e conoscere la realtà, resta solo l’artificiosità, come quella delle macchine di Des Esseintes, che possono procurare le sensazioni naturali senza che la natura sia più necessaria e come quella in cui si rifugia Baudelaire.

L’intellettuale di fine Ottocento non riesce a far proprio il passaggio alla modernità per quanto riguarda le trasformazioni sociali e le prime manifestazioni di una società che oggi chiamiamo “società di massa”.

Le descrizioni di Huysmans

Huysmans prova un’amara voluttà nell’analizzare, descrivere e rappresentare tutto ciò che per lui è oggetto di disgusto o d’orrore: l’abbrutimento del popolo, la meschinità della vita piccolo-borghese, il regresso della vita spirituale combattuta da un piatto e arrogante illuminismo, la brutalità dell’industrialismo e della plutocrazia, la mancanza di senso estetico nelle classi dirigenti: è la reazione estetizzante al naturalismo resa attraverso l’ansia debordante del protagonista che cerca di oltrepassare, come il suo autore, la conoscenza comune.

La conversione

Dagli abissi dello spirito, Huysmans risale e vede la luce della fede cattolica e scrive La Cattedrale, romanzo denso di conati di conversione a un cattolicesimo ch’è stato giudicato ora mistico, ora estetizzante; non si tratta di un «libro condensato»; non è nemmeno una proposta antologica. È molto di più e di diverso. È un disvelamento.

In queste pagine di Joris-Karl Huysmans, c’è la “nostra” storia, la storia del nostro essere europei e occidentali, la storia delle nostre radici autentiche e di quelle immaginarie, che magari sono ancora più forti e profonde delle prime.

L’antieroe esteta abbraccia la croce e afferma: “L’arte è l’unica cosa pulita sulla terra, a parte la santità”.

‘Gilles’: il romanzo introspettivo di Pierre Drieu La Rochelle

Un lettore avvezzo a etichette e condanne, che ha il terrore delle parole interdette e che ricerca nei romanzi la conferma della propria superiorità morale, non potrà mai scorgere tra le pallide pagine di Gillesapocalittico romanzo pubblicato nel 1939 dall’eresiarca Pierre Drieu La Rochelle, nulla di buono, nulla di vero, nulla di suo.

Drieu incarna integralmente l’antico, inattuale gusto della scrittura che sanguina; è Nietzsche che si sente ululare in sottofondo – e chi cercasse in questo cult dell’underground più aristocratico qualcosa da predicare, dei valori astratti da inculcare resterebbe fatalmente deluso.

Gilles: un romanzo in parte autobiografico

Nell’interessante postfazione del 1942 che Giometti&Antonello inserisce nella edizione del 2016 di Gilles, lo stesso Drieu ammonisce chi frettolosamente voglia liquidare la sua opera come un saggio camuffato o una memoria viziata dal “fervore fabulatorio” scrivendo che i suoi romanzi non sono altro che romanzi. Lo scrittore prosegue:

“l’artista cerca di essere oggettivo malgrado se stesso, malgrado la forte disposizione all’introversione a cui lo obbliga la visione necessariamente frammentaria del suo universo interiore. Il frammento restituisce come rifratto un personaggio nuovo e sconosciuto. E la cosa rimane vera, anzi diventa più vera, anche quando l’autore si ostina per tutta la vita su se stesso”.

D’altronde, continua Drieu, “dovendo smascherare e denunciare, pensavo fosse giusto cominciare da me stesso”.

L’introspezione dello scrittore francese

L’introspezione costruisce pertanto altre versioni dello scrittore che non sono lo scrittore, altre versioni di amici e amanti che non sono loro – ma che sono, forse, più veri di loro. Gilles – che Drieu redige omaggiando la sua anima di storico – è “un racconto lungo che si sviluppa abbracciando larghe porzioni di vita”.

Infatti, l’autore di Fuoco fatuo racconta la storia del seduttore Gilles in un arco di tempo che va dalla prima giovinezza alla maturità ed è un libro che, siccome parte dalla vita, non inganna – “poiché la vita è della vita l’eco più giusta, sempre”.

È lo stesso Drieu ad inserire il suo capolavoro all’interno della più tipica tradizione francese: “quella del racconto unilaterale, egocentrico, talmente umanista da sembrare astratto”.

L’insufficienza del romanzo

Il romanzo, secondo lo scrittore, può apparire a tratti “insufficiente” perché “tratta della insufficienza francese, e la tratta onestamente, senza cercare alibi o sotterfugi”.

Drieu cita Céline che, come lui, “si è buttato a corpo morto sull’unica strada che gli si offriva (…): sputare e ancora sputare, ma se non altro in quella saliva vi è entrato l’intero Niagara”.

Drieu è dunque amante dell’invettiva come Céline, ma da buon normanno, è meno propenso alla dismisura, “scrupolosamente sottomesso alla disciplina della Senna e della Loira”.

Gilles e le donne

Nella prima parte del corposo volume il giovane soldato Gilles Gambier rientra in Francia dalla guerra con una grande “fame di donne, e quindi di pace, di piacere, di agi, di lusso, di tutto ciò che aveva odiato” – a parte le donne – ancora prima del conflitto.

E, tra una bravata e l’altra, è travolto dalla sua benedizione: Gilles piace alle donne e, oltre a incontrarne alcune dal malsano fascino baudelairiano, ne frequenta altre che, benché ognuna a suo modo, lo inchiodano all’amore, al dolore e che fungono finanche da stimolo, occasione di riflessione interiore, esistenziale.

Alcune di queste donne sono la trasposizione di amori realmente vissuti dall’autore. Ad esempio Dora è l’americana Constance Wash conosciuta da Drieu nel 1924 e presente anche in altre opere.

Pauline è Emma Besnard, conosciuta dallo scrittore ad Algeri nel 1922.

Quantunque Gilles sposi Myriam, resta sempre inquieto e non smette di coltivare le sue sensazioni “in una solitudine vivente” cercando di forgiare pensieri che abbiano “un po’ della prodigiosa e segreta efficacia della preghiera” essendo il pensiero, ma soprattutto la scrittura, una forma di orazione.

Gilles– coperto di donne, odiato da molti e solo dentro – non è però soltanto la sua relazione con l’altro sesso – “sesso adorato, sconosciuto, abusato” –, malgrado le donne restino sempre varchi per il resto, voragini sull’insensato, occasione che estetizza l’ora.

Chi è veramente Gilles Gambier?

Gilles, come si diceva, non è soltanto Drieu e ciò, d’altronde, non esclude le somiglianze; ad esempio entrambi sono “normanni”, hanno avuto successi e fallimenti, hanno partecipato con onore alla prima guerra mondiale.

Sono stati reduci e hanno vissuto sulla propria pelle il ribaltamento della prospettiva borghese, una certa marziale forma di dandismo dannunziano, hanno pensato al suicidio e, infine, hanno aderito, seppur in modo critico e indipendente, alla terza via fascista.

Tuttavia Gilles non è Drieu ad esempio perché, orfano, è stato cresciuto da una nutrice e, prima di essere spedito in collegio, è stato educato da un padre adottivo. Gilles è cresciuto senza privazioni e godendo di quei piaceri che, benché comuni a tanti, apprezzano solo pochi spiriti ombrosi: “i libri, i giardini, i musei, le strade”.

La politica

Così, restando sempre Gilles, non sarà solo soldato e reduce, ma anche impiegato agli Affari Esteri del Ministero Francese, ufficiale di stato presso gli americani in Francia, caporedattore della rivista Apocalisse, scrittore indipendente, militante politico e spia in missione nella Spagna franchista con lo pseudonimo di Walter.

Al di là delle varie occupazioni, Gilles è soprattutto un esteta che, malgrado le fughe nel piacere, sente “un’inclinazione irresistibile all’immobilità, alla contemplazione, al silenzio”.

Egli si percepisce come una sorta di “eremita, leggero, furtivo, solitario” che erra per le città e per le foreste afferrando “tutti i rumori, tutti i misteri, tutti i compimenti”.

Un sognatore che ha “il gusto divino dell’onnipresenza”; un “asceta nello spirito, ma non nella vita” e che, anzi, in una sorta di nigredo dell’io, nel vitalismo tormentato trova la strada dell’ascetismo spirituale interpretando, alla stregua di un lupo, la nobile arte del pathos della distanza – “mistica della solitudine”.

Lo spleen baudelairiano

Egli è pericolosamente attratto dallo spleen cittadino ma anche dal “tono segretamente altero delle grandi cattedrali, dei castelli, dei palazzi: l’ultimo appoggio della grazia, perché le pietre resistono più delle anime”.

L’amore dell’esteta per le cose rare e squisite si mostra in negativo come grande rifiuto della modernità, della mercificazione e della riproducibilità tecnica:

“A parte le macchine, tutto è assolutamente brutto nelle cose moderne, non ci si può aspettare niente. Eppure noi dobbiamo salvarci in mezzo a queste cose periture. Ciascuno dei nostri oggetti familiari deve essere scelto, esiste una potenza di talismano, noi possiamo salvarci soltanto circondandoci di oggetti che hanno un valore di salvezza”. 

La voglia di concretezza

I pensieri non investono l’artista su un solo piano e per filosofare, egli sente il bisogno del contatto con molte cose. Infatti per lui “tutto è concreto”: “il lontano come il vicino, il brutto come il bello, la cosa imputridita come la cosa sana”.

Egli incarna le idee senza parole e crede che “l’umano” sia “un misto di buono e di cattivo, di forte e di debole”. Pertanto, contro l’universalismo illuminista, Gilles celebra un tipo umano molto più concreto dei moderni intellettuali, “uomini senza spada”, “chierichetti del pensiero liberale”:

“(…) Prima gli uomini pensavano perché pensare, per loro, era un gesto reale. Pensare era insomma dare o ricevere un colpo di spada… Oggi, gli uomini non hanno più la spada”. 

L’antimodernismo di Gilles

Pur odiando il marxismo con tutte le sue forze, Gilles desidera come i marxisti la distruzione della società moderna contro la quale intende “costruire una forza attiva, libera da tutte le vecchie dottrine, un corpo franco” che abbia come fine “distruggere la società capitalista e restaurare il concetto di aristocrazia”. Si tratterebbe, scrive a un certo punto Drieu, del “partito di tutti”:

“Nazionale senza essere nazionalista, che rompa con tutti i pregiudizi, i luoghi comuni della destra, un partito sociale, senza essere socialista, che proponga riforme ardite, senza tuttavia seguire la carreggiata di nessuna dottrina”.

Negli ultimi capitoli del romanzo i dialoghi si fanno sempre più politici e Drieu dipinge, con precisione e senza remore morali, l’atmosfera di quegli anni presentando attraverso i vari personaggi prospettive politiche e tipi umani diversi.

La descrizione si fa ancora più interessante quando, tramite le avventure di Walter-Gilles, è presentata la guerra civile spagnola alla quale partecipano non solo le brigate internazionali di Stalin, ma anche gli anarchici e, da tutta Europa, vari esponenti del fronte opposto, tra cui lo stesso Gilles.

 

Luca Caddeo

‘I due stendardi’, il cult di Rebatet tradotto per la prima volta in italiano segna il ritorno della casa editrice Settecolori

Ritorna la casa editrice Settecolori: in arrivo il cult di Lucien Rebatet I due stendardi e il romanzo “La fionda” di Jünger. Fondata da Pino Grillo, è ora guidata dal figlio Manuel. In passato ha pubblicato opere di Nico Perrone, Maurizio Serra, Maurizio Cabona, Alain de Benoist e Alberto Pasolini Zanelli.

Un preannunciato ritorno in grande stile, sia pure in pieno lockdown Covid-19, della gloriosa casa editrice fondata nel 1978 da Pino Grillo. In passato, oltre a pubblicare scritti di Stenio Solinas, Grillo ha fatto conoscere in Italia opere di Robert Brasillach, Jean Cau, Langendorf, Maurizio Cabona, Alain De Benoist, Drieu La Rochelle, ha stampato testi di Giuseppe Berto, Alberto Pasolini Zanelli, Nico Perrone e Maurizio Serra (Fratelli separati. Drieu, Aragon, Malraux, 2008. Vincitore Premio Acqui Storia, 2008). Insomma libri “maledetti”, certamente non di routine e politicamente corretti.

Più recentemente, dopo la morte del fondatore, la casa editrice calabrese – ora con sede a Milano – è stata condotta dal figlio Manuel e da noti intellettuali non-conformisti a partire da Stenio Solinas all’art director Gianluca Seta. Giorni fa l’editore ha ufficializzato i programmi, invero ambiziosi, di un’editrice sui generis, non-consumista.

Se Guerra e pace di Lev Tolstoj, scritto tra il 1863 ed il 1869, pubblicato per la prima volta sulla rivista Russkij Vestnik, spaventò molti lettori con le sue 1572 pagine, tanto che l’autore dovette sopprimere a malincuore nelle successive edizioni molte parti che gli erano costate un enorme lavoro di ricerca minuziosa, altrettanto mi successe con il romanzo di Lucien Rebatet.

Un libro che si colloca tra i capolavori nascosti del nostro tempo, opera di inesauribile umanità, traboccante di musica (Rebatet fu per un lungo periodo un importante critico musicale), d’amore, di comprensione profonda del dolore. Nelle lettere francesi dovrebbe aver diritto ad un posto d’onore fra il Voyage di Céline e la Recherche di Proust.

All’impianto narrativo ‘ideologico’ Rebatet presta una cornice di stampo ottocentesco, come avrebbero potuto fare Hugo, Flaubert, Balzac, Stendhal, un grande affresco della vita sociale ed intellettuale della Francia del primo ‘900. Un po’ contraddittorio con la sulfurea personalità (o la maschera) dell’autore, che aspirava di poter ascendere l’Olimpo delle lettere francesi, non come un pamphlétaire del giornalismo d’assalto, e che invece rimase, forse a torto, anche al di sotto, nella fama postera, di un Céline, per restare ad un altro maudit.

Come efficacemente ha scritto Stenio Solinas sul “Giornale”, nell’articolo Il demonio Rebatet, piccolo ideologo grande narratore, del 2015:

Il risultato ultimo è che Les Deux Étendards è contemporaneamente un feuilleton e un testo filosofico, un romanzo d’amore e un trattato sulle passioni. Chi, una volta lettolo, pensasse di trovarsi di fronte a un Rebatet completamente diverso da quello fegatoso, isterico e sfrenato di Les Décombres, dimostrerebbe tuttavia una curiosa miopia. Non ci sono due Rebatet, uno «buono» e uno «cattivo», ce n’è uno solo, di cui il secondo è la versione più meditata, più felice, più ambiziosa e più appagata del primo. I temi dello scontro politico vengono spogliati dalle contingenze, dalle frenesie, dalle ambiguità di una scelta di campo obbligata e risistemati nell’ambito di una disfida fra concezioni del mondo dove non c’è il nemico, ma l’avversario, dove le ragioni e i torti sono equamente divisi. Non c’è la miseria dell’impegno partigiano, c’è la grandezza di chi non abbassa i propri ideali a propaganda. In carcere, Rebatet scoprì la letteratura e si riscattò dalla politica”. 

Ci sono settant’anni perché I due stendardi, romanzo dal sapore stendhaliano, pubblicato in Francia nel 1951, abbia visto la luce in Italia. All’origine di tutto c’è il il triangolo amoroso tra Michel, Régis e Anne-Marie dietro cui si cela però lo scontro tra due concezioni della vita, due morali, due estetiche.

Da una parte campeggia il misticismo di una esistenza segnata dalla fede, dall’altro il piacere e il dolore di chi vive e muore senza altro credo che il proprio valore. Attraverso le vicende, i tormenti, le aspirazioni dei tre giovani Rebatet mette in scena un potente romanzo di idee. Se l’ossessione di Michel per Anne-Marie permette a Rebatet di scandagliare il sentimento amoroso e di analizzare le sue manifestazioni con una cura, una minuzia e un’attenzione alla psicologia dell’intimità di cui non erano stati capaci nemmeno Proust e Stendhal, il cuore del romanzo rimane la ricerca se la salvezza sta nell’aldiqua o nell’aldilà.

Alla pari di Alla ricerca del tempo perduto ne I due stendardi Rebatet intreccia vite e passioni adottando tecniche di scrittura musicale anche se la chiave del libro è il cinema. Sembra di immergersi nella pura tradizione delle pellicole d’atmosfera mélo degli anni Quaranta e Cinquanta. Il rapporto tra cinema e romanzo non sfugge a Truffaut che riprende diverse scene del libro per tradurle in immagini nei suoi film e amava suggellare ogni nuova amicizia donandone una copia.

 

Fonte

“I due stendardi” di Rebatet: un romanzo d’amore e un trattato sulle passioni

‘Cambiare l’acqua ai fiori’ di Valerie Perrin, il caso letterario del momento: un libro costruito a regola d’arte

Vincitore nel 2018 del Prix Maison de la Presse, presieduto da Michel Bussi, con la seguente motivazione: “un romanzo sensibile, un libro che vi porta dalle lacrime alle risate con personaggi divertenti e commoventi”, Cambiare l’acqua ai fiori, della francese Valerie Perrin (edizioni e/o) è divenuto un fenomeno virale grazie al passaparola tra lettori, romanzo la cui forza dell’empatia che l’autrice ha conferito ai suoi personaggi, soprattutto alla sua protagonista di Cambiare l’acqua ai fiori, Violette Toussaint (in italiano significa Ognissanti) che ricorda la protagonista de L’eleganza del riccio, la quale ha avuto un’infanzia difficile, dapprima in orfanotrofio e poi, durante l’adolescenza, sballottata da una famiglia affidataria all’altra. Violette nasconde dietro un’apparenza sciatta una grande personalità e una vita piena di misteri.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, Violette cresce bene. “Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte”, dice. Conosce un ragazzo, Philippe Toussaint, un nullafacente, nel bar, dove saltuariamente fa la cameriera, e se ne innamora. O forse, vuole dare il nome di amore a qualcosa di diverso, perché l’amore lei non lo ha mai conosciuto, almeno fino a quando, da quello strano rapporto, nasce sua figlia, Leonine.

Ma il destino avrà in serbo per lei altre avversità, perché “la vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama”. E solo come custode in un piccolo cimitero di una cittadina della Borgogna, Violette troverà un po’ di quiete. Durante le visite ai loro cari, tante persone vengono a trovare nella sua casetta questa bella donna, solare, dal cuore grande, che ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre pronta a offrire un caffè caldo o un cordiale. Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto.

Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime, che parevano nere, si rivelano luminose. Attraverso incontri, racconti, flashback, diari e corrispondenze, la storia personale di Violette si intreccia con mille altre storie personali in un caleidoscopio di esistenze che vanno dal drammatico al comico, dall’ordinario all’eccentrico, dal grigio a tutti i colori dell’arcobaleno. La vita di Violette non è certo stata una passeggiata, è stata anzi un percorso irto di difficoltà e contrassegnato da tragedie, eppure nel suo modo di approcciare le cose quel che prevale sempre è l’ottimismo e la meraviglia che si prova guardando un fiore o una semplice goccia di rugiada su un filo d’erba.

Consolando gli altri, Violette capisce che “c’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi … perché la sepoltura più bella è la memoria degli uomini”.

Di questo libro, osannato anche dalla critica nostrana, si è usata un’espressione abbastanza banale, ovvero “entra nel cuore del lettore”che si adopera quando si ha poco da dire su un libro che piace ma che non ha sale e per scrivere un buon libro non basta una buona storia qual è quella di Come dare l’acqua ai fiori.

Una storia che prende certamente quella della Perrin in cui ognuno di noi può immedesimarsi, complice la scorrevolezza della lettura: la trama è un susseguirsi di tragedie, piccole letizie, ricadute, frasi scontate sul concetto di morte, frasi confezionate ad hoc per i social. La struttura del libro è fatta a regola d’arte, una alternanza tra la narrazione del presente e quella del passato, con l’inserimento di diari privati, trascrizioni di dialoghi, lettere e ricordi nostalgici, quasi tutto in prima persona, una mossa editoriale vincente. Come l’incipit:

“I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. (…) I miei vicini sono morti”. 

 

Come libro da ombrellone, il delicato Cambiare l’acqua ai fiori è l’ideale, alla fine però non resta granché. Nulla che possa davvero scuotere o indurre a rileggere i punti salienti. Se ne esce illesi, dopo essersi chiesti all’inizio del libro chi fossero i responsabili del dolore della protagonista e naturalmente come andrà a finire la vicenda.

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