Francesco Scarabicchi (Ancona, 10 febbraio 1951 – Ancona, 22 aprile 2021) è il poeta osservatore, cultore della parola intesa come accoglimento di ogni dettaglio. Nativo di Ancona resta orfano di padre a dieci anni: dopo aver conseguito il diploma magistrale si iscrive all’Università di Urbino ma, ben presto, lascia gli studi per lavorare in banca, impiego che mantiene per trent’anni. L’incontro con il poeta Franco Scataglini determina quella sarà la sua strada: la poesia.
La poetica di Francesco Scarabicchi nasce dalla consapevolezza: quella presa di coscienza realistica in ogni sua sfumatura, dalla bellezza all’intensa sofferenza. Peculiarità primaria del poeta marchigiano è, senza dubbio, la proiezione di ogni emozione nel reale: Scarabicchi non introietta, ma proietta ogni suo sentire nei versi, nella poesia, nella parole che sceglie con cura per cantare le pieghe delicate della sua anima.
Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.
Così si apre Il prato bianco, la raccolta del poeta ripubblicata da Einaudi nel 2017. La poesia di Scarabicchi sembra muoversi in un continuo flusso di malinconia antica e nuova che non fa sconti alla realtà ma, anzi, la inserisce in ogni locuzione, ogni strofa, ogni semantica possibile. Porzioni di reale si intersecano in un lessico semplice ma curato che richiama un certo stile senza orpelli e, al contempo, ricercato.
Nel fondo
Il poco più di notte
che si attarda
sul manto delle more
non tradisce
quel che di te non dici,
gli anni muti scivolati nel fondo,
in lontananza.
La dimensione naturalistica e analogie con la poetica di Giovanni Pascoli
Nella raccolta Il prato bianco è chiara l’influenza del Pascoli: il modello sembra rimandare agli ingenui stupori del fanciullino, tuttavia appare chiara al lettore anche una certa analogia riguardante il linguaggio stilistico usato dai due autori. In Giovanni Pascoli abbiamo una minuzia nella narrazione che riguarda la descrizione e la menzione del paesaggio naturale. Si pensi a componimenti come L’assiuolo, L’aquilone o L’ora di Barga; la silloge Myracae così come i Canti di Castelvecchio, e in generale tutta la poetica pasco liana, è attenta a dare la giusta accezione a ogni soggetto presente in natura. Un rimando che si nota anche in Scarabicchi quando parla del manto di more, l’ombra dell’erba, le aiuole, i giardini: la natura è presente anche nei versi del poeta marchigiano, tuttavia il lessico si pone su una linea di comunicabilità con lettore, pur annoverando qualche tecnicismo. La dimensione naturalistica-paesaggistica e quella famigliare e personale che allude al ricordo e al tempo che scorre, si fonde e plasma la poetica di Scarabicchi: due peculiarità che ricordano la poetica Pascoliana. Un esempio tangibile lo si può constatare nella poesia Luci distanti:
Il muschio è quell’odore che non muta
la sua antica infantile identità,
come se fosse sempre ovunque Ortona,
nel silenzio notturno che qui scende,
camera d’un albergo di provincia,
luci distanti che dai vetri vedo,
se appena un po’ m’accosto dopo cena.
Cadrà sempre la neve in ogni tempo,
sarà bianca com’era, fresca e intatta,
nasceranno bambini dai suoi fiocchi
come piccoli uomini che vanno
al paese incantato inesistente
che ciascuno conosce, se rammenta
l’albero dai bei doni illuminato.
I personaggi galleggiano in una dimensiona naturalistica, trasportati da un’atmosfera che rimanda sempre ai tempi dell’infanzia e, senza voler osare, quasi attingendo alla poetica crepuscolare: i luoghi abbandonati, le strade di provincia, le antiche e mitiche memorie di un tempo che non tornerà. Stesso topos descritto nei versi di Biglietto di settembre:
Questa pioggia che senti
giovane lungo i muri
picchia, se fai silenzio,
ai nostri vetri,
bagna inferriate e foglie,
crolla dalle grondaie,
allaga il buio,
cancella ponti e polvere
e scompare.
Il pensiero di Scarabicchi, tuttavia, è concreto: il poeta non è un veggente, esiste una sola realtà che è quella sensibile e l’artista non ha accesso a nessun altro tipo di dimensione più alta e privilegiata. L’esistenza, per Scarabicchi, resta incasellata in un perfetto ‘’Eterno ritorno’’ che ne evidenzia la replicabilità, il grigiore e la sua limitatezza. La poesia, in questo caso, è solo un mezzo che ha il delicato compito di cercare e donare un barlume di ragionevolezza nella realtà delle cose, dei giorni, della vita e del suo fluire. Il poeta, in questo caso, non è un profeta ma uno spettatore che diviene interprete delle circostanze attraverso la poesia; le parole sono quindi l’ unico mezzo per accedere e comprendere la realtà.
Il tema della morte nella raccolta ‘’La figlia che non piange’’ e il valore della parola custode di memorie
La figlia che non piange è la silloge di Scarabicchi pubblicata postuma, da Einaudi, nel 2021. Qui, il poeta scomparso nell’aprile dello stesso anno, riflette sul tema della morta intesa come ultimo traguardo dell’uomo e come parte stessa e imprescindibile della vita di ognuno. Scarabicchi, anche in questa raccolta, affronta di riflesso argomenti come il tempo e il ricordo; la silloge è infatti una lunga riflessione sui momenti ormai passati e sfumati, nell’amara constatazione che mai più faranno ritorno.
Prologo
Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.
Scarabicchi procede in un racconto dove la dimensione temporale, il ricordo e la morte si intersecano in versi chiari e delicati. Non è un lamento, il suo, ma la contemplazione di quello che è stato, scompare e permane come si può constatare nel componimento Qui regna il tempo che scompare:
Qui regna il tempo che scompare,
la fuga sua invisibile,
il nome che non resta,
giorno della stagione, breve resa,
limite d’ogni soglia inesistente.
E ancora l’istante che si somma agli altri e che ricrea una dimensione temporale che ammanta emozioni, esistenze, periodi e che prende, parafrasando ancora Scarabicchi, solo per lasciare ancora:
Ah
Ah, il tempo che passa alle mie spalle,
sulle mie scarpe nuove, sulla pelle,
il giovane tempo che non ho incontrato,
il tempo abbandonato a mia insaputa,
quello smarrito lungo vie contrarie,
il tempo solitario d’ogni notte,
il tempo che mi viaggia e non ritorna,
tutto il tempo del tempo che c’è stato,
il tempo immaginato che perdòno,
quello di un’altra estate che scompare,
il tempo innamorato che è lontano,
il tempo che si volta non si ferma,
il tempo muto che si fa guardare,
il tempo intero che non puoi pensare,
quello che prende solo per lasciare.
I luoghi e i tempi permangono solo nella poesia, unica dimensione che accoglie e coglie ogni sottigliezza che nella realtà della vita, e agli uomini, spesso sfugge: ecco, così, che solo la poesia riesce a salvaguardare e far durare in modo sempiterno relazioni e sentimenti in quanto la parola, nella sua insita peculiarità, è sia uno scrigno custode di ricordi che una messaggera di memorie erranti nel tempo senza che la sua essenza venga mai scalfita.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è il romanzo che consacra al grande pubblico Carlo Emilio Gadda. Lo scrittore milanese, all’inizio del 1946, comincia a scrivere un racconto giallo, un genere che per altro lo aveva sempre affascinato.
Il caso di cronaca locale di un omicidio di due vecchie signore romane per mano di una ex domestica ispirano Gadda per la stasera della sua opera. Presto il racconto si trasforma in romanzo.
Pietro Citati, che aveva conosciuto Gadda alla fine degli anni ’55 e all’inizio del ‘56 nella prefazione scrive: “Gadda iniziò il Pasticciaccio alla fine del 1945: durante il 1946 e l’inizio del 1948 compose, circa 220 pagine con quell’impeto, quella furia, quella velocità quell’urgenza esplosiva” che conosceva nei momenti di ispirazione.” Le prime cinque puntate escono sulla rivista “Letteratura” e una sesta viene annunciata, anche se mai pubblicata.
Nel frattempo, lo scrittore prende contatti con autorevoli case editrici per un’edizione dell’opera in volume. Gadda è diviso tra l’attività letteraria e il suo lavoro alla redazione romana della Rai. In quegli anni la stesura si fa lenta e discontinua ma comunque prosegue fino al decimo capitolo. Nel frattempo, gli scritti precedenti vengono sottoposti ad un’accurata revisione.
Nel luglio del 1953, un giovane Livio Garzanti propone a Gadda di ultimare il Pasticciaccio, offrendogli un cospicuo anticipo. Il ’55 e il ‘57 sono stati il periodo di maggiore vitalismo letterario, infatti, nel giugno del 1957, Garzanti riceve l’ultimo capitolo. A distanza di un mese il libro appare nelle librerie, tra dibattiti, polemiche ed entusiasmo. Gadda ne promette in seguito ma poi abbandona l’idea. In un intervista lui stesso dichiara che “l’opera è letterariamente conclusa”
Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana: trama
Siamo a Roma nel Febbraio del 1927. Da due anni Mussolini ha instaurato il regime fascista: l’ordine deve regnare ovunque e non può essere turbato. Nel palazzo di Via Merulana, conosciuto come il palazzo degli ori, vivono ricchi borghesi. Un finto operaio si introduce in casa della contessa Menegazzi e rapina la donna di gioielli e denaro.
L’indagine è condotta dal commissario Don Ciccio Ingravallo, molisano, 35 anni. Il commissario appura che il rapinatore ha un complice. Unico indizio, un biglietto del tram, caduto dalla tasca del ladro. Dopo le prime investigazioni e testimonianze i sospetti ricadono su un giovane con una sciarpa verde.
Dopo tre giorni nello stesso palazzo, proprio dirimpetto all’appartamento del furto si consuma un omicidio. L’affascinante, Liliana Balducci, che spesso aveva ammaliato il commissario, viene trovata uccisa con un profondo taglio alla gola. L’efferato omicidio colpisce molto Ingravallo sia perché conosceva bene la donna sia perché l’esecuzione si era rivelata estremamente violenta. Iniziano parallelamente le indagini per entrambi i casi, anche se il commissario non crede che i due fatti siano collegati.
Il Primo ad essere sospettato è il cugino della vittima, il dottor Giuliano Valdarena. È stato lui a rivenire il cadavere della cugina e a dare l’allarme. Il ritrovamento a casa sua di un gioiello e di contanti non fanno altro che avvalorare i sospetti. Dall’interrogatorio emerge che Liliana è ossessionata dall’impossibilità di avere figli. Mancanza che colma circondandosi di serve e nipoti acquisite, accolte in casa per brevi periodi. Da Giuliano, Liliana vorrebbe un figlio, ma da buona cristiana e moglie innamorata di Remo, desiste. Si accontenterebbe di adottare, almeno idealmente, il figlio che nascerà dal matrimonio del cugino con la sua sposa. Come regalo di nozze dona al cugino un monile e dei soldi. Valdarena viene scagionato.
In commissariato giunge da Don Corpi, il confessore della Balducci che dà lettura del testamento. Da questo momento le indagini si spostano sulle ipotetiche nipoti e domestiche. Ingravallo è coadiuvato nel lavoro dal Commissario Fiumi e il brigadiere Pestalozzi. Si ritorna a sospettare del giovane con la sciarpa verde e le indagini si spostano nel paese di Marino a sud di Roma. Le indagini si concentrano su Zamira Pàcori, una maga-tintora, fattucchiera e sarta che ha ritinto la sciarpa e sul suo laboratorio brulicante di donne. I gioielli della contessa Menegazzi, oggetto di un turbato sogno del brigadiere, vengono ritrovati in un casello ferroviario e grazie ad altri interrogatori si identifica il giovane dalla sciarpa verde che però resta da rintracciare.
Il romanzo si interrompe bruscamente con la perquisizione della povera casa e l’interrogatorio di Ingravallo ad una delle cameriere della donna uccisa.
I contenuti dell’opera
I dieci capitoli si dividono in due grandi parti: i primi cinque raccontano la scoperta dei delitti e le prime indagini nel mondo della borghesia romana, i cosiddetti “pescicani”, che avevano saputo arricchirsi. Gli altri cinque vedono sposarsi gli inquirenti nel sottoproletariato con la sua realtà povera e tratti grottesca della campagna romana, ai margini della capitale. Nonostante una trama profondamente disgregata, Gadda vuole essere realista e raccontare dunque una realtà oggettiva, un mondo sociale misto variegato, che parla con voci diverse, producendo una vera e proprio sinfonia. La voce dell’autore si mescola a quella dei personaggi e non è più riconoscibile.
La trama diventa sempre più intricata nel proseguire delle indagini e nel susseguirsi di ipotesi diverse e dispersive rese magistralmente da Gadda attraverso digressioni, frasi costruite in lunghi periodi e divagazioni. La struttura romanzesca è aperta e dà l’impressione di durare all’infinito.
Ciò che è emerge è un groviglio. Il commissario Ingravallo, alter ego di Gadda, con ostinazione e rigore si impegna nelle indagini e nella ricerca della verità pur essendo consapevole che lo gnommero, il gomitolo aggrovigliato del fattaccio è inestricabile perché come scrive Gadda nel Pasticciaccio “non esiste la casuale di un fenomeno, esiste una molteplicità di causali convergenti che finiscono per strizzare nel vortice del delitto la debilitata ragione del mondo”.
Il Pasticciaccio a cui allude il titolo del romanzo è sì il delitto che si è consumato a Via Merulana ma figuralmente anche il caos e la terribilità delle cose del mondo. Gadda ha vissuto la guerra, le trincee, l’abbrutimento e gli orrori e ha sperimentato sulla sua pelle la falsità, l’ipocrisia, il marciume e la corruzione della società, derivanti dalla guerra. Il pasticciaccio vuole essere anche un quadro disincantato e polemico della vita sociale dell’Italia fascista con i suoi aspetti a volte grotteschi vanagloriosi. Quadro che non è solo dell’ambiente romano ma si estende a tutta la nazione che ha lasciato cadere tutti i valori e gli ideali in cui Gadda aveva creduto da giovane. La sua delusione si riversa irrimediabilmente nella sua poetica e nelle sue opere.
Il motivo del giallo, assume un forte valore simbolico, le indagini adombrano quella esplorazione del reale a cui Gadda è teso: la ricerca spasmodica di un ordine al di là del garbuglio, del pasticcio.
La struttura tradizionale del giallo prevede una linearità: delitto, indagini e scoperta del colpevole. Ingravallo e quindi Gadda non crede in questa linearità per questo imbastisce un intreccio aggrovigliato e divagatorio che conduce il lettore allo smarrimento. La scelta di interrompere il romanzo ex abrupto non è casuale anzi è preventivamente programmata dallo scrittore. La visione delle cose così invischiate nel male è incompatibile con la rassicurante morale del giallo. Il fatto che il romanzo resti incompiuto e che quindi l’assassino non venga scoperto, sembra indicare la vanità della ricerca ma anche il suo fallimento.
Il rapporto traumatico dell’autore con la realtà si scorge anche nello stile e nel linguaggio. Lo stile gaddiano è barocco: lo scrittore ama giocare con le metafore e deformare le parole, caricandole di doppi sensi e allusioni. Emblematico in questo senso è il capitolo 8 del libro. Il pasticciaccio è la summa dell’esperienza gaddiana: in esso si mescolano stili diversi, dall’aulico al triviale, dal tragico al comico.
Ciò che regna nell’opera è la pluralità dei linguaggi e mescolanza caotica di elementi diversi. Alle variopinte sfumature del dialetto romanesco si aggiungono il dialetto laziale della campagna romana, il napoletano dei burocrati dei poliziotti, accento il molisano del commissario Ingravallo, dialetto Veneto della contessa Menegazzi e una serie di linguaggi diversi, tecnici, lingue straniere, espressioni colte, basse e gergali. Il plurilinguismo raccoglie e rispecchia la frantumazione sociale presentando molte delle innumerevoli facce dell’Italia.
Quer pasticciaccio de Via Merulana è l’opera maggiore di Carlo Emilio Gadda. Per qualcuno astruso per qualcun altro geniale, ad oggi resta ancora un capolavoro indiscusso.
L’arte sacra al giorno d’oggi può fare scalpore e dare il via a polemiche sterili e sciocche; è il caso dell’artista veneto Saturno Buttò che cerca di entrare nell’animo umano attraverso la pittura in discontinuità con la tradizione pittorica, sottolineando gli aspetti più sgradevoli ed inquietanti che straniscono chi guarda aspettandosi di trovarsi davanti a un Beato Angelicoo Annibale Carracci.
Buttò sembra sfidare l’appassionato d’arte e non a vedere quello che non vogliamo vedere e che eppure siamo in grado di manifestare ogni giorni inconsapevolmente immersi nella frenesia e nella confusione della società contemporanea. L’artista veneto ci sbatte in faccia la caducità del corpo umano, le manie della mente umana, la pesantezza della nostra anima che si riversa sull’aspetto fisico. Il linguaggio artistico utilizzato da Buttò è magnetico: gotico, bizantino, fiammingo, barocco, nella sua migliore tradizione europea che ricorda artisti come Hugo van der Goes, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Jeronymous Bosch per la monumentalità di certe pose e per l’astrazione soprannaturale, fino ad arrivare ad artisti contemporanei come Joel Peter Witkin, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano per il modo di concepire la preparazione della tavola come se fosse una scena di un set fotografico e una certa teatralità dello spazio e dei soggetti che lo occupano.
L’intera produzione di Saturno Buttò è una visione di disperazione, dolore, sangue, erotismo, aspirazione verso l’Alto: la rappresentazione della realtà, sviscerata in una rigorosa e contraddittoria iconografia religiosa occidentale nei confronti del corpo, da un lato esibito come oggetto di culto, dall’altro negato nella sua valenza di pura bellezza erotica che promette il paradiso, è anche intesa in senso simbolico da cui scaturisce una tensione che esalta la figura umana presentata una volta con “toni elevati” altre con quelli dell’abbiezione.
Le paradossali figure umane di Saturno Buttò, attori e attrici dark della loro indole, potrebbero vagabondare tranquillamente in un romanzo di Dostojevskji o Bulgakov, divisi tra il Bene e il Male, tra voglia di salire al Cielo e quella discendere nel sottosuolo, portando sulle spalle il fardello della libertà che è il vero abisso che affascina tutti: Buttò ci fa vedere quanto siamo attratti dal male, ma la sua scoperta e intellegibilità significa anche vittoria e bellezza tanto cara all’artista, perché possiamo essere certi che il mondo di può conoscere e persino nell’inferno terreno, possiamo vivere di attimi che hanno del miracoloso. Gli uomini e le donne di Buttò sono entità che de-creano, cercando di smarcarsi da menzogne idealizzate per giungere alla verità soprattutto attraverso la sensibilità più che con la ragione. I visi e i corpi dei suoi protagonisti (soprattutto donne a volte illuminate dalla Grazia il più delle volte invece luciferine, richiamano alla mente alcuni versi terribili di Baudelaire: “Ahimè! Tutto è abisso – l’azione, il desiderio, il sogno, la parola! E tra i miei capelli che si rizzano completamente sento passare di frequente il vento del Terrore”.
Non solo. Come cantava il celebre poeta francese, le tavole (non tele, a dimostrazione che la sua arte vuole inserirsi nella grande tradizione pittorica del Quattrocento, Cinquecento e Seicento) di Buttò sembrano esprimere al contempo un senso di attrazione e repulsione per il mondo contemporaneo e per l’essere umano stesso che è il medesimo da sempre. D’altronde gli incubi hanno origine divina e l’artista di Portogruaro innalza la decadenza mentale che corrisponde a quella fisica, a stato demoniaco che ha la stesso valore sacrale e solennità delle opere bizantine e classiche, mostrando come lo stesso concetto di “sacro” sia ambiguo”. La rappresentazione degradante della sensualità, propria di Baudelaire, e in particolare delle combinazioni donna-desiderio-morte-decomposizione rispondono ad una tradizione cristiana sempr esistita, specialmente verso la fine del Medioevo, che nella personale interpretazione di Buttò diviene rappresentazione di uno sterile appagamento dei sensi dell’uomo contemporaneo in una visione di artificiosità. A differenza di Baudelaire, Buttò è artista divertente e divertito, ludico che ancora non sa se credere o meno, certamente cerca, osserva, è attratto dalla spiritualità come se questa fosse un magnete, e la cupezza religiosa che ha grande potere evocativo, quell’oscurità che ha sempre accompagnato la fede e di conseguenza anche l’arte.
Sorprende come un’opera in particolare, ovvero “Blade Lovers” possa richiamare alla mente le parole del poeta maledetto in merito all’amore: “L’amore è molto simile a una tortura o a una operazione chirurgica. Anche se i due amanti sono molto innamorati e colmi di reciproci desideri, uno dei due sarà sempre più calmo o meno invasato dell’altro. Quello, o quella, è l’operatore, ovvero il carnefice; l’altro, o l’altra, l’assoggettato, la vittima”.
L’amore dunque, anche per Buttò può avere sia l’aspetto romantico, dolce, che quello balordo e ubriaco, che ha il colore del sangue, una sete carnale dunque; così come la Natura, seguendo ancora il pensiero di Baudelaire, non ha nulla di bello, è solo caos e abominio divino, contro il quale l’uomo può combattere possedendo lui l’arma della bellezza, la sua bellezza, che è artificio ed imitazione della natura stessa.
L’altra componente quasi sempre presente delle opere di Buttò è il sangue che ha valenza sacra, rituale, sessuale, vitale, alimentare. Il sangue, come dice anche la Bibbia è il sostrato materiale della vita del corpo che è a sua volta l’unità di misura dell’artista veneto che si muovo tra purezza e impurità. La vita, di cui il sangue come sostanza è principio, impregna la “carne”, basti pensare che nei primi cinque libri dell’Antico Testamento la parola “carne” è quasi del tutto priva di una connotazione morale negativa, nella misura in cui denota tutta la materia organica dotata di vita.
Dati questi elementi, si può affermare che Buttò, riprendendo le parole dell’antropologa Camille Paglia, ignori l’armonia, l’ordine e la bellezza della Natura dietro un apparente caos che chiamiamo tale solo perché non siamo in grado di riconoscere determinati segni, flussi e cicli. Il caos è tutto nella mente e nella visione spesso distorta dell’uomo, che Buttò vestendo spesso i panni del dandy, rappresenta nelle sue sfumature, compresa quella dell’insofferenza verso tutto ciò che è naturale. Anche dietro l’apparente blasfemia e pornografia (che non è una sorella dell’arte, come sostiene l’artista, semmai una banale deriva che prende chi non sa fare Arte anche un urinatoio) delle opere di Buttò. Si legge dunque un desiderio di veicolare bellezza, ironia e gioia di vivere, dando voce alle pulsioni e ai mutamenti (anche sessuali) dell’uomo, persino del santo, del martire, ai suoi riti primitivi e quotidiani, alle ierogamie, alle messe nere, lasciandoci con almeno un paio di domande: l’estasi religiosa è anche un’esperienza sessuale che è semplicemente una prova che si è vivi? Bisogna davvero annientare il proprio corpo per avvicinarsi a Dio? E una quasi certezza: il mondo sotterraneo, buio e pauroso non è la sede del male e delle tenebre, ma anche in esso vive la nostra anima. Ciò che sta sotto non sempre è sinonimo di degrado, ma può significare semplicemente profondità. Quella profondità che non capiamo da dove provenga ma che ci fa vivere anche “involontariamente” come ci mostrano molti dei personaggi di Buttò che hanno la “tentazione di esistere”, per dirla alla Cioran e come Cioran, l’artista veneto, esorcizza i nostri fantasmi, sublimandole tenebre per approdare all’amore, profumando i protagonisti delle sue opere, che apparentemente sanno di marcio, incastonandoli nella solennità dell’arte metafisica e nella bellezza del soprannaturale.
La carriera espositiva di Buttò comincia nel 1993, anno in cui viene pubblicata anche la sua prima monografia “Ritratti da Saturno: 1989-1992″. Da allora seguono numerose esposizioni personali in Italia, Europa e negli Stati Uniti. Oltre ad altri due volumi monografici “Opere 1993-1999″ e “Martyrologium” (2007), la galleria Mondo Bizzarro di Roma in occasione della recente mostra ha pubblicato l’ultimo catalogo in ordine di tempo: “Blood is my favourite color” (2012).
1 Cosa l’ha spinta verso l’arte sacra?
Il sacro è prima di tutto un interesse legato alla nostra cultura e al senso di appartenenza piuttosto che alla devozione in sé. Inoltre la spiritualità, nel mio lavoro, è una parte della ricerca che vuole indagare sulla natura umana nella sua completezza. Tuttavia credo di aver avuto, da sempre, una certa “attitudine” per il trascendente. Sono affascinato dalla liturgia cristiana, il suo cerimoniale, la musica sacra. Insomma la monumentalità espressa nel rito liturgico. Poi, naturalmente, c’è l’arte figurativa, italiana ed europea quella che va dal ‘400 al ‘600 che, per quanto mi riguarda, ha dato un contributo essenziale in questa direzione.
2 C’è più luce o oscurità ad avvolgere il il sacro e la fede religiosa?
Ancora oggi io non riesco capire se sono un credente oppure no. Rimane il fatto che questo “mistero della fede” è un’altra grande questione che alimenta il mio immaginario. Non dimentichiamo che è il mistero e tutto ciò che non conosciamo a renderci curiosi. Senz’altro ci vedo più oscurità che luce nel fenomeno in sé . Questo perché non ho una grande considerazione dell’uomo, in generale. Al di là di una personale e intima spiritualità, spesso non ben definita, nella religione ci vedo tutte le “debolezze” di una politica coercitiva. Probabilmente necessaria, ma assolutamente troppo invasiva. Dove, di fatto, non c’è coerenza, anzi, dove ci sono tante contraddizioni. Tuttavia è anche proprio in questa “oscurità” che la mia immaginazione trova alimento… é in un contesto così poco trasparente che nascono e si rinnovano continuamente le idee, che si rivelano essere esercizi di emancipazione. Io lo devo ammettere, la “cupezza” della nostra religione è stata sempre molto evocativa.
3 Cosa considera sacro l’uomo contemporaneo e perché?
Non sono un sociologo, ma, per quello che vale, posso esprimere la mia opinione sulla base di quello che percepisco quotidianamente. Ormai l’informazione e in un qualche modo la cultura sono appannaggio dei più. Questo ridimensiona molto il senso del sacro tradizionale. Oggi si tende a celebrare l’idolo più del dio. Non è particolarmente edificante come condizione, ma basta osservare le tendenze giovanili per capire che c’è più attenzione verso una rock star che per Gesù. Insomma io vedo una graduale e continua disgregazione dei valori sacri e la colpa è anche della chiesa che non si apre mai abbastanza in fretta ai cambiamenti sociali.
4 Le sue opere traboccano si sensualità, inquietudine, gusto per il gotico e per il grottesco, ma anche di spiritualità e ricerca di profondità e del definito, in questo modo vuole solo rappresentare la figura umana di oggi o la sua è una riflessione sull’uomo di ogni tempo?
La mia vorrebbe essere una riflessione sull’uomo nella sua completezza, non considero la natura umana così diversa nel tempo. I temi dominanti rimangono sempre gli stessi e primi fra tutti sessualità e spiritualità, appunto. Tuttavia io vivo il mio tempo storico. E dunque mi pongo in relazione al soggetto attraverso tutte le implicazioni possibili oggi. Nel dipingere una figura umana contemplo la sua personalità insieme all’archetipo, questa osservazione genera una condizione di identità e identificazione che ne determina la contemporaneità!
5 I suoi personaggi sono in tensione tra Alto e Basso, tra erotismo e dolore, purezza e degrado. È
questo per lei il sublime artistico?
Direi assolutamente si! Diversamente agirei con altre forme e contenuti. Come accennavo sopra la priorità è determinare una contemporaneità nell’esecuzione di un opera e questo si manifesta (nel mio caso) con una visione a 360 gradi sull’individuo. Contemplandone ogni dettaglio, per quanto disturbante. Una formula obbligata se non si vuole scadere in una sorta di arte decorativa fine a se stessa.
6 Quali artisti l’hanno influenzata maggiormente?
L’arte ellenistica, il nostro rinascimento e in qualche modo il glamour Hollywoodiano sono stati un grande stimolo per la mia ricerca. Devo aggiungere anche alcuni fotografi contemporanei: Joel Peter Witkin, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano sono stati di ispirazione per il mio lavoro. Non ho trovato invece riferimenti nella pittura del ‘900. Fatta eccezione per Francis Bacon non mi sono mai sentito particolarmente interessato verso altri artisti figurativi. In sintesi il modello sul quale baso il mio lavoro è un connubio tra l’arte classica (supporto tecnico) e una ricerca fotografica non documentaristica (parte concettuale).
7 L’arte contemporanea che ha successo è solo quella riproducibile e concettuale?
Io direi proprio di sì. Ed è giusto che sia così. Lo affermo mio malgrado, dal momento che la mia ricerca va in direzione opposta. Ritengo cioè un punto alto l’unicità e non riproducibilità dell’opera. Purtroppo il problema di questi media (mi riferisco a pittura e scultura) è, quasi sempre, la totale mancanza di originalità, di contemporaneità della rappresentazione. Una sorta di anacronismo che permea il lavoro di pittori e scultori tradizionali, concentrati perlopiù a dimostrare la loro bravura tecnica piuttosto che rischiare l’impopolarità inseguendo percorsi più originali. Ci sono delle eccezioni (almeno lo spero, naturalmente), ma è un po’ come è successo nel secolo scorso con Lucien Freud, Balthus, Bacon stesso. Pochi artisti di grande personalità semplicemente “non allineati” e dunque ingestibili da un sistema che si basa sui numeri del mercato dell’arte.
8 Ne “La sposa ebbra” sembra consumarsi un rito laico dove il vino rende possibile l’estasi cristiana delle sante che però assume risvolti bizzarri…
In un qualche modo lo si potrebbe leggere anche così. Del resto è mia opinione che molti siano i punti in comune tra Paganesimo e Cristianesimo. In questo caso, dal sacramento del matrimonio, la sposa e le due damigelle si trasformano in sacerdotessa e baccanti di chissà quale rituale, grazie al vino. Il mio intento era quello di manifestare una idiosincrasia verso le regole in generale. Molto sinteticamente: il caos dionisiaco che prende il sopravvento sull’ordine apollineo.
9 L’arte contemporanea esprime poetiche complesse proprio nel superamento interdisciplinare delle dicotomie tra uomo e tecnologia. Lei come si pone di fronte a questo fenomeno?
E’ prerogativa dell’arte anticipare cambiamenti e mutazioni di ordine sociale. Sempre di più siamo testimoni di un percorso nuovo intrapreso dall’umanità che ci porterà a convivere con situazioni dove la dicotomia uomo-tecnologia non sarà più tale. E’ una riflessione che mi accompagna da molto tempo, tuttavia non credo di avere gli strumenti tecnici adatti per esprimere compiutamente tale fenomeno. Decisamente i media extra-pittorici si riveleranno più adatti. Con l’arte figurativa per non scadere in “banali soluzioni illustrative” bisogna porre l’attenzione a piccoli dettagli capaci di far intuire tali poetiche. Un percorso più difficile, ma non improbabile… In fondo è proprio questo il problema delle arti tradizionali rispetto ai nuovi media, lo stesso concetto espresso poco sopra. Se non si è capito, io sono decisamente critico nei confronti dell’arte figurativa. Compresa la mia s’intende.
10 Cos’è per lei il corpo? Il Cristianesimo è l’unica religione secondo la quale a risorgere saranno anche i corpi, tanto che un teologo di cui non ricordo il nome sosteneva che se si vuole sapere se una persona è davvero cristiana bisogna chiederle se questi crede alla resurrezione dei corpi o all’immortalità dell’anima, la Bibbia pullula di erotismo. Insomma il corpo siamo noi? È la nostra identità che la contemporaneità indica come un retaggio culturale, una sovrastruttura, che si può cambiare?
Il corpo è la mia unità di misura! Nel mio lavoro mi sono sempre rapportato al corpo, prima (in quanto forma) e solo dopo alla mente (deve essere per deformazione professionale). I vari detti popolari tipo: “Mens sana in corpore sano” non sono poi buttati lì a caso. Dunque per me è il punto di partenza, senza il quale mi sentirei incapace di pensare in termini creativi. Naturalmente il corpo è anche bellezza, rivelazione, desiderio e mistero (ancora una volta). Il Cristianesimo è la religione del corpo, ed io nutro una profonda riconoscenza, proprio in virtù del fatto che essa lo ha celebrato e reso oltremodo iconico. Un percorso iniziato dai greci che caratterizza l’occidente nella sua visione del mondo in cui io, semplicemente, mi riconosco. Detto questo però non oso affermare che il “corpo siamo noi”. Non ho e non ci sono certezze e qui ritorniamo al “mistero della fede” sopra espressa. Posso invece aggiungere che il corpo umano si modificherà! Come tutto del resto del creato, anche noi viviamo in una continua trasformazione. Forse qualcosa di importante in questa direzione è già iniziato, prevedo una fusione tra generi maschile e femminile relativamente presto. Sempre che si riesca a salvare il pianeta nel frattempo.
11 I protagonisti delle sue opere sembrano essere spiate più che accompagnare, guardate con amorevolezza da Dio, è in parte così?
Ma certamente! Questo è un retaggio della religione cattolica che ci ha inculcato idea del peccato. Cosa che trovo stimolante sia ben chiaro. Anche perché poi viene contemplato il perdono, seppur dopo un sincero pentimento e qui si potrebbe discutere… Comunque sia, le mie rappresentazioni hanno, molto spesso, a che fare con un rituali considerati peccaminosi o comunque con pratiche decisamente intime legate sia alla religiosità che alla sessualità. Questa è la ragione per cui le scene si svolgono in ambiti dove non c’è luce naturale. Stanze chiuse, luce controllata artificialmente, una messa in scena quasi teatrale dove i protagonisti compiono un determinato rituale, intimo perlopiù, forse rivolto a pochi iniziati… in definitiva è la giusta osservazione da fare: il fruitore diventa un privilegiato voyeur intento “spiare” ciò che nell’opera sta accadendo.
12 L’esposizione che l’ha gratificata di più?
Ci sarebbero più esposizioni personali a cui sono particolarmente legato da bei ricordi, a Roma, Los Angeles e San Francisco. Ma citerò la personale di Spinea VE del 2018, perché la location era speciale. Non una galleria ma una chiesetta del ‘600 dove le mie opere dialogavano con gli affreschi del luogo. Inoltre per l’occasione ho realizzato quella che per me potrebbe rivelarsi come l’unica pala d’altare possibile “Paradise Decadence” (giusto perché si trattava di una chiesa sconsacrata).
13 Le sue tavole paiono volerci dire: accettare il Mistero della fede, della Vita, solo così possiamo in parte placare le nostre ossessioni e relazionarci a Dio, in tal senso, il tormento è un passaggio necessario?
Difficile rapportarsi alla vita escludendo tormenti interiori. Però possiamo ironizzare…
14 Cosa pensa dia più fastidio o irriti delle sue opere e cosa vorrebbe irritasse di più in senso positivo, smuovendo qualcosa in chi li osserva?
Credo che le persone, ancora oggi, si aspettano di osservare in un dipinto figurativo temi conformi alla tradizione pittorica. Dunque soggetti come il paesaggio, la natura morta e il ritratto. E nel caso di quest’ultimo, che esso sia sostanzialmente “composto”. Delegando alla fotografia o altri media extra-pittorici diciamo così, “tematiche diverse”. A me invece diverte l’idea di toccare corde più profonde, dipingendo! Escludendo paesaggi e nature morte che non mi appartengono, nel rappresentare la figura umana voglio entrare nel profondo dell’anima. Mettere in rilievo aspetti del tutto personali, intimi. Evidenziarne fragilità e debolezze. Il desiderio, la libido, le parafilie. Sottolineare la transitorietà e caducità dell’aspetto fisico. E, soprattutto, ribadire quanto siano vicine tematiche come la sessualità e la spiritualità. E’ del tutto normale che qualcuno trovi disturbante il mio modo di rappresentare il mondo. Ma a me sta bene così! Sono in pace con me stesso e non mi interessa il giudizio. Sono consapevole di quanto tutto sia estremamente relativo.
15 Qual è il suo archetipo preferito?
Mi viene in mente “La Grande Madre” e l’origine della bellezza. Che poi è anche l’origine dell’arte. Cito Camille Paglia: “Tutto ha inizio dalla natura ctonia, dal culto terrestre della Grande Madre! In natura non c’è nulla di bello. La natura è un potere elementare, rude e caotico. La bellezza è la nostra arma contro la natura: per mezzo di essa facciamo oggetti e diamo loro un limite, simmetria e proporzione. La bellezza arresta e raggela il flusso turbolento della natura.” Mi affascina!
16 Prossimi impegni?
In termini di programmi espositivi poco o nulla a causa della pandemia in corso. Sto pensando ad un nuovo catalogo monografico e presentarlo, magari, in contemporanea ad una personale. In studio procedo con il mio programma lavorativo sempre incentrato sulla produzione di tavole ad olio che, malgrado tutto, prosegue con discreta continuità.
Jim Crace è tra i più brillanti scrittori contemporanei del panorama letterario inglese. Nato il 1 Marzo 1946 a Hertfordshire in Inghilterra, dopo la laura triennale in letteratura inglese, si arruola nel Voluntary Service Overseas (VSO) e comincia a lavorare come assistente televisivo in Sudan. Nonostante la carriera giornalistica già avviata, Crace si lascia ammaliare dalla narrativa pubblicando nel 1974 sulla rivista letteraria New Review il suo primo racconto “Annie, California Plates”. La sua vita è divisa tra la mansione di giornalista freelance e lo scrittore di racconti. Tutto cambia quando nel 1986 esce il suo primo libro Continent: sono sette storie interconnesse ambientate in un immaginario settimo continente. Il libro raccoglie pieni consensi e viene insignito da prestigiosi premi come il Whitbread First Novel Award, il Guardian Fiction Prize e il David Higham Prize. Il successo riscosso fu così grande che Crace rinuncia al giornalismo per dedicarsi completamente alla scrittura.
Nel 1988 Crace pubblica il suo secondo scritto The Gift of Stones: ambientato prima dell’avvento dell’età del bronzo, racconta di una comunità di operai che abita in un villaggio nei pressi del mare che ben presto deve fare i conti con l’avvento di una nuova era.
Jim Crace comincia ad acquisire una certa notorietà imponendosi prepotentemente nel panorama letterario di quegli anni. La fama lo invade e il romanziere di pronta risposta continua a prolificare la sua produzione letteraria.
Nel 1992 esce Arcadia, il suo terzo libro ambientato in una immaginaria città britannica nel futuro: Arcadia è un centro commerciale che Victor, il giovane protagonista vuole erigere nello spazio occupato dal mercato cittadino. Ad opporsi ci sono però i cittadini che non sembrano disposti a sacrificare il cuore della loro città.
Due anni dopo Crace pubblica Signals of Distress, ambientato in Inghilterra nel 1836,il libro parla del naufragio di un veliero al culmine della rivoluzione industriale. Anche questa opera vince Winifred Holtby Memorial Prize.
La penna di Crace è inaresstabile e nel 1997 arriva Quarantine: rievoca un episodio del Nuovo Testamento, i quaranta giorni di Gesù nel deserto, primo testo tradotto in italiano edito da Guada nel 1998. Con questo scritto approda in Italia. La casa editrice cavalca questa positiva onda di popolarità continuando a pubblicare altri suoi libri: La dispensa del Diavolo nel 2002 (The Devil’s Larder, 2001); Una Storia naturale dell’amore nel 2004 (Being dead,1999); La città dei baci nel 2006 (Six,2003); Tutto ciò che abbiamo amato nel 2010 (The Pesthouse,2007) ed infine il lirico Il Raccolto nel 2016 (Harvest, 2013), insignito del James Tait Black Memorial Prize e dell’International IMPAC Dublin Literary Award.
I suoi romanzi più recenti sono On Heat del 2008, All That Follows del 2010 e The Melody del 2018.
Una storia Naturale dell’amore, è senza dubbio uno dei romanzi più celebri di Crace ma anche quello più singolare e crudo. Il romanzo racconta di una coppia di due coniugi: sono passati trent’anni da quando Joseph e Celice si incontrarono come studenti di zoologia in gita alla baia di Baritone Bay. Joseph, desideroso di ritrovare il sito tra le dune della loro prima volta, guida Celice in una nostalgica visita di ritorno alla Baia, ma la coppia viene uccisa da un ladro di passaggio. Nel momento della morte, Joseph stende delicatamente la mano sulla gamba di Celice. Scoperti per giorni, i corpi diventano preda di granchi di sabbia, mosche e gabbiani.
Il romanzo si snoda in quattro fili narrativi: il primo racconta le avventure dei coniugi dalla partenza per Baritone fino all’omicidio; il secondo, gli inizi della loro storia d’amore; il terzo descrive minuziosamente lo stato di decomposizione nel susseguirsi dei giorni infine il quarto racconta gli sforzi di Syl, figlia dei coniugi, per ritrovare i genitori scomparsi.
I quattro filoni si interrompono costantemente l’un l’altro, eppure il romanzo nel suo complesso è estremamente efficace. Nonostante le premesse tragiche il finale è molto tenero: il gesto di Joseph, che appena prima di morire appoggia la sua mano sulla gamba di Celice, è racchiusa l’essenza dell’amore che sopravvive alla morte. L’amore conferisce ai coniugi una consolazione conferendogli un’eterna umanità.
Jim Crace e la sua Craceland
Realismo destabilizzante o fabulismo inquietante sono le diciture usate dai critici per definire lo stile di Crace. L’autore lo chiama semplicemente “Craceland”, godendo della stima sia ai piani alti, tra critici e giornalisti, sia tra il pubblico. Questo perché il suo stile è unico, senza precedenti: lo scrittore, attraverso i suoi romanzi punta a ringiovanire generi del passato come il romanzo distopico, il romanzo di ricerca, il bestiario medievale e il fabliaux, inserendo una forte componente apocalittica, visionaria ed emotiva. Crace, attraverso l’evocazione di mondi immaginari, tratta di temi universali quali la vita, la morte e la paura per il futuro.
Il New York Times lo ha descritto come “uno scrittore magistrale, perfetto per i nostri tempi incerti e spietati”, l’unica certezza però è che i suoi libri sono sorprendentemente destabilizzanti per chi li legge, preso dal potere ritmico della sua prosa, costruita su vivide immagini fisiche e brillanti atmosfere e scaturite dallo spirito elegiaco e straniante del tagliente e spesso paradossale autore inglese che ama sfidare i suoi lettori.
“Dalla corsia, guardando verso il profilo dei salici sul ruscello, l’estremità superiore del nostro prato d’orzo, irto e tremante nella brezza, ci ha mostrato finalmente le sue ocre e i suoi cadmi, le sue ambre e i suoi cromi. che per così tanto tempo in questa lenta estate erano deboli e umidi, diventavano simili a noci e zuccheri e promettevano birre e birre invernali”. (da “Il raccolto)
Il presente si arricchirà di passato il 21 luglio prossimo nelle sale del Palazzo Comunale di Caltagirone. In occasione della personale del maestro Lorenzo Chinnici, “Angeli a Calatagèron”, una delle più nobili attività umane, ovvero l’arte, non si presenterà solo come tecnica (la téchne greca), ma diverrà filosofia al suo grado più alto per rendere visibile ciò che è invisibile, facendo sì che tutti si chiedano: ma è l’arte che imita la vita o viceversa? L’invisibile in questo caso è rappresentato da un celebre artista del Seicento che soggiornò a Caltagirone e in altre città siciliane per un anno.
Si tratta di Caravaggio, uno degli artisti più tormentati ed iconici dell’arte, che tra il 1608 ed il 1609 fu nella città calatina, invitato dal potere e dalla magia propria dell’Arte, a lambire questa terra e i suoi cittadini, ospiti e turisti, e a creare un connubio con l’arte del maestro Chinnici. Un avvenimento unico nel panorama della cultura e dell’intrattenimento italiano, che non ha la pretesa di promettere un miracolo, piuttosto ci piacerebbe raccontare una bella fiaba di Sicilia dove i sogni si trasformano in realtà, facendo vivere ai partecipanti un’esperienza eccezionale. L’esposizione rende possibile ritorni importanti, facendo sì che Caltagirone prenda nuova vita come l’anima di Caravaggio, come un’arte rivoluzionaria e diversa, come fu quella dell’artista lombardo, che diventata tradizione, si illumina nuovamente e si unisce idealmente e concettualmente a quella di Chinnici. Perché solo ciò che è antico può apparire sempre nuovo. E’ il sublime dell’Arte.
Un’esposizione imperdibile dunque, che annoda l’arte verista e allo stesso tempo espressionista del maestro Chinnici, legato a figure come pescatori e lavandaie e al paesaggio assolato della sua amata Sicilia, a quella barocca di un pittore entrato ormai nel mito anche per le sue vicissitudini personali: Caravaggio. Qualcuno si domanderà cosa c’entra Caravaggio con Lorenzo Chinnici? Ebbene come Caravaggio, che ha trascorso un anno a Caltagirone, in fuga da Roma per omicidio, e realizzato su commissione privata, il dipinto Natività con i Santi Lorenzo eFrancesco, trafugato a Palermo nel 1969, anche Chinnici mostra la luce e le ombre nelle sue opere, la luce è presente nella natura, entità superiore e nobile, le ombre tra i suoi personaggi, il cui stato d’animo è inquieto, affaticato (per il duro lavoro quotidiano) e travagliato come quello dei protagonisti dei capolavori di Caravaggio, sebbene quest’ultimo sia ovviamente più realista, teatrale e drammatico. Entrambi legati alla meravigliosa cittadina barocca di Caltagirone, celebre nel mondo per le sue ceramiche, i due artisti vanno oltre la moda, e intessono la loro pittura di simboli: quelli di Caravaggio molto oscuri ed intriganti, mentre i simboli di Chinnici sono intrisi di una religiosità nostalgica, di una moralità educativa da trasmettere ai più giovani.
Entrambi impassibili alle convenzioni del mercato dell’arte, fedeli a loro stessi, immersi in un accanimento creativo per Caravaggio tutto tensivo, per Chinnici spirituale e memoriale, i due artisti speculari di questo evento particolare che per qualcuno non attento può risultare fuorviante, sono connessi tra loro anche per il modo di vivere l’arte: pensano e vivono quello che sentono, pensano e vivono il soggetto dell’Arte.
Andando più nello specifico, ovvero nelle similitudini tra il Caravaggio smarrito, inedito, di Caltagirone e il Lorenzo Chinnici che ritrae lavoratori, si può notare sia nel Caravaggio creatore di un ciclo francescano (Annunciazione, Seppellimento di Lucia, Madonna del parto, San Francesco in meditazione, San Francesco penitente, Resurrezione di Lazzaro, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco) che in Chinnici, sebbene trattino soggetti diversi e usino in maniera differente il colore, una concezione di sacro dimessa, umile non solenne, a vocazione popolare, esaltando i tratti più salienti in un figurativo proporzionato.
E’ ipotizzabile che Caravaggio, dovunque si trovi, sia tormentato per il furto del suo dipinto realizzato a Caltagirone? Perché no, d’altronde come diceva Einstein la logica ci porta da A a B, l’immaginazione dappertutto e lo stesso artista non sarebbe tale senza immaginazione. L’evento di Caltagirone ruota intorno all’immaginazione, al racconto di una favola siciliana, alla rievocazione del passato che dà luce al presente, al desiderio di entrare nella mente di un celebre artista, carpendone lo stato d’animo e mettendolo in relazione a quello di un artista del presente che vorrebbe uno dei suoi modelli quale è Caravaggio, presente all’esposizione. Avverrà davvero? Solo chi crede nell’invisibile potrà assistere all’impossibile! Imbottigliamo per un attimo il buonsenso e affidiamoci alla nostra voglia di sognare e di fare noi stessi arte che da sempre è terreno di libertà ed inventiva, precisando a chi legge che non ci sarà una mostra con le opere “francescane” di Caravaggio insieme a quelle di Chinnici, ma la sensazione e l’immaginazione di una corrispondenza ideale tra l’arte e l’animo di Caravaggio e quello di Lorenzo Chinnici.
Considerato universalmente uno dei più grandi maestri del minimalismo, il regista e sceneggiatore francese Robert Bresson (Bromont-Lamothe, 25 settembre 1901 – Parigi, 18 dicembre 1999), Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia del 1989, è stato un intellettuale rigoroso, come il suo collega René Clair. Ma se Clair amava scherzare sui destini umani, Bresson ne ha scrutato impassibile il fluire, osservando il cammino del male nell’animo dei suoi personaggi o seguendone il lungo riscatto, senza intervenire in alcun modo. Bresson si affida solo agli strumenti del cinema: le inquadrature, il tempo, i movimenti della macchina da presa, i rumori, questi sono gli elementi indispensabili per scandagliare l’animo umano. Ma, arrivato sulla soglia di ciò che non potrà mai essere conosciuto fino in fondo, si arresta.
Bresson è stato la spia che il cinema pian piano è andato incontro a quella perdita di identità che avvenne nel dopoguerra; il rigore del linguaggio non può più essere riferito alle teorizzazioni sullo specifico filmico di cui si dibatté nel muto; il regista ha evitato la scorciatoia della narratività perché seguendola non giungerebbe mai al soprannaturale che ha sempre cercato e quindi si è concentrato su ogni singola inquadratura.
Al regista francese è stato attribuito un rigore discendente dal giansenismo: se il peccato originale ha macchiato l’uomo, non resta che l’aiuto della Grazia per redimerlo, sempre quando e dove Dio voglia; l’uomo dunque è schiavo di sé stesso e del peccato di cui non ha colpa. Poco si sa di questo regista austero che ha avuto una formazione filosofica, e dedicandosi anche alla pittura; l’interesse per il cinema arriva intorno ai venti anni, Bresson più si concentra sul rapporto tra autore e macchina da presa più che sull’aspetto narrativo.
Dopo il mediometraggio Gli affari pubblici, girato nel 1932, Bresson rinuncia a proseguire; scoppiata la guerra parte per il fronte, cade prigioniero dei tedeschi e trascorre più di un anno in un campo di concentramento; viene liberato del 1943, si riavvicina di nuovo al cinema realizzando un film scandaloso per gli eccessi di rigore stilistico: La conversa di Belfort, un confronto serrato tra due donne in un convento, una, Anne-Marie giunta per seguire la propria vocazione, l’altra, Thérese vi si è nascosta perché ha ucciso il proprio uomo nemmeno si lascia sfiorare dalla fede. Morendo, Anne-Marie convertirà Thérese.
Con Perfidia (1944, tratto da un romanzo di Diderot), il regista francese riprende il discorso sul male e lo estremizza; la protagonista della vicenda è Hélene, una donna superba che vuole vendicarsi dell’uomo che l’ha abbandonata e fa in modo che anche lui si innamori di una prostituta, con la complicità della madre della ragazza, in cambio di una ricca ricompensa. Il giovane si innamora della ragazza e la sposa, a questo punto Hélene rivela il passato della ragazza, ma quando il male sta per trionfare, interviene la Grazia con la massima “il passato non conta” e tutto finisce bene per i due innamorati. In Perfidia non vi sono colpi di scena o altre trovate che mettano in evidenza la metodica perfidia di Hélene che ha diversi punti in comune con la marchesa de Merteuil de Le relazioni pericolose di Laclos; vi è solo una macchina da presa “inquisitiva” che isola i dettagli e imprime sullo schermo una gelida fotografia.
Nel 1950 Bresson ricava dal romanzo omonimo dello spiritualista Georges Bernacos, Il diario di un curato di campagna. La vita ascetica del giovane curato di Ambricourt ha in sé i caratteri esemplari del sacrificio. Malato di tumore, il prete tenta con ogni mezzo di convertire gli abitanti del paese, affida le sue sofferenze e i suoi pensieri ad un diario. La sua missione è benedetta dall’eroismo della fede, di fronte a lui il male la fa da padrone; quando il dolore si fa troppo forte, il prete si rifugia nella casa di un compagno di seminario che si è spretato. Si spegne dopo essere stato benedetto da lui e dopo aver scritto al curato di un paese vicino che disapprovava la sua “missione”: “Che importa? Tutto è grazia”. La pellicola affida ad un costante scavo nella natura e nei volti dei personaggi il suo messaggio, un messaggio indiretto, alla Bresson, la cui ambizione, per questo film in particolare, è quella di creare, come ha sostenuto lui stesso, il soprannaturale partendo dal reale. Difficile dire se il proposito è stato puenamente raggiunto, ma di sicuro mai durante il film si ha l’impressione di assistere ad una dichiarazione di fede: “Ogni inquadratura è come una parola, che in sé non significa nulla perché ricava il suo significato dal contesto”, (Bresson a proposito de Il diario di un curatodi campagna).
Il massimo del realismo Bresson lo raggiunge con il film Un condannato a morte è fuggito del 1956, diario delle giornate e delle notti trascorse dal tenente Fontaine nella prigione di Montluc, intento alla preparazione della fuga. I gesti, gli oggetti, gli sguardi, i rumori, i passi, l’alternarsi del buoi e della luce, cancelli che si aprono e si chiudono: è questo il tessuto narrativo del film. Salvarsi per Fontaine significa non solo salvare la vita, vuol dire qualcosa che attiene a quel mistero della Grazia.
Con Diario di un ladro (1959) Bresson realizza la sua opera più compatta sul piano formale: narra la storia di un giovane studente che, prima per necessità poi per vocazione, diviene borsaiolo fin quandouna ragazza cambia la sua vita e gli indica la strada del riscatto. Ha affermato il regista Louis Malle:
“Bresson si spinge più lontano. Trova una soluzione geniale quella che gli appariva la contraddizione insolubile del cinema, c’è la presenza irritante, privilegiata, troppo abile della macchina presa nell’azione: le assegna il ruolo di occhio del creatore. Che esso sia sempre al posto giusto, che ostenti un improbabile virtuosismo, che preveda e controlli tutto ciò che accade non ci stupisce pi ma mostra ancor meglio le intenzioni di Bresson. Se guardate bene questo film vedrete che i personaggi sono dominati dalla macchina da presa, tirati, spinti, trattenuti”.
Con i film successivi l’apertura alla speranza cede il posto al pessimismo: il destino dei personaggi è segnato e il regista sembra mettere in scena le riflessioni esistenziale di Sartre. Au hasard Balthazar (1966) è la tragica parabola esistenziale di Balthazar, l’asino candido e rassegnato che passa di padrone in padrone, registrando lungo l’arco della sua vita tutto il male del mondo. Nessun sacrificio può riscattare un mondo dominato dal male, sembra voler dire Bresson con un linguaggio essenziale e asciutto.
Profondo pessimismo anche in Mouchette-Tutta la vita in una notte (1967), storia della quattordicenne Mouchette che nessuno ama che incontra per caso, durante un temporale, un bracconiere. Costui le racconta di aver ucciso il guardiacaccia; la ragazza lo aiuta a costruirsi un alibi e lo assiste durante una crisi di epilessia. Ma il bracconiere si è inventato tutto: appena può violenta la ragazza la quale, giunta a casa, trova la madre morta. Non sopportando di essere al centro delle chiacchiere del paese, Mouchette si annega.
Così bella così dolce (1969) è un piccolo gioiello nella nouvelle vague: Bresson narra la noia della vita di coppia aggiungendoci un tragico epilogo: di fronte al cadavere della giovane moglie appena suicidatasi, il marito si interroga sulle ragioni di questo gesto estremo. Non ci sono nomi, solo Lei e Lui, negli asciutti ricordi; il suicidio della donna non è un atto di negazione ma di dolorosa affermazione, una ribellione contro la vita meschina, lontana dal vero amore, che però deve lasciare spazio all’altra vita, che inizia con la morte.
Solitudine e poesia caretterizzano il rarefatto Quattro notti di un sognatore (1971), storia di un pittore che vive in solitudine, con i suoi sogni e i suoi quadri; egli non riesce ad approcciare l’altro sesso. Una notte vede una ragazza che vuole suicidarsi su un ponte, la ferma e i due iniziano a conoscersi. La ragazza gli racconta il perché del suo gesto: aspetta il suo amato che le aveva promesso di tornare dopo un anno. Lui la conforta e cerca di aiutarla, ma si innamora di lei. L’uomo amato dalla ragazza tornerà e il pittore soffrirà. Bresson traspone come Visconti, un racconto di Dostoevskij:Le notti bianche, riuscendo ad esprimere la discrepanza tra il mondo ideale che sogna il protagonista e il mondo reale che lo delude. La pellicola offre anche l’occasione al grande regista di riflettere sulla difficoltà dell’arte a essere compresa: il protagonista nasconde continuamente i suoi quadri al mondo e l’unico amico che si vede nel film e che si presenta a casa del giovane pittore, parla dell’arte con una difficoltà di linguaggio incredibile.
Il diavolo probabilmente (1977), penultimo film di Bresson, austero e semiotico, segna il distacco da parte del regista da una civiltà cui egli sente di non appartenere più:: un giovane studente angosciato di fronte alla realtà che lo circonda, che gli appare come governata da una forza oscura (il diavolo, probabilmente), non ricevendo risposte convincenti dalla religione, dal sesso e dalla politica, si fa assassinare in un cimitero da un coetaneo. Anche lui dunque, come Mouchette e la bella e dolce, si uccide, ma il suo è il suicidio più laico che Bresson abbia mai messo in scena. Ha affermato il critico Ugo Casiraghi:
“In un universo che ha rinunciato sia alla ragione sia alla fede, dove il prete ha fatto scappare Dio e lo psicanalista è il nuovo confessore della borghesia, dove la scienza è mistica del potere e lo spiritualismo si frantuma in sette, dove l’unica politica è il rifiuto di tutte le politiche, Bresson non entra in dialettica con le strutture ormai crollate. Né fa i conti con esse: la quotidianità essendo assurda e indecifrabile, la polemica deve apparirgli inutile e banale. Dato che il pianeta è ormai preda di un soprannaturale oscuro e maligno, egli sembra rifugiarsi in un pianeta a sé, in una personale sovrastruttura”.
Nel 1983 Bresson gira il suo ultimo lucido ed intransigente film, L’argent, parabola sulla maledizione del denaro, premio speciale della giuria a Cannes. I giovani cineasti che si sono affiancati a Robert Bresson, lo hanno surrogato ma sono stati pronti a riconoscere la paternità dell’appassionato, spirituale e saggio moralista, appartenente alla parte meno frivola della cultura francese.
A Lost Lady è un romanzo della scrittrice Willa Cather, pubblicato nei primi del Novecento, nel momento in cui la scrittrice manifesta il suo risentimento nei confronti della standardizzazione che caratterizza la vita dei figli dei pionieri. La Cather scruta preoccupata sulla linea d’ombra i segni dei tempi, la corsa all’esteriorità e alla ricchezza. Quest’ultima diviene l’emblema degli anni Venti americani prima della crisi. La Cather avverte la sua disillusione nei confronti della vita moderna e del mondo che la circonda, al punto da sentirne la crisi. I suoi valori divergono da quelli del consumismo e del materialismo, propri della machine-age. La nuova cultura priva di ideali è animata da arrivismo, arroganza e da una darwiniana selezione naturale. Ciò che deriva dal passato è inevitabilmente modificato e limitato alle apparenze. In A LostLady, esponenti di queste due differenti culture sono Captain Forrester e Ivy Peters. Il primo, fedele ad un’economia locale fondata su rapporti di amicizia e lealtà; il secondo proiettato verso un’economia nazionale. Lo scontro tra ideale e reale, presente e passato, maschile e femminile, il difficile rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda costituiscono il filo conduttore di tutto il romanzo.
Willa Cather per data di nascita e appartenenza spirituale è scrittrice di quella generazione collocata tra la guerra civile americana e l’età del jazz: in quella linea d’ombra di cui è simbolo l’espansione della strada ferrata nella prateria, che unisce e separa l’età della società rurale dei farmers buoni e uguali dall’esplodere successivo della ricchezza e della potenza protese sul mondo intero. Questa generazione va verso Est e verso l’Europa (sulle orme di James, Edith Wharton, Gertrude Stein e gli altri «espatriati») a cercare nelle più remote radici le ragioni dell’oggi; oppure si volge verso l’Ovest, il cuore rassicurante dell’America, la piccola comunità dai toni minori, dai colori tenui del crepuscolo, ma con dentro la forza della vera grandezza. Willa Cather va verso l’Ovest, cercando di cogliere la vera beltà degli anni migliori, oramai spazzati via dal presente che porta dentro di sé un’ombra tremula fatta di incertezza.
Filo conduttore della sua produzione letteraria è la lotta dell’uomo sensibile e creativo contro l’ambiente naturale o sociale che lo circonda. La figura del pioniere, dell’artista e del santo assolvono la medesima funzione. La Cather descrive la lotta per la sopravvivenza fisica ma anche intellettuale in una natura selvaggia ed ostile. Ciò determina una serie di conflitti e opposizioni che la romanziera delinea mediante un approccio narrativo che, pur risentendo della tendenza realistica e regionalistica, non può essere relegato nell’ambito del provincialismo, né tanto meno nei limiti estetici del realismo. L’interesse della Cather per la produzione letteraria di Sarah Orne Jewett e di Flaubert rivela la doppia natura della sua arte. L’idea di un mondo fondato su valori semplici, di stampo jeffersoniano, è distrutta dal progresso e quei sogni, scontrandosi con la realtà, divengono amare delusioni. La caducità dei sogni e degli ideali è uno dei temi narrativi che attraversa opere quali My Ántonia, O Pioneers, A Lost Lady.
L’autrice, pur utilizzando un narratore onnisciente (sul modello del romanzo ottocentesco) evita che il suo sguardo miri alla descrizione minuziosa ed imparziale. La voce narrante riporta il lettore quaranta anni prima, in una cittadina del Nebraska chiamata Sweet Water. Sweet Water è un nome parlante dal valore simbolico e suggerisce una duplice connotazione. Una idilliaca, determinata dallo scenario naturale che circonda casa Forrester; l’altra meno sognante. Infatti, al concludersi di un’epoca, tale idillio diviene apparente e la dolcezza evocata è ormai perduta per sempre. Basti pensare all’incedere della ferrovia (simbolo del progresso) che minaccia la prateria.
A Lost Lady è un viaggio nel passato, animato dai ricordi che ruotano intorno a casa Forrester. La Cather ritiene che la gioventù coincida con il tempo delle aspirazioni, del desiderio e delle passioni e che sia l’origine di ogni impulso creativo. Ritorna spesso nei luoghi dell’infanzia, in modo da creare visioni romantiche di ciò che è oramai perduto. Il passato rappresenta per lei una miniera letteraria e un mezzo per ritornare a se stessa. Il passato rappresenta per l’autrice una fonte d’ispirazione ma è attraverso la scrittura che se ne appropria e ne prende pienamente coscienza, poiché per la Cather nulla è realmente perduto o inutile. Il flashback è la tecnica narrativa che permette all’autrice di mostrare la funzione del passato sul presente, diventando in alcuni casi più importante dell’azione stessa.
Il romanzo comincia con la distinzione tra due classi sociali: gli agricoltori, che sono a Sweet Water per guadagnarsi da vivere, e i proprietari terrieri, che investono del denaro ma che sancirà il declino di un mondo. La ricchezza dell’aristocrazia locale non è evocata attraverso il denaro, bensì per mezzo della natura selvaggia, che potrebbe diventare una risorsa economica e che il Capitano si ostina a tutelare per il suo valore estetico. La distruzione dello scenario naturalistico coincide con la transizione del potere da un’epoca culturale ad un’altra. Mrs Forrester è uno dei pochi personaggi all’interno del romanzo ad aver compreso in quale modo sia mutata la società. La Cather ha dotato di pragmatismo una figura femminile e ciò costituisce una scelta da non trascurare. Mrs Forrester non cede a facili imbarazzi in compagnia maschile, è disinvolta e di ottima compagnia. Nel suo agire è agli antipodi di Madame Bovary. Quest’ultima si è educata alla vita e all’amore attraverso le letture sbagliate, perdendo di vista la linea di demarcazione tra reale e finzione letteraria. Non disdegna la vita mondana, l’essere corteggiata e l’amare perdutamente come nelle tragedie, sino a morirne. Mrs Forrester è più realista, non rincorre l’amore ma conquista uomini ricchi in grado di garantirle quel che desidera. Interpreta il ruolo di moglie premurosa, ma la Cather, esaltandone i gesti, gli angoli del viso, gli sguardi e gli occhi, fa intuire che il suo animo cela una verità che il lettore è in grado di apprendere solo in parte. Mrs Forrester è forse uno dei personaggi più complessi del romanzo e intensificarne il mistero contribuiscono le sfumature che la Cather aggiunge in ogni capitolo. È possibile percepire la crisi dei valori nella società moderna attraverso questa singolare eroina e non attraverso Neil o il Capitano. Infatti, nei personaggi maschili non esiste una maturazione o una reazione al progresso e ai suoi valori antidemocratici. Neil appartiene per data di nascita e per educazione alla nuova generazione, anche se non ne condivide i valori; il Capitano è talmente ancorato ai valori jeffersoniani e al passato da non avvertire quanto i tempi siano mutati. Le contraddizioni e la crisi d’identità sono da ricercare in Mrs Forrester e l’aver reso una donna la depositaria di un disagio, rende più complessa e difficile la sua realizzazione sociale.
L’autrice si oppone agli stereotipi letterari e ne mostra i pericoli, anche se in modo meno critico rispetto a Virginia Woolf e Katherine Mansfield, le quali affrontano la critica agli stereotipi da una prospettiva femminile (e femminista). Non c’è progresso, cambiamento e sviluppo laddove si riscontri un idealismo nutrito da sentimentalismo. La Cather mostra che ogni forma di idealismo fa perdere il contatto conoscitivo con il presente e non permette di cogliere la vera essenza delle cose.
In A Lost Lady un ulteriore nucleo tematico è costituito dal rapporto tra l’uomo e la natura. Si riscontra che non è possibile alcuna relazione costruttiva poiché l’uomo distrugge le lande selvagge in nome del progresso e si arricchisce per mezzo di tale distruzione. L’importanza che la Cather attribuisce alla natura è rintracciabile nel suo interesse per Emerson ed il trascendentalismo. Emerson propone un abbandono emotivo dell’uomo alla natura per conquistare la libertà e prendere coscienza del proprio esistere. L’uomo diviene incapace di valori positivi quando perde ogni rapporto con la Natura e la distruzione dell’ambiente naturale che lo circonda coincide con l’inaridimento del proprio animo, con l’incapacità di amare e con il rendersi fautore di nefandezze e crudeltà.
La seconda parte del romanzo coincide con il senso di decadenza poiché le illusioni che caratterizzano la prima parte sono qui inevitabilmente perdute. La giovinezza, gli ideali, la speranza, l’amicizia, il piacere di inebriarsi della natura appartengono al passato, il presente coincide con la perdita e la presa di coscienza da parte di Neil dell’ineluttabilità degli eventi (e del destino umano). Il gusto estetico che tutelava l’ambiente naturale è ora sostituito dalla distruzione e da un utilitarismo nutrito da una spregiudicatezza che annienta ogni idealismo. Tutto sommato, i pionieri hanno distrutto per primi le foreste per costruire delle fabbriche di fiammiferi, si sono sostituiti ad una cultura preesistente con violenza ed arroganza; la nuova generazione è figlia di quella precedente, ne ha ereditato i valori ma, a differenza dei progenitori, evita ogni idealismo e ipocrisia. Gli ideali si rivelano inutili se il fine è il medesimo: la sopravvivenza del più forte.
Il personaggio di Mrs Forrester è ben lontano dalle eroine che tentano di affermarsi socialmente attraverso la propria indipendenza economica e la coltivazione del proprio intelletto, come il personaggio di Olive in TheBostonians di H. James. Non si può cogliere in Mrs Forrester nessuna emancipazione ma una trasgressione alle convenzioni. Per esempio, non approva che le donne fumino, poiché secondo lei il fascino femminile risiede nella diversità dagli uomini. Si può cogliere una nota polemica dell’autrice nei confronti del movimento femminista, che, proponendo pari opportunità per le donne, più che rappresentare un incentivo per l’innovazione sociale mediante una profonda adesione ideologica, è stato da molti limitato ad un atteggiamento superficiale. La Cather prende le distanze da ogni scelta suggerita da una tendenza comune e dimostra che la vera libertà comincia dall’essere. Inoltre, Mrs Forrester è consapevole dell’importanza del denaro, ma non lo usa per raggiungere una propria autonomia, come propone la Woolf in Una Stanza Tutta per Sé, ma per una felicità materiale comunque raggiunta attraverso un uomo.
La realizzazione personale di Mrs Forrester è determinata sempre da un uomo e di volta in volta ne eredita i valori. Mrs Forrester ha un’unica ansia: il tempo. Tenta di fermarlo vivendo intensamente e non accettando di invecchiare, in seguito truccandosi in modo eccessivo apparirà grottesca, simile ad una donna da saloon. In lei è assente ogni tentativo di emancipazione, poiché il suo agire si rivela frivolo e limitato alla mondanità.
Attraverso un’attenta forma di costruzione, la Cather conferisce al romanzo una grande intensità narrativa. La conclusione aperta, la mancanza dell’happy end e di precetti da seguire riproducono la condizione dell’uomo moderno che mutando «si è fatto frammentario ed elusivo». L’autrice non prende una posizione predeterminata verso i personaggi e le vicende che descrive; ma cerca una sintesi ed unità attraverso di essi.
La Cather riproduce abilmente il colore locale e i dettagli della vita di frontiera nel Midwest, che in parte conosce per esperienza personale, senza rinunciare al ricorso alla propria immaginazione. A tale proposito non si può ignorare la teoria del romanzo da lei sostenuta e l’importanza che attribuisce all’immaginazione. Quest’ultima contribuisce a rendere il processo artistico qualcosa di misterioso che non può essere misurato dal ragionamento. Facendo tesoro della lezione di Poe, Willa Cather riesce a materializzare un tono o un’atmosfera in immagini precise, inserendole in una scenografia. La «magical memory» rappresenta per la scrittrice una fonte d’immaginazione, poiché senza il potere creativo di quest’ultima, la memoria non potrebbe produrre opere d’Arte. La romanziera ricorre alla semplificazione, alla riduzione della storia a favore della scena e all’immaginazione per occuparsi del campo riflesso della vita, del mondo dell’interiorità, de «l’umana fragilità e sofferenza».
All’interno del romanzo si possono riscontrare numerose opposizioni tra: la campagna e la città, il genio artistico e la mediocrità, la natura e l’artificio, l’ordine e il caos, il maschile e il femminile. Ma il conflitto più grande resta quello tra la mediocrità e l’eccellenza, tra il pretenzioso e la mente colta, tra l’imprigionamento dello spirito umano in preoccupazioni grette e ridicole e il suo appagamento attraverso la liberazione di forze creative mediante l’Arte, la natura e le relazioni umane.
Nemici dell’Arte sono la cupidigia, il conformismo, la passività e la mediocrità, che caratterizzano i personaggi in ALost Lady. La Cather indaga le conseguenze di questi nemici dell’energia creativa in molteplici aree tra loro differenti quali le relazioni umane e gli eventi sociali. C’è spesso nei racconti di Willa Cather, un’immagine di delicata bellezza che ci viene presentata al principio della narrazione, tratteggiata per mezzo di successive pennellate brevi e precise, che insistono sullo splendore e l’intensità di uno sguardo o sui chiaroscuri di uno spazio interiore. Ma man mano che quell’immagine diviene nitida nella mente del lettore, si avverte l’aleggiare di qualcosa d’ignoto e grigio, come il progredire di un’ombra.
Willa Cather riserva grande attenzione allo stile, riuscendo a misurarsi con immagini di povertà e di squallore materiale. La convinta riproposta del mito americano del self-made men è corredata dalla postilla per cui la vita da liberi pionieri dev’essere concreta, essenziale, persino frugale. Così su un isolotto sperduto del Nord Atlantico o nelle praterie del Nebraska o nel caos di New York, il passo attento e leggero dello stile della scrittrice ci accompagna mostrandoci la trama e l’ordito delle esistenze, il farsi e disfarsi dei destini. Ed è bello regolare la nostra andatura di lettori sulla melodia del suo stile.
La solitaria e “antipatica” (come si definiva lei stessa) Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998) è stata una scrittrice di rara sincerità, forse è proprio per questo suo modo di essere che, quando era in vita, era poco ascoltata, e oggi quasi per nulla ricordata. Il suo vivere deliberatamente in solitudine e il suo carattere riservato che non si sposava affatto con la mondanità sono da considerare soprattutto in riferimento all’insofferenza della Ortese per i circoli letterari, le apparizioni in pubblico, le promozioni editoriali e i salotti culturali.
Questi aspetti (spesso noiosi) che fanno parte della vita di uno scrittore in realtà contribuiscono in buona parte al successo di un’opera, intendendo però qualsiasi opera, anche non di qualità se pensiamo soprattutto ai successi improvvisi ed effimeri di alcuni “scrittori” che utilizzano selvaggiamente il web per promuoversi, nonché alla mediocrità di certi eventi letterari. Anna Maria Ortese avrebbe mal sopportato tutto questo ma bisogna anche ammettere che molte volte il carattere di uno scrittore ha determinato anche se poco la buona o cattiva riuscita di un libro da un punto di vista commerciale. Farsi conoscere quanto più è possibile se si ha talento non è certo un male e accusare sempre l’ambiente culturale, gli addetti ai lavori e gli accademici di fare ostruzionismo non del tutto realistico, sebbene nel caso della Ortese ciò abbia un fondo di verità.
La scrittrice romana è stata osteggiata inizialmente da una platea maschile di letterati criticata a sia volta dalla Ortese in Il silenzio della ragione,e poi costretta a chiedere di usufruire della Legge Bacchelli per sopravvivere alla miseria, condizione che oltre ad umiliare la persona umilia la letteratura stessa. Ma la Ortese ha saputo lottare con dignità, ma non facendo la rivoluzionaria, bensì rinnovandosi, nella forma e nella sostanza, lasciando parlare al suo posto i propri libri che mettono a nudo l’anima della scrittrice, nonostante ella non abbia mai voluto piacere per l’immagine che la rappresentava.
Ma come si “palesa” l’anima di Anna Maria Ortese?Cosa ci dicono le parole contenute nei suoi libri? Prima di tutto si percepisce uno stretto legame con realtà, quella realtà con la quale la scrittrice era sempre stata in polemica, ma anche un desiderio di giungere al bene, all’amore e alla giustizia. In bilico tra realismo e surrealismo che ricorda il realismo magico di Garcia Marquèz e di Bontempelli (che tenne a battesimo la scrittrice), la Ortese si contraddistingue per un potente autobiografismo lirico mai influenzato da canoni ideologici e poetici, partendo dalle esperienze dolorose.
Prendiamo in esame il libro Poveri e semplici del 1967, un meraviglioso racconto di atmosfera da bohème, che si muove tra l’esistenzialistica e comunistica, un racconto fatto di tanti nomi e luoghi che trovano riscontro nella realtà e precisamente nella città di Milano, dove si svolge la vicenda. Qui, persino le discussioni politiche appaiono incerte, scivolando in chiacchiere di svago, tale aspetto insieme a ai personaggi che appaiono scompaiono non sembrando affatto figure determinanti del racconto, rende Poveri e semplici un libro di incanto, di invenzione che però non sfocia nel sogno.
Anna Maria Ortese trasporta la realtà in una dimensione tutta sua come dimostra già uno dei suoi primissimi romanzi Angelici dolori, opera che trasuda patetismo sentimentale e istintivo realismo.
In Il mare non bagna Napoli la scrittrice trova un felice compromesso tra realtà e fantasia fotografando la meravigliosa confusione di una città particolare ed unica come Napoli cogliendone le più disparate e differenti voci affidandosi ad un’ agile scrittura “giornalistica”, in L’iguana l’autrice si lascia andare ad una fantasia carica di simbolismo. Ma l’opera più significativa della Ortese è senza dubbio Il porto di Toledo, romanzo che si aggroviglia giocosamente su molteplici dimensioni spazio-temporali.
Minor fortuna hanno i romanzi Il cappello piumato (1979), Il treno russo (1983) e In sonno e in veglia (1987). Ma gli ultimi anni riservano delle belle sorprese alla scrittrice: Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996), hanno un ottimo riscontro sia di pubblico che di critica. Successivamente pubblica testi poetici come La luna che trascorre. Tra le ultime pubblicazioni, appare la riedizione del secondo libro della scrittrice, L’infanta sepolta, e la ristampa di due racconti giovanili raccolti in Il monaciello di Napoli (2001). Nel 1997 finalmente la giuria del premio Campiello le assegna il meritato riconoscimento alla carriera.